Paolo Mieli, Corriere della Sera 13/11/2012, 13 novembre 2012
SESSO E DOSSIER NEL CASO MONTESI. MA FANFANI NON FU IL BURATTINAIO
Nel marzo del 1974, in un’intervista all’«Espresso» garbatamente polemica nei confronti di Amintore Fanfani (all’epoca segretario di una Dc impegnata nella campagna per il referendum, del 12 maggio, contro il divorzio), Giulio Andreotti lasciò cadere una notazione maliziosa circa il ruolo di orchestratore occulto che, tra il 1953 e il ’54, lo stesso Fanfani avrebbe avuto nel «caso Montesi». Lì per lì fu il merito politico dell’intervista — una telefonata con il giornalista Lino Jannuzzi — a fare discutere e il riferimento al giallo di 21 anni prima passò quasi inosservato. Ma poi quella insinuazione riapparve in un libro di Giorgio Galli, Storia della Democrazia cristiana, pubblicato da Laterza nel 1978. E, in quello stesso anno, venne ripresa addirittura nel memoriale di Aldo Moro dal «carcere» delle Brigate Rosse: «Fanfani», avrebbe detto lo statista democristiano prima di essere ucciso, «in occasione del caso Montesi… coinvolse sulla base di labili indizi, successivamente contestati dalla magistratura di Venezia, il senatore Piccioni, una delle persone più stimate della Dc, il quale dové lasciare il posto di ministro, per quella che si dimostrò poi essere una leggerezza».
Da quel momento il nome di Fanfani è stato spesso indicato, in modi più o meno espliciti, come quello del mandante della campagna sviluppatasi, a ridosso della morte della ragazza, contro lo stato maggiore della Dc degasperiana. Fanfani avrebbe approfittato di quella vicenda per annientare il vecchio gruppo dirigente della Democrazia cristiana: Attilio Piccioni, Mario Scelba, Giuseppe Spataro. E per imporsi, lui stesso, come successore di Alcide De Gasperi (morto nell’estate del ’54). Dapprima alla guida del partito, poi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, aggiungendo all’incarico di segretario della Dc quelli di presidente del Consiglio e ministro degli Esteri.
In tempi recenti, nel 2009, Pietro Ingrao — direttore dell’«Unità» all’epoca dell’affaire Montesi — ha sostenuto (in un’intervista a Stefano Cappellini del «Riformista») che le «prime spiate» su quel caso gli erano venute da «Amintore Fanfani e dai fanfaniani», soprattutto dagli «ambienti del ministero degli Interni dove c’era un segugio che ci passava le informazioni». Lo storico Agostino Giovagnoli, curatore dei Diari politici di Fanfani (che usciranno presso l’editore Rubbettino), ha però messo in dubbio che l’uomo politico di Arezzo fosse il «referente diretto» di Ingrao. E Vincenzo Vasile, autore di un libro sul caso, La ragazza con il reggicalze, edito dall’«Unità», ha ipotizzato che l’interlocutore di Ingrao potesse essere il colonnello dei carabinieri Umberto Pompei.
Adesso invece il ruolo di Fanfani in quella storia lontana esce molto ridimensionato dal volume di un professore all’Università di Warwick, Stephen Gundle, pubblicato da Rizzoli: Dolce vita. Sesso, potere e politica nell’Italia del caso Montesi. Fanfani ebbe sicuramente una parte notevole in quella vicenda, ma non quella del grande burattinaio. Se tale ruolo gli fu attribuito è, come ha scritto Francesco Grignetti nel documentatissimo Il caso Montesi. Sesso, potere e morte nell’Italia degli anni ’50, perché in occasione di quel giallo si ebbe una sorta di «trionfo della dietrologia».
Ma veniamo alla storia. Roma, pomeriggio di giovedì 9 aprile 1953. Siamo alla vigilia delle elezioni politiche regolate dalla «legge truffa» (un sistema elettorale maggioritario) che si terranno a giugno e in cui De Gasperi, presidente del Consiglio nonché leader incontrastato della Democrazia cristiana, giocherà (e perderà) la partita finale della sua vita politica. Quel pomeriggio Maria Montesi, moglie del falegname Rodolfo, chiede alle figlie, Wanda e Wilma, di accompagnarla al cinema. Wanda accetta, Wilma no: dice che andrà a fare quattro passi. La ragazza è strana in quei giorni. Fidanzata con un poliziotto pugliese, Angelo Giuliani, che ora è a Potenza, da un po’ di tempo è, con lui, sfuggente; le compagne di scuola la trovano cambiata: la giudicano «più sofisticata», eccessivamente «sicura di sé», notano che ha cominciato a fumare. Sulle scale del palazzo in cui abita, in via Tagliamento, ha litigato con due coetanee e le tre si sono scambiate volgarità tali da provocar scandalo nel caseggiato.
Adesso Wilma esce lasciando a casa la foto del fidanzato, che fino a quel giorno aveva sempre portato con sé, ma prende le chiavi, segno evidente della sua intenzione di fare rientro. Quella sera, però, sparisce. I genitori si agitano, la madre perde la testa, scende in strada e grida: «Torna figlia mia! Ti perdono!». E ancora: «Wilma, qualsiasi cosa abbia fatto, torna! Anche con dieci amanti!». Da una successiva intercettazione telefonica, verrà fuori questa confidenza della madre alla cognata: «Wilma si è rovinata con le proprie mani». Indizi di qualche sospetto su una vita della giovane diversa da quella che era stata fino a qualche tempo prima.
Il cadavere di Wilma sarà trovato da un operaio alle sette e mezzo del mattino di sabato 11 aprile (due giorni dopo la scomparsa) a riva, nel mare, sulla spiaggia di Torvajanica. È senza scarpe, calze, gonna e soprattutto senza reggicalze, indumenti che non verranno mai ritrovati (ciò che scatenerà sui giornali qualche fantasia). La notizia è pubblicata sul «Messaggero» la mattina del 12 e, appena riconosciuta l’identità di Wilma, si fanno vive con la famiglia persone che dicono di averla incontrata nei giorni precedenti proprio su quel litorale.
Un meccanico, Mario Piccinini, racconta di averla vista «assieme a un uomo» su un’Alfa Romeo 1900 (auto di lusso) che si era insabbiata proprio nei dintorni di Torvajanica. Si ipotizza che possa essersi trattato di un suicidio. Ma la famiglia, preoccupata di salvaguardare il suo buon nome, dichiara: «Wilma era una ragazza tranquilla e serena… Noi siamo sicuri che non si è uccisa». La sorella Wanda ricorda che Wilma le aveva parlato dell’intenzione di andare al mare, a Ostia, «per lenire un’irritazione ai piedi» e ipotizza che forse, «a causa delle mestruazioni», ha «avuto un malore, è scivolata in acqua ed è annegata». Ostia però dista da Torvajanica una ventina di chilometri e dovrebbero essere state ben forti le correnti che l’avrebbero trascinata da un punto all’altro della costa… La polizia decide di compiere accertamenti e viene fuori come poco probabile un suo «indebolimento» causato dalle mestruazioni («era quasi al termine del ciclo»); quanto all’irritazione ai piedi di cui ha parlato la sorella, il rapporto di pubblica sicurezza afferma che «non si riscontrano tracce di eczema o arrossamenti». La relazione dice poi che lo stomaco di Wilma non contiene residui di veleno, droga, alcol e nemmeno di cibo (eccezion fatta per un gelato). Che non è in stato interessante e anzi che è ancora «illibata». Che è morta per annegamento.
Del caso si occupa direttamente un protetto di Mario Scelba, il questore di Roma, Saverio Polito, che aveva già ricoperto cariche importanti ai tempi del fascismo. Dopo l’arresto di Mussolini, il 25 luglio del 1943, a Polito era stato affidato il compito di scortare l’illustre prigioniero e di vigilare sulla sua famiglia. Ma la moglie del Duce lo aveva accusato di aver tentato di usarle violenza, ragion per cui, dopo la liberazione di Mussolini e la nascita della Repubblica sociale italiana, Polito era stato arrestato e condannato a 24 anni di reclusione. Per tali «meriti antifascisti», dopo la Liberazione era stato messo a capo della Questura della capitale. Adesso, nell’aprile del 1953, è lui che, per spiegare la morte di Wilma Montesi, fa propria la bizzarra tesi del «pediluvio» durante il quale la ragazza sarebbe stata colta da un improvviso «malore».
Trascorrono pochi giorni e, il 4 maggio, il «Roma», quotidiano dell’armatore monarchico Achille Lauro, fa esplodere la bomba: «Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?», domanda in prima pagina. E cosa è che la polizia non direbbe? A sorpresa, il «Roma» sostiene che in quel decesso sarebbe coinvolto «il figlio di una nota personalità politica». Il giornale filocomunista «Paese Sera» rilancia l’indiscrezione. Con qualche goffaggine il questore Polito reagisce affermando essere falso che la polizia stia cercando di «non compromettere il figlio di una nota personalità politica non nominata, tuttavia individuata nelle chiare allusioni». E, incredibilmente, aggiunge: «Il giovane al quale si allude ha i lineamenti completamente diversi da quelli indicati nella cronaca; né risulta avere mai conosciuto né visto la Montesi».
La frittata è fatta. Le «personalità politiche» che hanno figli potenzialmente coinvolgibili in quell’affaire sono quattro: Umberto Tupini, Giuseppe Spataro, Attilio Piccioni e il sindaco di Roma Salvatore Rebecchini. Ma i sospetti sono tutti per Piccioni che ha un ragazzo, Piero, musicista (cognome d’arte Morgan). Piero Piccioni è fidanzato più o meno segretamente con l’attrice Alida Valli, è un habitué di locali notturni, ed è descritto nelle cronache mondane come un «irregolare». Un rapporto di polizia riferirà che viene chiamato «er puzzone» per via della sua «predilezione per la marijuana», un «vizio associato ai soldati afroamericani che hanno combattuto nelle file degli Alleati».
Il fondatore, proprietario e direttore del quotidiano «Il Tempo», Renato Angiolillo, esponente della destra del Partito liberale nonché rivale politico di Piccioni (sono entrambi candidati nel collegio di Rieti), avuta la notizia che è di lui che si parla, prova a contattare il ministro e, non essendoci riuscito, condivide l’indiscrezione, oltreché con Polito, con il direttore del «Messaggero», Alessandro Perrone. I giornali insistono. Il settimanale satirico «Il Merlo Giallo» rende più esplicita l’insinuazione del quotidiano di Lauro: «Dopotutto», scrive, «le note personalità cui allude il "Roma" non sono poi tante e non possono nemmeno sparire senza lasciare tracce come piccioni viaggiatori». Il settimanale comunista «Vie Nuove» pubblica un reportage di Marco Cesarini Sforza che ha come sottotitolo: «Troppe voci sul caso Montesi ci fanno pensare che devono contenere qualche verità». E si chiude con questa esplicita domanda: «Piero Piccioni ha un alibi?». È il 24 maggio. Il 7 e l’8 giugno si svolgono le elezioni che la Dc — pur conquistando oltre il 40 per cento dei voti — perde, nel senso che per un soffio non ottiene il premio in seggi previsto dalla «legge truffa». De Gasperi è costretto a cedere la guida del governo e, per effetto delle chiacchiere di cui si è detto, Attilio Piccioni, candidato naturale alla successione, deve rinunciare a prenderne il posto.
Tutto sembra essere finito lì. E così è fino al 6 ottobre 1953, quando un avventuroso giornalista, Silvano Muto, pubblica sul suo settimanale, «Attualità», un servizio che annuncia la «verità» sulla morte di Wilma Montesi. La ragazza, sostiene Muto, avrebbe partecipato — nella casa di un tal «mister X» e in compagnia di importanti personalità del bel mondo romano — a un festino a base di stupefacenti «sotto forma di sigarette molto fini»; ne avrebbe fumata qualcuna di troppo, si sarebbe sentita male e, diffusosi tra i convitati un grande panico, sarebbe stata gettata in mare da qualcuno dei partecipanti all’allegro trattenimento. In seguito, proseguiva Muto, per non dover accendere i riflettori su quel festino, il caso sarebbe stato insabbiato dalle autorità preposte all’indagine.
Il settimanale esce e nelle edicole romane tra via Veneto e piazza di Spagna va a ruba. Anche perché in quel mondo molti sanno del legame tra Muto e la «modella d’arte» Adriana Bisaccia, frequentatrice di «ambienti artistici» e probabile ispiratrice delle indiscrezioni (l’unica che, come vedremo, al processo verrà condannata).
La Procura di Roma denuncia Muto, ma tutto potrebbe finire in un’amnistia, studiata apposta per gli articoli di giornale scritti a ridosso della morte di Wilma, che però copre solo i reati commessi fino alla fine di settembre. Così per l’articolo di «Attualità» si va a giudizio. Ed è in questa fase che entra in scena la ventiduenne Anna Maria Moneta Caglio, nipote di un fondatore del Partito popolare e figlia di un ricco notaio di Milano, il quale (come molti protagonisti di questa storia) era stato fiancheggiatore dei fascisti, poi dei nazisti e infine, dopo l’8 settembre del ’43, degli Alleati. Grazie a una lettera di presentazione del padre, la Caglio si presenta ad alcuni maggiorenti democristiani.
Racconta Giulio Andreotti in De (prima) Re Publica (Rizzoli): «Devo ad un attento addetto di segreteria se non ricevetti la ragazza. Un po’ di prudenza a trent’anni non fa male e avevo un filtro attento delle richieste di colloqui». Un filtro meno «attento» deve aver avuto il suo collega di partito Giuseppe Spataro, un cui segretario riceve Anna Maria, le dice che purtroppo il suo capo «è fuori città», ma che lei, se vuole, può «dire tutto» a un uomo che è lì nell’anticamera: Ugo Montagna, che — sostiene il segretario di Spataro — «può essere utile, più di un ministro». Montagna è un faccendiere siciliano «dai modi distinti», che ha ben navigato dal fascismo al postfascismo, fornendo donne in cambio di favori. A tutti. Negli anni Trenta era riuscito ad arrivare molto in alto, finché Mussolini in persona lo aveva fatto cacciare da casa, dopo aver scoperto che aveva portato i suoi figli, Vittorio e Bruno, in un bordello di lusso. In seguito Montagna aveva, per così dire, stretto amicizia con la famiglia di Claretta Petacci, più precisamente con la madre dell’amante del Duce, alla quale, dopo aver provato a vendergliene quaranta, aveva rifilato, per la non modica cifra di 29 mila lire, quattro tappeti (quando lo seppe, Claretta si infuriò e un suo zio espresse addirittura qualche dubbio sulla provenienza delle «preziose stuoie»). Cacciato anche dai Petacci, Montagna non si perse d’animo: procurò fanciulle prima ai tedeschi, poi agli Alleati; aveva lucrato nel frattempo sulle persecuzioni antisemite; fece anche liberare dai nazisti il futuro capo della polizia Tommaso Pavone, che per questo si sentirà per sempre in debito nei suoi confronti, fino a tollerare — a dar retta a ciò che riferisce Paolo Emilio Taviani ne I giorni di Trieste. Diario 1953-54 (Il Mulino) — che la propria moglie ne diventasse l’amante. Con i suoi collaudati metodi, Montagna entrò anche nelle grazie del principe Umberto, da cui riuscì a ottenere il titolo di marchese di San Bartolomeo. Il suo motto era: «Faccio affari solo con chi è inguaiato fino al collo». In realtà li fece anche con chi inguaiato non era. Dopo la guerra entrò in confidenza con Luigi Gedda, presidente dell’Azione cattolica, con il medico personale di Pio XII, Riccardo Galeazzi Lisi (con il quale avrebbe provato a ricattare alcuni ex collaborazionisti), e con molti esponenti democristiani.
Uno di questi nuovi amici di Montagna è Spataro ed è nella sua anticamera che il «marchese» conosce Anna Maria Moneta Caglio. La Caglio in breve diverrà la sua fidanzata e, quando il loro rapporto andrà in frantumi, lo accuserà di essere il «mister X», trafficante di donne e droga, descritto nell’articolo di Muto. Di più: sosterrà la Caglio che la sera del 29 aprile 1953 Montagna si era recato al Viminale in compagnia di Piero Piccioni per organizzare, con il capo della polizia Tommaso Pavone, l’insabbiamento del caso. E dirà di averli visti entrare al ministero con i suoi stessi occhi. Adesso, dopo la rottura con Montagna, la Caglio offre la sua testimonianza a Muto. Prima però — e siamo al punto politico di questo affaire — il 17 novembre del 1953 ne aveva parlato con il gesuita Alessandro Dall’Olio, il quale ne avrebbe riferito a Fanfani, da pochi mesi ministro dell’Interno (era succeduto a Mario Scelba, titolare del dicastero nei giorni della scomparsa di Wilma). Ed è su questo momento che Stephen Gundle punta i riflettori, mettendo in rilievo come, all’epoca in cui Fanfani entrò in scena, i giochi del «caso Montesi» fossero stati sostanzialmente fatti e come i rapporti del leader aretino con la vecchia guardia dc, nell’autunno del ’53, fossero meno ostili di quanto erano stati nei mesi precedenti.
Gundle non vuole affatto sostenere che Fanfani (il quale, ancor prima dell’incontro con il gesuita, aveva già ricevuto «relazioni sugli sviluppi del caso») sia stato estraneo all’affaire. Tutt’altro. Ma fa capire come a quel punto il ministero fosse pressoché obbligato a promuovere ulteriori indagini. E mostra perciò di credere poco alla tesi secondo cui Fanfani utilizzò «cinicamente il caso per screditare l’unica persona (Attilio Piccioni) che si frapponeva tra lui e la guida della Democrazia cristiana». È vero: la Caglio dirà al processo che Fanfani l’aveva «fatta convocare» e l’aveva «messa in contatto» con il colonnello dei carabinieri Umberto Pompei, al quale («mentre la polizia era impaziente di chiudere l’inchiesta») fu affidata un’indagine supplementare sulla vicenda. Il ministro dell’Interno che si affida a un carabiniere, operando alle spalle della polizia? «Un fatto senza precedenti», scrive Gundle; «lungi dall’agire in veste ufficiale, in quel momento di fatto Fanfani ha ordinato un’inchiesta privata». Ma sarebbe stato ben sospetto che Fanfani si fosse messo nelle mani di quegli stessi poliziotti che erano apparsi fin lì come insabbiatori dell’intera vicenda.
È interessante notare, poi, che quando, a fine gennaio 1954, si apre a Venezia il processo a Silvano Muto, Fanfani è da pochi giorni presidente del Consiglio. La sua permanenza a Palazzo Chigi, alla guida di un monocolore democristiano, durerà però meno di un mese: ai primi di febbraio Fanfani verrà sfiduciato dal Parlamento e sarà costretto a cedere il passo (stavolta per Palazzo Chigi) a Mario Scelba. Difficile ipotizzare che, in una situazione così delicata, Fanfani abbia avuto interesse ad attizzare ulteriormente il fuoco. Fuoco che invece divampa immediatamente e con forza. Il 18 febbraio, «Paese Sera» pubblica una foto di Montagna a fianco di Scelba al matrimonio del figlio di Spataro. In Parlamento Giancarlo Pajetta punta l’indice contro il presidente del Consiglio: quella foto è, a suo giudizio, la prova di una connivenza. Scelba gli ribatte: «Sono stato fotografato anche insieme a lei, onorevole Pajetta, e non sono certamente suo amico». Pietro Ingrao sull’«Unità» parla per la prima volta di «questione morale».
Una nuova indagine (che si chiuderà nel giugno del 1955 con il rinvio a giudizio di Piccioni, Montagna e Polito) è affidata al magistrato Raffaele Sepe, che si mostra fin dall’inizio convinto della colpevolezza dei tre. Sepe è un nuovo tipo di magistrato: ama esibirsi nei panni dell’integerrimo nemico di privilegi e corruzione, si concede a giornali e riviste, ai quali «regala» sue foto, mostra di gradire il plauso popolare. Un «miserabile, simbolo di vanitosa stupidità, di irresponsabile avventatezza, di stolida sete di popolarità», scriverà di lui il democristiano Mariano Rumor nelle proprie Memorie (Neri Pozza). E Andreotti, nei suoi ricordi, parlerà di lui due volte, la prima per raccontare di quando Sepe lo andò a trovare, in quell’estate del ’54, a Grottaferrata («Era dispiaciuto perché la stampa lo faceva passare per antidemocristiano, mentre diceva di aver votato per me sia nel ’48, sia nel ’53… non nascondo che mi sentivo in imbarazzo»); la seconda per malignare sul fatto che, qualche tempo dopo, quando lui era ministro delle Finanze, quel magistrato gli «scrisse offrendosi per venire a dirigere il nostro Ufficio legislativo».
È per «merito» di Sepe che il caso Montesi, ormai divenuto «caso Montagna-Piccioni», prorompe una seconda volta sui giornali. Un penalista del Pci (e presidente per conto del Partito comunista della Provincia di Roma), Giuseppe Sotgiu, assume la difesa di Muto. Da questa postazione punta l’indice contro il decadimento provocato dal sistema di potere democristiano; usa toni crudi, protesta perché «nell’escludere la possibilità di un movente sessuale, non è stata presa in considerazione l’ipotesi della penetrazione anale»; si sofferma a lungo sul fatto che i genitali della Montesi erano pieni di sabbia, il che «potrebbe provare che sia stata vittima di un pervertito che trae piacere dall’abusare di donne morte». A novembre il «paparazzo» (anche se la definizione verrà coniata da Ennio Flaiano e Federico Fellini qualche anno dopo dal nome di un personaggio del film La dolce vita) Tazio Secchiaroli scatta una foto di Sotgiu mentre esce da un bordello in via Corridoni. La polizia fa irruzione nell’appartamento e alcuni testimoni sostengono che l’avvocato con sua moglie, la pittrice Liliana Grimaldi, si recano abitualmente in quella casa dove, riferisce Gundle, «il principe del foro è solito osservare la consorte che amoreggia con un adolescente, mentre è in compagnia di altre donne». Sotgiu è costretto a dimettersi da tutti i suoi incarichi.
Il processo va avanti. Il 10 marzo 1954 cade la testa del capo della polizia Tommaso Pavone, che viene fatto dimettere dal suo protettore, Mario Scelba, con un duro comunicato in cui si parla di sue «torbide compiacenze» nei confronti degli imputati. Il 21 settembre, Piero Piccioni e Ugo Montagna sono arrestati. Sepe, dicendosi suo antico ammiratore, convoca Alida Valli, che offre un alibi a Piccioni sia per l’8 e sia, parzialmente, per il 9 aprile (una festa ad Amalfi nella villa di Carlo Ponti e l’indomani un ritorno a Roma sotto l’effetto di un brutto mal di gola); e anche per il 29 dello stesso mese, giorno in cui la Caglio dichiara di averlo visto entrare al Viminale assieme a Montagna per concordare una versione di comodo con il questore Polito. Ma il padre di Piero, Attilio Piccioni, è costretto a dimettersi da ministro degli Esteri e l’emittente comunista in lingua italiana, Radio Praga, si spinge ad annunciare addirittura che l’anziano leader dc è stato «arrestato» assieme al figlio.
Da quel momento il caso sfugge ad ogni controllo. Adriana Bisaccia racconta di aver avuto anche lei una relazione con il giovane Piccioni e di essere stata costretta ad abortire tre volte. Dice poi di aver ricevuto percosse da Giorgio Tupini, figlio dell’ex ministro Umberto. Una testimone, Thea Garzaroli, racconta di un giro di piaceri «raffinati e delicati» (è la prima volta che si allude ad amori lesbici) in cui sarebbe coinvolta Anna Magnani, che, furibonda, è costretta a smentire pubblicamente. Al processo si discute dell’«imene intatto» di Wilma, gli inquirenti vengono interrogati sull’eventualità «che la vittima abbia avuto un contatto sessuale vaginale, anche parziale, o anale in una o più occasioni». Il 25 ottobre la sorella di Wilma, Wanda, si fidanza ufficialmente con un falegname di Rocca Priora. Il giornalista Fabrizio Menghini (grande protagonista del caso) la convince a farsi fare una visita ginecologica per dimostrare di essere «integra». Il certificato viene pubblicato sui giornali e Menghini, a compenso per il «prezioso» suggerimento, è invitato ad essere testimone di nozze della sposa.
Il processo si interrompe e ricomincerà solo nel gennaio del 1957. Nel ’57 Piccioni, Scelba e Spataro sono fuori gioco e il trionfante Fanfani, scrive Gundle, appare come colui che «ha colto l’opportunità e compiuto una manovra per danneggiare un uomo (Piccioni) verso cui non nutriva alcuna ostilità personale, ma che si frapponeva al suo desiderio di arrivare al potere e modernizzare il partito». Non c’è prova, però, che abbia fatto alcunché per dirottare le indagini contro quegli avversari del suo stesso partito. Alla fine Piccioni, Montagna e Polito vengono assolti ed è condannata solo la Bisaccia per aver mentito sotto giuramento. Nel frattempo gli italiani hanno imparato a conoscere quella «dolce vita» romana che farà da sfondo al film di Federico Fellini (di qui il titolo del libro di Stephen Gundle). La verità sull’accaduto non si saprà mai. Gundle ipotizza che Wilma, per conto di un suo zio, Giuseppe, fosse diventata corriere di piccole quantità di droga e che in quella veste fosse entrata in contatto con Montagna e Piccioni. Ma con onestà ammette non esserci alcuna prova che le cose siano andate così e che, anche se fosse, le ragioni della sua morte restano inspiegabili.
Del caso si occuparono Ennio Flaiano, Curzio Malaparte, Camilla Cederna, che coniò per la Caglio il nomignolo «cigno nero», Gabriel Garcia Márquez e, anni dopo, Hans Magnus Enzensberger, che scrisse: in quei giorni l’Italia intera «era disposta a credere a tutto ciò che incriminasse la sua classe dirigente». Fu proprio così. Si alzò una marea di fango. E uno schizzo colpì anche Amintore Fanfani. Assai più del dovuto.
Paolo Mieli