Luigi Barzini, L’Europeo 26/10/2012 (n°10 Ottobre), 26 ottobre 2012
IL RIVOLUZIONARIO DI BUON UMORE
[Cresciuto sotto l’ala progressista del vescovo di Bergamo e l’influsso del modernismo. Papa Roncalli scuoteva una Chiesa che, all’epoca, temeva "eretici, scismatici e miscredenti"] –
Il Papa viene solitamente eletto in tarda età. I suoi propositi segreti sono per lo più antichi di mezzo secolo. La sua rivoluzione è sempre in ritardo, una rivoluzione di 50 anni prima. Le sue idee sono quelle dei suoi coetanei, ormai quasi universalmente accettate dalla Chiesa, in pratica, anche se non in teoria. Solo di rado un nuovo Papa ha avuto la ventura di essere stato giovane in epoche inquiete e turbolente, quando l’assalto dei non credenti e le incertezze politiche avevano costretto molti a riesaminare alcune tradizioni e abitudini, a chiarire alcuni concetti, a rifiutare idee inutili o dannose. E quando egli, dopo qualche mese dall’elezione, comincia cautamente a porre mano alle riforme o a nuove iniziative, l’effetto è sempre conturbante. Non sono solo i vecchi che vedono realizzate le loro speranze, ma anche i giovani.
E quello che avvenne ad Angelo Roncalli. La sua formazione di sacerdote si svolse in anni che, per l’Italia e per la Chiesa, possono quasi paragonarsi a quelli che viviamo. La democrazia, la rivoluzione industriale, la fine di antichi istituti, la questione sociale avevano reso instabile la tranquilla vita dell’Europa. In Italia dominavano i liberali, che i cattolici credevano fossero tutti mangiapreti, massoni, atei, e miscredenti. I liberali, per riunire l’Italia, avevano dovuto combattere la Chiesa, quasi sempre come principato temporale italiano, qualche volta anche come istituto religioso. Nel cuore di ogni italiano esisteva un dissidio, non ancora sopito del tutto oggi, tra il cittadino e il buon cattolico. In tutto il mondo l’assalto dell’ateismo, dello scetticismo, della critica scientifica aveva costretto alla difensiva le forze della Chiesa. I più vecchi erano per irrigidire le antiche regole, stringere le file, rendere più dura la disciplina. I giovani, come Roncalli, preferivano riesaminare l’eredità dei secoli e distinguere ciò che era eterno da ciò che era caduco, proporre riforme e miglioramenti, per rendere più facile la lotta e più si- cura la vittoria. Roncalli non aveva vissuto una vita solitaria. Ha sempre passato la giovinezza a contatto con la realtà pratica, con gli uomini, con i problemi spirituali e politici. Amava la conversazione, la buona compagnia, la buona tavola.
L’origine contadina, i molti fratelli impegnati nelle faccende di campagna e nelle necessità quotidiane, il servizio militare nella Prima guerra mondiale, la lettura dei giornali «degli altri» (come diceva) e le molte conversazioni e discussioni con chiunque incontrasse, ne avevano fatto un prete insolito, diverso da molti. Aveva idee sue, delle quali una, predominante, doveva influenzare ogni altra, dettare la sua condotta durante tutta la vita, e, infine, caratterizzare il suo pontificato. Era un’idea nata dal contatto con i contadini, con i soldati, con uomini di tutte le qualità e origini e di ogni livello di cultura, in treno, in osteria, nelle mense ufficiali, negli ospedali. Non è, si badi, un’idea nuova, ne rivoluzionaria. Fa parte del bagaglio dottrinario di ogni buon cattolico. In altri dormicchia dimenticata. In Angelo Roncalli era predominante, sempre sveglia. Serviva da guida in tutte le sue decisioni. Gli permise di capire molte questioni complesse, di affrontare con facilità avversari ostili, di farsi amici in molti campi, di avere il successo che ebbe come diplomatico, prima in terra di infedeli, eretici e scismatici (in Bulgaria, Turchia e Grecia, ndr), e poi in Francia, in terra di anticlericali, increduli e di masse operaie scristianizzate.
Roncalli riconobbe presto (o seppe dalla nascita) che anche tra gli irreligiosi, gli agnostici, gli infedeli, come tra gli ignoranti, gli incolti, i rozzi, i primitivi, ai quali nessuno aveva insegnato nulla, erano spesso (non sempre) qualità naturali dell’animo e del cuore, qualità che qualche volta mancavano a cattolici di stretta osservanza. Erano, per esempio, la bontà naturale, l’onestà, la sincerità, la generosità, l’amore per la famiglia e la patria.
Il suo maestro fu, senza dubbio, il vescovo di Bergamo, monsignor Giacomo Radini-Tedeschi, del quale egli fu segretario e devoto ammiratore. Negli anni trascorsi accanto a lui, Roncalli lo studiò come si studia un modello. Quando parlava di lui tracciava inconsapevolmente un ritratto di se stesso: «II suo animo era più disposto a rilevare i meriti che a esagerare i difetti. Trattava chiunque con la massima deferenza e bontà. Sapeva apprezzare l’incanto di una buona conversazione e farlo gustare agli altri. Molto aveva veduto, molto appreso, e parlava con una piacevolezza impareggiabile condendo il suo dire con arguzie gentili e inattese. Il suo brio era sorprendente: si notava nell’anima sua un fondo di gaiezza inesauribile».
Come è noto, monsignor Radini-Tedeschi era associato, nella mente di molti, forse ingiustamente, al movimento modernista, condannato da Pio X. Il movimento proponeva idee che, come quelle attribuite ai cattolici americani qualche anno prima, erano, in modo più o meno attenuato, diffuse a quei tempi tra i laici e i sacerdoti più giovani. Erano le idee di Antonio Fogazzaro, di Remolo Murri e di Tommaso Gallarati Scotti; le idee di cattolici ferventi, per quanto in opposizione al punto di vista ufficiale, e non di nemici della Chiesa. Gli americanisti, per esempio, condannati da Leone XIII nella lettera al cardinale James Gibbons, Testem benevolentiae nostrae, pensavano che, per ottenere più conversioni, la Chiesa dovesse adattarsi ai tempi in questioni disciplinari e anche dottrinarie; che si dovesse ascoltare la voce della propria coscienza più che la guida della gerarchia; che le virtù naturali fossero in un certo senso più importanti che non le virtù soprannaturali; che fosse meglio vivere una vita attiva, onesta e retta nel mondo, che non una vita passiva, ritirata, dedicata alle preghiere e alle devozioni formali. I modernisti chiedevano alcune riforme (che si deducono dall’enciclica di Pio X Pascendi dominici gregis del 1907), nello spirito dei tempi, del progresso e della scienza: riforme dell’istruzione nei seminari di storia, teologia e filosofia; l’eliminazione del contenuto puramente dogmatico del catechismo; la riduzione delle devozioni; una riforma del governo ecclesiastico «in armonia con la coscienza umana che va sempre più verso la democrazia»; la riforma della morale per dare maggiore importanza alle virtù naturali; il ritorno del clero all’antica povertà e umiltà. Naturalmente, nessun modernista si riconobbe nel riassunto delle idee del movimento contenuto nell’enciclica. Infatti le idee loro erano per lo più meno pericolose, meno eretiche, e più sfumate. Proponevano, in sostanza, un nuovo atteggiamento tattico della Chiesa per far fronte ai problemi contemporanei. La loro era l’eterna lotta dei giovani contro gli anziani. Solo pochi tra loro avevano rasentato l’eresia. Quasi tutti si sottomisero all’autorità della Chiesa.
Tutto ciò avvenne negli anni in cui Angelo Roncalli era giovane, soffriva per le condizioni umilianti della Chiesa, per la decadenza della fede e si torturava per i nuovi problemi da risolvere, e serviva monsignor Radini-Tedeschi. Non vi è dubbio che il giovane sacerdote ricevette, da quegli anni, una impressione indelebile. Tutto il suo pontificato ne è la prova. Era possibile, con due encicliche, stabilire il pensiero aggiornato della Chiesa sui principali problemi che angustiano il mondo, il problema politico interno dei vari Paesi, i lineamenti della società cristiana ideale, e il problema politico internazionale, le regole della convivenza tra i popoli?
Forse il Papa aveva il presentimento della sua prossima fine quando aveva gettato le idee per i due documenti fondamentali del suo pontificato, la Mater et magistra e la Pacem in terris, e ne aveva curato la redazione, quasi avesse voluto lasciare un testamento spirituale alla cristianità, una guida per i suoi successori. Il suo più grande dolore in punto di morte fu senza dubbio di non poter assistere alla ripresa del Concilio e aiutare quelle forze nella Chiesa che egli voleva veder trionfare, le forze più vicine a lui, ottantenne, e più vicine ancora al giovane Roncalli di mezzo secolo fa. Non tentavano i "liberali" del Concilio, ai quali andava tutta la sua comprensione, di trovare, nell’ortodossia più assoluta, con il consenso dell’universalità, solennemente, quelle soluzioni ai problemi che i modernisti avevano tentato di risolvere, forse troppo presto, troppo audacemente, e con insufficiente dottrina?
Il Papa Giovanni credeva che la Chiesa dovesse cessare di essere un castello turrito riservato ai fedeli di stretta osservanza, ma si dovesse aprire, per accogliere e aiutare tutti i cristiani. «È la Chiesa che deve portare Cristo nel mondo», disse in un messaggio letto alla radio. Era la Chiesa che doveva accogliere a braccia aperte i fratelli separati, sottolineando ciò che univa tutti i cristiani e dimenticando, per il momento, ciò che li divideva. La morte lo ha colto prima che egli potesse completamente trasformare la Chiesa a sua immagine e somiglianza.
Una Chiesa, cioè, umile, come lui, animata dalla semplice fede dei contadini, delle povere donne, dei bambini, dei parroci di campagna, più che dalle sottili disquisizioni dei pensatori; una Chiesa che servisse agli uomini da guida e sostegno nella vita pratica, non solo da guida morale per allevare e difendere la famiglia, per educare i figli, ma anche per sopravvivere in un mondo sempre più difficile; una Chiesa che desse la giusta importanza ai riti, alla liturgia, alle devozioni, ma anche alle virtù naturali dell’uomo; una Chiesa che accogliesse tutti, pur- ché di buona volontà, preoccupati dell’avvenire degli uomini, e li accompagnasse fin dove era possibile, alcuni fino alla conversione e alla salvezza eterna.
Per la prima volta nella storia della Chiesa egli rivolse un’enciclica, l’ultima, a tutti gli uomini di buona volontà, agli atei, agli agnostici, agli scismatici, ai pagani, a tutti quelli che Angelo Roncalli aveva incontrato nelle osterie, nei mercati, nelle trincee della Prima guerra mondiale, negli ospedaletti da campo, nei treni internazionali, nei bazar dell’Oriente, nei banchetti ufficiali, nei parlamenti. Gente spesso onesta, buona, virtuosa, degna di essere compresa, aiutata, conquistata. Ha detto un illustre teologo protestante, Herbert Vorgrimler, tedesco: «Abbiamo perso il più grande Papa che i protestanti avessero mai visto. Era un uomo buono».
Papa Giovanni XXIII ha dato al mondo ciò che il pensiero, la diplomazia, la cultura, la scienza e l’arte non erano riusciti a dare: la sensazione dell’unità della famiglia umana. Ha invitato tutti gli uomini di buona volontà a riunirsi di nuovo. Se l’invito verrà dimenticato in un mondo assediato dai conflitti e dalla compiacenza dei suoi trionfi materiali, la Chiesa dovrà assumere una parte di colpa. Papa Giovanni credeva che l’uomo va salvato dov’è, com’è, e non dove dovrebbe essere e come dovrebbe essere.