Valerla Palumbo, L’Europeo 26/10/2012 (n°10 Ottobre), 26 ottobre 2012
IL DOPO-CONCILIO? INFEDELE
[Tra i testimoni esterni del Concilio, il professore valdese ripercorre le speranze aperte dalì’assemblea e le delusioni successive, soprattutto in tema di ecumenismo. E afferma: i testi durano più degli uomini, la partita non è chiusa] –
Paolo Ricca, professore emerito della Facoltà valdese di teologia a Roma, è fra le voci più autorevoli dell’evangelismo italiano. Ed è un testimone di rilievo: fu giornalista per l’Alleanza riformata mondiale presso il Concilio Vaticano II.
Professare, come comincio quest’avventura, del tutto inedita per un concilio?
L’iniziativa fu dell’Alleanza, che raggruppa un’ottantina di chiese riformate. Decise di mandare un suo giornalista perché il Concilio, pur essendo cattolico, romano e presieduto dal Papa, si occupava di questioni di fede che interessavano le altre chiese. Poi, dopo il Vaticano I, questo concilio si presentava di particolare interesse.
Giornalista e non osservatore...
Gli osservatori protestanti cerano. Io dovevo occuparmi di una specie di cronaca teologica stampata. Non avevamo accesso alla Basilica di San Pietro, nessun giornalista era ammesso. L’ufficio stampa però diffondeva materiale, sia pure molto filtrato, e io avevo il vantaggio di conoscere alcuni osservatori protestanti, in particolare il professore Edmund Schiink (1903 - 1984, teologo luterano e psichiatra, molto attivo nel movimento ecumenico, ndr), il professor Oscar Cullmann (1902 - 1999, teologo luterano tedesco, ndr), di cui ero amico, Lukas Vischer, direttore della Commissione Fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese, il pastore luterano danese Kristen Skydsgaard. Mi ricordo, in particolare, una sua conferenza - gli osservatori delegati davano anche conferenze - sulla collegialità episcopale. Secondo la dottrina cattolica, come fu poi formulata nella Lumen Gentium, il documento principale del Concilio, doveva bilanciare il primato papale. Skydsgaard disse che c’è un momento in cui la collegialità apostolica si è manifestata nella maniera più evidente: nel giardino del Getsenami, in cui tutti si addormentarono e lasciarono Gesù solo.
E questi osservatori l’aiutarono?
Sì, non solo partecipavano a tutte le sedute: avevano anche i documenti.
Ma in aula non c’erano neanche i giornalisti cattolici?
Sì, c’era per esempio Raniero La Valle, il direttore di Avvenire: con lui il giornale fece un balzo in avanti nelle vendite perché stilò una cronaca vivace e avanzata (si dimise nel 1967, nel periodo di "normalizzazione" post-conciliare, ndr). Non li ricordo tutti, sono passati 50 anni... ma c’era Giancarlo Zizola. Lui purtroppo non c’è più.
Quindi non fu la Chiesa a invitarla... Le sue cronache a chi erano destinate?
Scrivevo un bollettino. A quel tempo ciclostilato... tutto fatto in povertà, diciamolo. L’ufficio che dirigevo era composto da me e da una segretaria, un’olandese, efficiente e poliglotta. Io scrivevo in italiano e lei traduceva in francese, tedesco, inglese e spagnolo. Destinatarie: tutte le leadership delle chiese riformate nel mondo.
Arrivò a Roma attendendosi che cosa?
Confesso che arrivai con un certo numero di pregiudizi. Sa, io sono valdese... non so lei conosce la nostra storia...
Di lunga persecuzione.
Travagliatissima. Quindi...
Aveva buone ragioni di avercela con i cattolici.
Ecco, sì. Non mi aspettavo nulla. C’è una frase nel Vangelo di Giovanni (1,46), a proposito di Gesù, di uno che poi diventa suo discepolo: «Può forse venir qualcosa di buono da Nazaret?». Così pensavo: «Che cosa può venire di buono da Roma?». Attraverso il Concilio ho cambiato idea: ho visto anzitutto la qualità delle tensioni interne alla Chiesa cattolica, la vitalità sia del fronte conservatore sia, e soprattutto, di quello progressista, l’universalità, la diversità dovuta alle latitudini di una chiesa diffusa in tutto il mondo. Oggi le grandi chiese cristiane sono ovunque, ma il Concilio raccoglieva questa diversità di culture e tradizioni in un’unica assemblea. Ricordo un vescovo americano che dopo qualche giorno fece le valigie: non capiva il latino. Non che a molti altri andasse meglio, ma restavano per disciplina. Lui disse no: un piccolo segno di una grande complessità.
Visto che entrambi i fronti erano cosi combattivi, sarebbe stato pensabile questo concilio sema Giovanni XXIII?
È stata una sua ispirazione. Giovanni XXIII non era un grande teologo però era un fine interprete del suo tempo. Capì che nel cattolicesimo c’erano energie nuove che non si sarebbero potute esprimere senza una convocazione conciliare. I vescovi sono arrivati con i loro periti, i teologi, che li seguivano e preparavano molti interventi. Dietro le quinte, era un Concilio di teologi, non solo di vescovi. I due grandi filoni del rinnovamento biblico e del rinnovamento teologico, oltre a quello liturgico, ancora più importante, che erano già in cammino, si sono così espressi in un luogo centrale per il cattolicesimo.
Notevole, visto che, dal Concilio di Trento in poi, a fronte della Riforma, ansa delle riforme protestanti, la Chiesa aveva dato l’impressione di andare indietro, di rifuggire dalla realtà che mutava. La presa di Roma nel 1870 sembrava aver peggiorato le cose.
Giusto, tanto che in quegli anni si parlava del Vaticano II come della fine della Controriforma. "Fine" è una parola eccessiva. Ma fu una svolta rispetto ai precedenti 400 anni. Parlare di fine della Controriforma... nella Chiesa cattolica non finisce mai nulla veramente. Prendiamo il nodo centrale del Concilio: la collegialità episcopale. Il Vaticano II doveva equilibrare il dogma del Vaticano I (1870), che sanciva l’infallibilità papale. Invece, anziché interpretare il primato papale alla luce della collegialità episcopale, si è fatto il contrario. Risultato: c’è più papato oggi che dopo il 1870. Il Concilio della collegialità, defacto, sia pure non de iure, ha rafforzato il papato più di quanto non fosse successo dopo la proclamazione dell’infallibilità. Questo è dovuto in larga misura ai mass-media: consentono un’onnipresenza del Papa che, nel 1870, era solo immaginata, e non vissuta.
Un altro tema del Concilio fu l’ecumenismo. In che termini fu affrontato? È poi cambiato qualcosa nella politica vaticana? In fondo il rafforzamento del papato ha pesato anche fuori della Chiesa...
Sicuramente. Però la svolta conciliare sul piano ecumenico è stata radicale. Fino al Vaticano II, la Curia romana ha seguito la linea dettata nel 1928 dall’enciclica di Pio XI MortaliumAnimos che metteva in guardia contro l’ecumenismo perché "cerca quello che c’è": l’unità esiste già nella Chiesa cattolica, e quindi che senso ha ricercarla? L’unica via ecumenica possibile era dunque il ritorno a Roma dei dissidenti. O addirittura degli eretici come noi. Questa posizione è stata capovolta. Non nel senso che la Chiesa n on ritenga più di essere centrale nel disegno di Dio. Ha sempre la convinzione di essere il centro della rivelazione cristiana, della religione cristiana. Però, oggi, non parla più di un ritorno, ma di un rinnovamento che deve coinvolgerla. Gli esiti poi si vedranno...
Elimina dunque il concetto di eresia? Non siete più "eretici"?
Il termine è stato sostituito da... "i compagni che sbagliano", l’equivalente ovviamente. Noi siamo fratres seiuncti, fratelli separati. Ma la stessa nozione di "fratelli", mentre prima eravamo eretici, crea una rivoluzione, non solo terminologica. Il "seiuncti”, l’essere separati, non ci impedisce di essere fratelli. Si torna alla fraternità cristiana: è una separazione da Roma e non da Cristo. Mentre per i cattolici prima eravamo separati anche da Cristo.
L’obiettivo però resta che torniate sotto l’ombrello papale?
Ufficialmente non è chiesto. Se devo essere sincero, credo che resti sottinteso. Per la Chiesa cattolica il papato è il perno teologico, dottrinale, spirituale e direi anche sentimentale, nel senso di affettivo. C’è una "religione del Papa", anche nel senso migliore della parola, che non condividiamo. Per un cattolico una piena comunione cristiana non è pensabile fuori da questo perno. Quindi in un modo o nell’altro ci dovrebbe essere, dal punto di vista cattolico, il riconoscimento di questo "ministero petrino". Come? I modi non sono precisati. Ne credo che la cosa sia possibile. Certo, il riconoscimento può essere di vario tipo, giuridico, spirituale, ma nella mente dei cattolici resta implicitamente necessario.
Dunque c’è stato uno slittamento rispetto ai temi propriamente teologici. In genere si pensa che la grande differenza tra cattolici e protestanti sia costituita dal tema della grazia.
Il Concilio è sempre stato presentato come "pastorale". Giovanni XXIII nel discorso inaugurale ha insistito su questo. Però qualunque questione di fede ha un risvolto dottrinale: che si parli di libertà religiosa, di rapporto Chiesa-mondo, di sacra scrittura in rapporto alla tradizione e al ministero.... Il tema della grazia non è stato trattato: non era all’ordine del giorno. E stato il grande tema del Cinquecento.
Visto dagli storici apparirebbe un tema teologico partorito da ragioni politiche, sociali, economiche... la Chiesa rinascimentale aveva fatto della salvezza delle anime un vero mercato.
Vero, però guardi che tutto il Medioevo è sotto il segno di una disputa sulla grazia. Di fatto è "il tema", perché riguarda il rapporto tra Dio e l’uomo.
Tornando ai "compagni che sbagliano", il cambiamento era dovuto alla Seconda guerra mondiale? È stato il dramma de- gli ebrei a costringere la Chiesa a rivedere le sue posizioni, a fare autocritica su 500 anni di persecuzioni?
No. Direi che invece è stata decisiva la nascita dell’ecumenismo. Il movimento ecumenico è nato ufficialmente nel 1910. Nel 1948 è stato creato un Concilio mondiale delle chiese a cui aderirono, negli anni Sessanta, non soltanto quelle protestanti, ma anche quelle ortodosse orientali, ossia i grandi patriarcati.
La Chiesa cattolica no?
Assolutamente no: la Mortalium Animos aveva vietato ai cattolici di partecipare a qualsiasi manifestazione ecumenica. Come l’assemblea di Stoccolma del 1925, di Losanna nel 1927, di Utrecht nel 1938, di Oxford-Edimburgo nel 1948. Tutto il cristianesimo storico, dunque, tranne Roma, era confederato in questa fellowship, nel Consiglio ecumenico delle chiese.
Perché allora la Chiesa sentì, l’esigenza di accogliere questa istanza?
All’interno della Chiesa cattolica ci sono stati spiriti molto vicini alla visione del movimento ecumenico. Penso, per esempio, a Paul-Irénée Couturier (1881-1953, sacerdote francese, "padre" dell’Ecumenismo spirituale, accolto dal Vaticano II, ndr) che ha trasformato l’Ottavario per l’unità dei cristiani, ossia la preghiera per il ritorno. Ne fece una preghiera dei cristiani per la realizzazione dell’unità «che Dio vorrà, con i mezzi che Egli vorrà, e nel modo che Egli vorrà» (la propose nel 1935, ndr). Superò l’idea del pellegrinaggio a Roma di tutte le chiese. Questo è avvenuto negli anni Qua- ranta. Poi ci son stati diversi teologi, come Yves-Marie-Joseph Congar (1904-1995, precursore della nuova teologia, ndr).
Quindi non è stato il dramma della Shoah ad aprire gli occhi alla Chiesa?
Non credo. Perché sulla Shoah si è cominciato a riflettere, ma molto lentamente, dopo il Concilio: e penso alla cancellazione della preghiera sui "perfidi ebrei" (Oremus et prò perfidia Judaeis: istituita nel VII secolo, era nella liturgia del Venerdì Santo; Giovanni XXIII fece togliere le parole perfidis e perfidiam dal suo rito nel 1959, ma dal messale sono scomparse nel 1962, ndr). "Perfidi", in latino, non è un giudizio morale: vuoi dire fuori dalla fede. Solo che nei secoli la gente ha smesso di sapere che cosa significasse: si è ripetuto i "perfidi giudei" per secoli e secoli e si pensava fossero "cattivi, malvagi". Quello che è cominciato a balenare nella coscienza cattolica, ma io direi anche cristiana, perché tutte le chiese hanno lo stesso punto zero, è la responsabilità nella Shoah. Cioè la scoperta progressiva dell’antigiudaismo cristiano, che ha una storia millenaria: gli ebrei sono stati peggio sotto i cristiani che sotto i musulmani. E un’amara constatazione. Ma ovviamente non mi riferisco all’oggi.
Direi addirittura che l’antisemitismo musulmano attuale è più erede di quello cristiano che detta storia islamica...
Però, attenzione ai termini: c’è una differenza tra antisemitismo e antigiudaismo. Sono due realtà oscure, spaventose, ma diverse. Anche se poi si sono date la mano, anche nella Shoah.
Visto da fuori, allora, il Vaticano II è stato realizzato e non tradito? Mi sembra, da quello che mi dice, che portava già in sé alcune contraddizioni...
Il Concilio, come sempre nella storia dei concili, è stato migliore del dopo-concilio. Faccio due esempi. Paolo VI ha creduto di realizzare la famosa collegialità episcopale istituendo il sinodo dei vescovi, ma gli ha tolto ogni potere decisionale. L’altro esempio è l’ecumenismo: la Curia romana non ha valorizzato i semi rivoluzionari che erano nel documento conciliare. Uno: l’affermazione della gerarchia delle verità, all’interno della dottrina cattolica. Alcune sono indiscutibili perché hanno un rapporto diretto e vitale con il centro della fede e altre no, e quindi occupano un rango inferiore. Questa idea sarebbe ancora oggi di enorme importanza per il dialogo ecumenico, ma è rimasta lettera morta. Quanto alle altre chiese, nel documento conciliare si dice: non sono senza significato nella storia della salvezza, anzi lo Spirito Santo si serve di queste comunità come mezzi di salvezza. Un’affermazione clamorosa. Per quattro secoli e mezzo si era proclamato che erano strumenti di perdizione, tanto che i cattolici venivano invitati a non entrare in una chiesa evangelica: era "pericoloso". Naturalmente la loro è una qualità "derivata": solo la Chiesa cattolica la possiede interamente. Però, se un’affermazione del genere fosse stata valorizzata avrebbe dato un impulso straordinario al dialogo ecumenico. Invece questa e altre affermazioni fondamentali, contenute nella Unitatis Redinte-gratìo (il decreto sull’ecumenismo approvato dal Concilio e promulgato da Paolo VI nel 1964, ndr) sono rimaste inascoltate. In questo senso il dopo-concilio è stato "infedele". Ma credo che il Concilio trascenda i tempi e che un documento conciliare abbia una durata maggiore di quella dei Papi e della nostra. E quindi può portare i frutti... che avrebbe già potuto portare. A me sembra che oggi ci siano i testi ma non ci sia più quello spirito conciliare che animò l’assemblea, malgrado le opposizioni interne. Per questo anche i testi non parlano più come dovrebbero. Ma credo che lo faranno nel prossimo futuro.
Quindi lei è ottimista?
Ottimista in Dio, se posso dirlo, non tanto negli uomini o in noi stessi. C’è una bella frase del profeta Geremia che, quando vede un mandorlo in fiore, chiede che cosa è. La risposta è: Dio vigila sulla sua parola. Per questa vigilanza di Dio sulle sorti dell’Evangelo e sulle sorti della fede, e quindi sulle diverse comunità cristiane che lo servono, possiamo essere ottimisti.
/ valdesi hanno un atteggiamento molto diverso dalla Chiesa cattolica verso la laicità e il rapporto con Io Stato. Non le sembra che, dal Concilio, il Vaticano non abbia fatto grandi passi avanti?
Non li ha fatti, anche se nella Gaudium etSpes (la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo promulgata da Paolo VI l’ultimo giorno del Concilio, l’8 dicembre 1965, ndr) si riconoscono princìpi importanti, come una certa autonomia delle questioni terrestri e delle autorità civili. Però, vede, la Chiesa cattolica... ha un virus dell’egemonia, che la caratterizza da oltre 1.500 anni, da Bonifacio Vili, e ancor prima da Innocenze III. Per questo si attribuisce una sapienza, una morale e una consapevolezza superiori, e ciò fatalmente incide sull’atteggiamento verso la laicità, che viene etichettata: dev’essere "giusta laicità", "vera laicità", come l’ha definita Benedetto XVI. È la Chiesa, dunque, che deve dire qual è la laicità che va bene: di fatto non le riconosce autonomia. La laicità si può contestare, ma bisogna riconoscerle indipendenza. Come fece Lutero, con la dottrina dei due regni, secondo cui Dio governa il mondo con la legge, e questo è lo Stato. E con la grazia, e questa è la Chiesa. Ma è sempre Dio che governa e quindi lo Stato è autonomo rispetto alla Chiesa, ha lo stesso rango. Il cattolicesimo lo nega.
Autonomia dello Stato o della società? Dello Stato, vero. Glielo chiedo perché l’impressione è che, soprattutto all’estero, negli ultimi anni, anche per alcuni scandali, la tendenza dei fedeli è stata quella di abbandonare la Chiesa cattolica. Non di informarla dall’interno, com’era accaduto in passato. Ovvero mi sembra che ci sia una difficoltà delle comunità di base a far sentire le loro esigenze. È una differenza con le chiese protestanti?
Assolutamente sì. Io stesso mi chiedo come mai i laici cattolici, e ne conosco non pochi di grandi qualità ed energie evangeliche autentiche, non riescano a ottenere ascolto... Be’, certo, ci sono anche i Legionari di Cristo. Ma non mancano forze laiche di prim’ordine: perché non riescono a far emergere le loro istanze? Credo che dipenda in buona misura dalla struttura della Chiesa: clericale e maschile. L’intera leadership, dal Papa fino all’ultimo parroco, è maschile. Questo pesa.
E su questo, nessuna apertura. Anzi.
Per ora no. Però credo che sia decisivo il fatto che il cattolicesimo abbia sempre battezzato le donne. Viceversa, in altre religioni, il segno del patto è la circoncisione. Ovvero: è un patto soltanto maschile. Il battesimo è la base di tutta la ministerialità della Chiesa: questo, prima o poi, farà saltare l’imperialismo maschile. Be’, ci vorranno forse secoli.