Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 13/11/2012, 13 novembre 2012
COSI’ LA MAFIA NEL ’92 CHIESE A UN PESCATORE IL TRITOLO DELLE STRAGI - È
rimasto nell’ombra per vent’anni tenendo con sé — sostiene oggi l’accusa — i segreti delle stragi di mafia. Quelle che tra il 1992 e il 1994 portarono l’attacco alle istituzioni, da Capaci al fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma, passando da Firenze e Milano. Bombe collegate alla cosiddetta trattativa fra lo Stato e Cosa nostra, secondo qualche sentenza e l’ultima indagine palermitana. E mentre per alcuni protagonisti di quel presunto «patto» è stato chiesto il processo, da Firenze si aggiunge un nuovo anello alla catena della manovalanza.
Al pescatore Cosimo D’Amato, palermitano cinquantasettenne della borgata Santa Flavia, l’altra sera gli agenti della Direzione investigativa antimafia hanno notificato un ordine d’arresto con l’imputazione di strage e una sfilza di altri reati. Per gli inquirenti toscani (e per quelli di Caltanissetta, che stanno preparando un loro provvedimento di cattura) è l’uomo che fornì l’esplosivo per le bombe del ’93. Recuperandolo dal mare, tra i residuati bellici che giacciono sui fondali lungo la costa fra Trapani e Palermo. I pescatori di frodo lo utilizzano per il loro lavoro, e così faceva Cosimo D’Amato. Che però ad aprile del 1992 e nel ’93, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, ne consegnò diversi quintali al cugino Cosimo Lo Nigro, mafioso già condannato all’ergastolo per gli attentati di quel biennio sanguinoso.
Il pentito Gaspare Spatuzza ha raccontato di un certo «Cosimino» che accolse lui e altri mafiosi al porticciolo di Santa Flavia: «Siamo saliti sopra uno dei pescherecci e nei fianchi c’erano legate delle funi, abbiamo tirato la prima fune e c’erano praticamente semisommersi dei fusti. Abbiamo tirato in barca il primo fusto, poi il secondo e l’abbiamo trasferito in macchina». Dentro c’era il tritolo che lo stesso collaboratore di giustizia provvide poi a «macinare» per confezionare gli ordigni. Mentre rientravano in città con la macchina carica di esplosivo, Spatuzza si accorse di un posto di blocco dei carabinieri e riuscì a evitarlo «tornando indietro con una brusca inversione di marcia».
Sono state le indagini della Dia e delle Procure di Firenze e Caltanissetta a identificare «Cosimino» in Cosimo D’Amato, estraneo a Cosa nostra e «inizialmente anche alla programmazione criminale», secondo il giudice che l’ha fatto arrestare. Ma i 70-80 chili di tritolo che ogni volta consegnava prima delle stragi palermitane (per un totale di circa 650 chili) «erano tali da far ragionevolmente prospettare la loro utilizzazione per una finalità omicidiaria o di attentato». E nel ’93 — morti Falcone e Borsellino, quando Spatuzza definisce la mafia «in affanno più totale per recuperare più esplosivo possibile» da utilizzare a Firenze, Roma e Milano — per il giudice «non può ragionevolmente prospettarsi che D’Amato non avesse consapevolezza che le massicce quantità di esplosivo fossero destinate all’esecuzioni di strage e/o devastazioni».
Un collaboratore prezioso, «Cosimino», legato direttamente a quel Lo Nigro che il boss stragista Giuseppe Graviano cercava in tutti i modi di proteggere perché «è la fonte di approvvigionamento dell’esplosivo», diceva il capomafia a Spatuzza, lasciando intendere che se Lo Nigro fosse finito in carcere o in qualche altro guaio, «saltava quella macchina da guerra scesa in campo per le stragi del ’93».
Il procuratore di Firenze Quattrocchi — che per primo chiese il programma di protezione per Gaspare Spatuzza, e ieri ha ribadito che le indagini su altri complici e mandanti proseguono e «ci sono tutte le possibilità perché si possano appurare altre responsabilità» — afferma con sicurezza: «Questa indagine blinda la credibilità del collaboratore. Spatuzza non dice mai nulla che non abbia visto o sentito, non c’è mai un accenno a una supposizione, o interpretazione. È un cronista rigorosissimo». È lo stesso «cronista» che ha raccontato le confidenze di Graviano nel famoso incontro di via Veneto a Roma, ottobre 1993, quando gli disse: «Abbiamo il Paese nelle mani» grazie all’accordo con «Berlusconi e il nostro paesano Dell’Utri». Dichiarazioni che i giudici del processo Dell’Utri hanno considerato non attendibili, ma che i pm di Palermo hanno riutilizzato per la richiesta di rinvio a giudizio di dodici imputati (tra cui Dell’Utri) nell’indagine sulla trattativa.
«Si continuano a portare alla sbarra non "ladri di polli", ma in questo caso "ladri di esplosivo"», commenta delusa Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. Ma gli investigatori ribadiscono l’importanza dell’indagine anche sul piano dell’operatività mafiosa: recuperare il tritolo in mare, attraverso il familiare di un affiliato, significò ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, senza il rischio di tradimenti o fughe di notizie. Tanto che il segreto è durato vent’anni.
Giovanni Bianconi