Antonio Dipollina, la Repubblica 14/11/2012, 14 novembre 2012
SOCIAL GAME
[Il virus dei giochi di parole nell’epoca di twitter] –
Si possono passare i giorni aspettando Godot ma si può anche tagliare corto e umiliare il medesimo stravolgendo tutto.
Dando buca a Godot, per esempio. Come da titolo dell’ultima fatica irresistibile di Stefano Bartezzaghi. Sottotitolo “Giochi insonni di personaggi in cerca di aurore”, che evoca la notte fonda e una speranza di luce e subito scodella il gioco a base di parole, tracciante per l’intero volume (pubblicato da Einaudi Stile Libero).
Ovvero: tocca passare il tempo risparmiato con Godot a risolvere enigmi? No, è davvero un’altra storia. Il gioco di parole in questione, declinato in una summa travolgente di modi e nodi, è di quelli che contagiano: è virale, ti si appiccica addosso e a quel punto sei tu a inseguirlo e volerlo ancora e di più. Come da storiche tradizioni che portano firme come Gianni Rodari, arrivano oggi alle invenzioni sul palco di Bergonzoni, ma soprattutto coinvolgono tutti quelli dotati di buona volontà autovirale.
Il punto è che le dinamiche con cui si sta appresso ai giochi di parole hanno motivazioni anche più ambiziose. Per esempio domare le modernità, non farsi soverchiare dalla quantità assurda di impulsi quotidiani che arrivano, per dire, via Twitter: ma cavalcarli cercando ordine, usando fatica supplementare quanto ben spesa. Non a caso l’autore avvia il libro evocando tempi in cui i suoi molti seguaci — che Dio li benedica tutti — scrivevano spunti e suggerimenti e nuovi giochi su carta da lettera, affrancavano e via. E Bartezzaghi a catalogare, mettere ordine — fatica tanta anche lì, anzi — manipolare. Esserci anche adesso in tempi in cui scopri che a decine o centinaia sparsi per il Paese possono trascorrere la sera di un sabato estivo collegati via smartphone e giocando nel famoso tempo reale a cose come “Canzoni della sanità” (esempio: Pubalgia canaglia) diventa un punto d’onore. Perché la morale non cambia e Bartezzaghi la ricorda: le parole giocano da sole, per conto loro, anzi giocano con noi, alle nostre spalle, i meccanismi sono noti finché qualcuno non ne scopre uno inedito. Ma poi fanno tutto loro: ci sono giochi di parole che si potevano fare trent’anni fa e che oggi farebbero ridere (provate usando: Telescrivente) e altri che saranno giocabili all’improvviso domani perché diventerà famoso un tizio che si chiama Petraeus che ha un insidioso verbo italiano mescolato nelle lettere del cognome; o giochi che nascono perché un bel giorno si mette a nevicare forte a Roma e il sindaco non ci fa una gran figura (“E’ la sotto, sale?” da leggere nelle due direzioni).
Dando buca a Godot ha il pregio di tenere insieme il passatempo classico quasi da purista, come il palindromo, con spunti molto più recenti o che suonano ostici al visitatore occasionale, fermo restando che basta spendere pochi secondi per afferrare il senso. “Tautoproverbi”, in sé, è termine spaventevole. Alla fine si tratta di prendere un proverbio noto e renderlo in modo che tutte le parole inizino con la stessa lettera, a propria scelta.
“Camminare con claudicante
comporta contagio claudicatorio”. Cos’è? Ovvio, perbacco, è “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”: da pazzi, ma vuoi mettere il gusto. Ed è con un minimo di timore che si scopre che esiste chi ha preso un proverbio solo (Dio li fa e poi li accoppia) e lo ha fatto girare in tautogramma con tutte le lettere dell’alfabeto (la C? Eccola: “Creatore crea costoro, che comporranno coppia coerente”. Da svenimento. La Z, c’è qualche forzatura, ma è meglio rimandare al testo).
Al capitolo quasi-novità ci sono i prefissi, ma quelli falsi. Si è iniziato non molto tempo fa ed è diventato uno spasso vero.
“I denti in condizioni precarie” sono tali, la frase fila via liscia. Ma quel precarie è anche precarie e si autolegittima. E via verso il sublime: qualcuno riuscirà mai a contattare gli autori del testo italiano di una canzone di molti anni fa e scoprire se fecero apposta a far cantare al greco Demis Roussos un titolo che rinnegava (“Profeta non sarò”) il cibo della sua terra? E avanti, in topless si potrà stare solo nella spiaggia protetta, se sei in ritardo per il treno ti metti a correre perché subentra l’ansia da preStazione e giunto a Pavia vai a cena in quel ristorante subito dopo il Ponte, in quanto è davvero un bel posTicino. Giochi che contagiano, come ribadito dall’autore nella prefazione (che chissà se precede un qualche schieramento).
In un testo che cita anche i super-compagni di giochi come Umberto Eco, o Benigni o Paolo Conte, l’invito è quello a costruire per se stessi la scaletta di riferimento. Il metodo è compilativo e quasi tutti i giochi stanno in una riga sola e di facile lettura: poi, per impallinati veri, sbuca qui e là l’esortazione all’impegno. Tutti hanno giocato una volta nella vita a inventare i falsi nani di Biancaneve (il nano che sta dappertutto è Prezzemolo, quello che va al mare in Veneto è Iesolo, etc) ma è solo dagli acuti complici del Bartezzaghi che è arrivata un giorno la casistica dei falsi-falsi nani, ovvero quelli veri trasformati in falsi, ovvero, per esempio, Pisolo che è il nano di Pisa. E qui ci si ferma, rimandando alle centinaia di altre suggestioni presenti nel libro, sperando che sia arrivato il senso della lunga battaglia condotta da Bartezzaghi: ben al di là della semplificazione del mescolare alto e basso ma molto addentro a una sintesi in cui il popolare si eleva a potenza e si nobilita credendo nelle sue possibilità. Ossia, spesso, giocandoci sopra.