Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 13/11/2012, 13 novembre 2012
EUGENIO SCALFARI, L’INCONTESTABILE
Con affettuosa premura Angelo Cannatà – curatore del Meridiano scalfariano e autore di Eugenio Scalfari e il suo tempo (Mimesis edizioni, 2010) – ha spiegato con un intervento sul Fatto di sabato, la “verità” sulla rottura Scalfari-Pannunzio, “perché nessun lettore ingenuo pensi che ci sia la volontà di demolire l’immagine del fondatore di Repubblica”. Certi della gratitudine di quelli che, tra i lettori, si siano riconosciuti nella definizione di ingenui, ci si prende qui la libertà di rispondere.
Il “dubbio” di Cannatà è che presentando il carteggio tra Mario Pannunzio e Leo Valliani (in due lettere il fondatore del Mondo si occupa di Scalfari, “un pasticcione e libertino, politico, economico, un instabile”), non si sia provveduto a contestualizzare la rottura tra i due giornalisti. Nel paese in cui i monsignori contestualizzano le bestemmie, l’articolo “Quell’instabile di Eugenio”, è certamente apparso blasfemo.
Il giornalista non è uno storico, eppure corre l’obbligo di far notare che le due lettere in cui Pannunzio parla del fondatore di Repubblica, sono datate una 1962 e l’altra 1965: segno che le opinioni espresse si erano ben radicate in Pannunzio. E si fatica a pensare che quelle che Cannatà chiama pericolosamente “verità” siano tali: le sue conclusioni sono tratte dalle lunghe conversazioni con Scalfari (che ci riporta con tanto di convenevoli: “Fu uno scontro duro, caro Angelo”). Visto che si contesta il metodo, pare giusto sottolineare che l’esegesi si dovrebbe fare sulle fonti, testimoniali certo, ma anche documentali. Come avverte Scalfari, “La sola storia possibile è quella che si ricostruisce da dentro, attraverso la memoria di sè”. Quanto alle questioni più attinenti a noi artigiani dell’informazione, la pubblicazione di un epistolario inedito, come è quello tra Pannunzio e Leo Valiani (Democrazia laica, Aragno editore), valeva la pena di una recensione. Anche se il Corriere della Sera se n’era occupato qualche giorno prima del Fatto, senza notare le epistole scalfariane: forse il professor Galli della Loggia non ci ha fatto caso. Una distrazione? Forse, comunque più sgarbata che gratificante. Non so come Cannatà possa dire con tanta sicurezza quali parti ho letto e quali no de La sera andavamo in via Veneto: nel dare conto dei dissidi tra le anime del Mondo mi pare di aver fatto ampiamente capire quale fosse il contesto (“Gli anni Sessanta albeggiano e gli screzi tra il Mondo e il Partito radicale, che tante firme del giornale avevano contribuito a far nascere, cominciano a diventare scontri: sulla politica estera e su quella interna, soprattutto in merito ai rapporti con quel Psi che Scalfari avrebbe poi sposato, diventando deputato nel 1968”). Ho cercato di trasmettere il punto di vista del fondatore di Repubblica, citando più volte e testualmente il famoso memoir. Pannunzio rende partecipe Valiani di un giudizio sulla persona di Scalfari, non sulle scelte politiche. Lo dice ambizioso e arrivista: come si è formato questo convincimento in Mario Pannunzio? Cannatà è sicuro: “Non si tratta, qui, di discutere della validità o meno delle ragioni di Pannunzio: c’è una visione culturale, una certa idea (elitaria) della politica all’origine dello scontro. Questo conta”. Sarà la “verità”?
Assodato che il carteggio ci era parso degno di un articolo di giornale (e sperando di aver illuminato lettori, scaltri e ingenui, e amletici curatori) resta da chiarire l’aspetto più fastidioso che sta nelle ultime – licet? non elegantissime – righe dell’articolo di Cannatà. Dove affondano le ragioni di questa risposta, sulla quale si sarebbe altrimenti volentieri sorvolato. S’insinua che ci siano motivi occulti: “La diversità d’opinione – sulla trattativa stato-mafia – va bene. Altro non è lecito nemmeno pensarlo”. Visto che non è lecito pensarlo, figuriamoci quanto è lecito scriverlo. Perché negando, l’intenzione è chiaramente quella di affermare . E questo no, caro Cannatà, non è consentito. La posizione che questo giornale ha avuto e ha - manifestamente, senza nascondimenti - sulle vicende della trattativa è assai nota. Non impedisce di raccontare una storia che nulla ha a che fare con le posizioni di Scalfari o di Repubblica sul processo di Palermo. Suggerire, come fa Cannatà, che ci sia un legame è davvero una dolosa inferenza. Non c’era, in nessuna parte dell’articolo “pannunziano”, nè insolenza nè allusione che giustifichi l’insinuazione. Per il mercante anche l’onestà è speculazione? Citarsi è un gran brutto esercizio, ma qui è utile: sembra che Cannatà non abbia letto la recensione al Meridiano da lui curato, apparsa sul Fatto e da me firmata. Il severo maestro l’aveva trovata “oggettiva”, aggettivo che verosimilmente si può interpretare come “priva di pregiudizi”. Scalfari ha rotto il tabù della sua gioventù fascista (“sono stato fascista finché non sono stato espulso dal partito”) e perfino quello della sua complessa vicenda sentimentale, a fianco di due compagne di vita.
Ho intervistato Eugenio Scalfari quando uscìScuote l’anima mia Eros: ribadì in quell’occasione tutto quello che pensava (e non erano carezze) del Fatto. L’ho scritto, senza modificare una virgola del suo pensiero, senza inseguire forzature. Soprattutto trattandolo da maestro quale è, senza venerazioni che fanno torto all’intelligenza dei venerati e all’integrità dei veneratori. Tentando la strada di una laicità di cui ci sarebbe parecchio bisogno in un Paese incapace di pensiero critico, instupidito dalle personalizzazioni e anestetizzato dagli slogan. E dove può capitare che un Vasari zelante arrechi più danni che vantaggi.