Ugo Intini, Libero 13/11/2012, 13 novembre 2012
IL DELIRIO COMUNISTA CONTRO GLI SPOT IN TV
L’Avanti! capisce che la modernità passa innanzitutto attraverso i media e cerca di guardare al futuro, avanzando osservazioni ovvie oggi, ma che allora, se fossero state ascoltate e avessero prodotto comportamenti conseguenti, avrebbero forse evitato molte arretratezze strutturali del Paese negli anni 2000. Il conflitto continuo tra Rai e Mediaset appare all’Avanti! irragionevole e l’idea di spezzettare la seconda anacronistica, perché i due gruppi italiani sono già non troppo grandi, ma troppo piccoli. (...). Il quotidiano socialista cerca di aprire le sue veccchie, povere pagine al vento della modernità e non si dà pace del paradosso per cui, nel settore più proiettato verso il futuro, in Italia è prevalso un conservatorismo esasperato. Lo spiega con le caratteristiche di quella cultura tipicamente italiana che aveva ostacolato le autostrade, le modernizzazioni e successivamente, in nome dell’austerità berlingueriana, il cosiddetto “consumismo”. (...). La battaglia culturale contro questo conservatorismo raggiunge il suo culmine durante il dibattito sulla nuova legge televisiva, anche perché Veltroni e i dirigenti comunisti che si occupano del settore sono cresciuti alla scuola dell’austerità berlingueriana. La pubblicità è al centro della contesa, quando il PCI lancia lo slogan “non si può interrompere una emozione”, sostenendo che deve essere vietata l’interruzione pubblicitaria dei film in TV e trovando il sostegno entusiasta di una parte consistente della cultura e del cinema. Il quotidiano socialista, che già su questi temi si era scontrato con Pasolini, non esita a contrastare i “mostri sacri” della letteratura e dell’industria cinematografica. Cita diligentemente la famosa scrittrice Natalia Ginzburg per osservare con rispetto che è si una grande artista, ma che è fuori dal mondo moderno. «Leggiamo - osserva l’Avanti! - le illuminanti parole sull’Unità di una autorevole scrittrice e parlamentare eletta dal PCI come Natalia Ginzburg. La pubblicità, afferma la Ginzburg, è lo specchio di profonde deformazioni culturali ed è uno spreco enorme di energia e di denaro. Denaro nostro per giunta, dal momento che su qualunque cosa paghiamo un vero e proprio sovrapprezzo rappresentato dalle spese pubblicitarie. Mi ricordo un viaggio in Unione Sovietica - prosegue - avvertivo indistintamente un’atmosfera straordinaria e non riuscivo a capire da cosa fosse prodotta. Alla fine, me ne sono accorta: lì non c’era la pubblicità ». L’Avanti! ha una vecchia passione per l’attore Volontè, ma lo cita come l’esempio di una cultura cinematografica destinata a seppellire l’industria italiana del settore o a farla vivere in un microcosmo provinciale alimentato dai sussidi statali (come avverrà). «Un intellettuale che onora il cinema italiano - scrive il quotidiano socialista - il mese scorso affermava su La Stampa che “il cinema è un rito”, che la televisione va combattuta perché “consuma e ci consuma”, che il cinema “no, non può essere un’industria”». L’Avanti! prosegue contestando il mondo che si è schierato intorno alla battaglia del PCI, o meglio, che l’ha legittimata, ispirata e guidata. «Chi non vuole ingannare l’opinione pubblica - scrive - deve dire sinceramente quale è il vero punto di arrivo del “proibizionismo pubblicitario”: un cinema artistico di élite. Tutte queste concezioni pre moderne e pre industriali, in un mondo ormai post industriale, si radicano in un impasto fortemente conservatore, provinciale e tipicamente italiano, costituito dal mix di tre elementi: il conservatorismo del comunismo tradizionale, sospettoso e ostile verso il mercato, influenzato da intellettuali “organici” con una attitudine autoritaria e didascalica verso le “masse”; il conservatorismo di una parte minoritaria del mondo cattolico, stretto da un pregiudizio che confonde il consumo con gli eccessi consumistici ed edonistici; il conservatorismo di una certa cultura aristocratica ed elitaria, ostile per definizione alla civiltà di massa. Se questo mix conservatore non fosse stato sconfitto negli anni ’80, perdurerebbe l’anomalia di un “caso italiano” nel mondo occidentale. Ma sui terreni più delicati qualche radice del mix può rinvigorirsi. E può rinvigorirsi con una forte iniezione di demagogia e di corporativismo. Ad esempio la demagogia di chi vuole offrire gratis o a prezzi calmierati per legge prodotti televisivi il cui unico prezzo è la pubblicità. Il corporativismo di quegli intellettuali del cinema che hanno una concezione sacrale e didascalica della propria funzione. Al punto da considerare lesa maestà la critica a un grande regista che produca un film spendendo venti miliardi e ne incassi meno di due, tentando poi di accollare il passivo allo Stato. Il corporativismo di quegli imprenditori che sperano di sottrarre per legge del denaro proveniente dalla pubblicità ad alcune aziende (le aziende televisive) per attribuirlo ad altre: le aziende editoriali».