Gabriele Romagnoli, la Repubblica 13/11/2012, 13 novembre 2012
LO STUPORE DI ZDENEK UN AMORE DISPERSO TRA PASSATO E ILLUSIONI
È passata una vita. È accaduto di tutto, inevitabilmente: successi e tragedie, nuovi amori e separazioni, figli cresciuti bene e altri cresciuti male. Il tarlo del tempo. Poi, un giorno di spensierata follia, lei è andata su Facebook e ti ha ricercato. Il nome c’era, il volto pure, le rughe appianate dalla rinomata impassibilità, la sigaretta dimenticata all’angolo della bocca come da
un pianista sullo strumento a farsi cenere quando la musica (non senti?) è già finita. Ti ha perdonato il fatto di averla tradita con la sua miglior nemica, di esserti sprecato, fatto vedere in giro con compagnie di serie B. Lei usciva da una storia sfortunata: l’illusione di un progetto sfumata in una sola stagione. Le era venuta la tentazione della nostalgia. Erano riaffiorati i ricordi: i momenti di audacia, la meglio gioventù, la finale nobiltà della sconfitta. Ti ha scritto, tu hai risposto. Sei
tornato. A riprenderti il passato e capitan futuro. Poi, come in ogni percorso, c’è di mezzo il miserabile ostacolo del presente: l’unica fase che non possiamo immaginare, ma ci tocca vivere.
E nel presente tu sei su una panchina, vestito a festa sotto una tempesta tropicale, vengon giù pioggia e gol, qualcuno da lontano ti dice qualcosa, tu ti giri e domandi a chi ti sta accanto: «Ma che, ce l’ha con me?». Quello annuisce: sì, ce l’ha con te. Risposta esatta. Quando la tragedia torna, è una farsa. Quando torna l’amore, pure. Tra la Roma e Zeman, siamo alle comiche. Ce l’hanno con te? Sì. Ma come, non sei stato richiamato perché sei l’unico, per restare, per sempre? Queste favole le raccontano in chiesa, non allo stadio. E dopo lanciano riso, non monetine. La strada della storia è lastricata di uomini che si credevano amati e hanno preso un
duomo in faccia. La via di salvezza è capirlo un attimo prima e disamorarsi in anticipo, perfino e soprattutto di se stessi. Il varco aperto dallo stupore sulla faccia di cera dimostra che Zeman non c’è riuscito: anche stavolta perde in rimonta.
È tornato e Roma (la Roma) gli ha fatto trovare un letto di salamelecchi con cuscini di pura adorazione su cui adagiarsi. In un bar del rione Monti ho sentito un anziano sognante proclamare: «Io con Zeman ho goduto!». E l’amico spietato: «Sì, ma mo’ nun te basta er Viagra». Ho ascoltato ragazzi ignari profetizzare: «Quello ce fomenta e poi ce fa schiantà». Era estate e d’estate tutti gli amori sono possibili. Riparliamone in autunno, quando fa
buio presto e per l’ardore di una “chiusa” non basta la memoria, ci vuole passione, lì e ora, e qualcosa di più, tipo un vecchio album di Santana: «Love, devotion, surrender », amore, devozione, resa. Tutte cose che a Roma (alla Roma) abbondano, ma per poco. Poi torna il cinismo la voglia di incontrare un limite e sdraiarcisi. Questo, signore e signori, è il limite di Zeman: lui è quel che è stato. Niente di più. Ti può bastare, se anche tu sei un passato remoto, tuttalpiù un imperfetto. Per il futuro, essù, stavi scherzando?
Quando Zeman è tornato, nessuno ce l’aveva con lui. Quando ha vinto a Milano con l’’Inter sono usciti articoli estasiati che rimproveravano a Moratti di non aver seguito l’istinto e aver scelto lui invece di Benitez e di essere poi sceso fino a Stramaccioni. Oggi piovono articoli che
rimproverano alla Roma di aver ripreso Zeman quando aveva in casa niente meno che Stramaccioni (per non ri-parlar di Montella). Ce l’hanno con Zdenek? Sì. A occhio. Lo chiamano Fonzie, gli dicono vecchio (come i laziali a quel gran signore di Reja), lo nominano scuotendo la testa, come se questa patetica rentrée l’avesse sollecitata lui. Ha fatto del suo meglio: ha lanciato Florenzi, stravalorizzato Lamela, registrato Osvaldo. Ha fatto del suo peggio: ha ammosciato De Rossi, ceduto a Totti, infilato una collana di perle chiamate Goicoechea, Piris, Tachtsidis. Ha recitato la parte di te stesso. E qualche volta l’ha pure tradita, perché alla fine, questa è l’impressione, non ci crede più, non si ama più. E come potrebbe un uomo intelligente amare se stesso per tutta la vita? Ha sostituito alla necessità il caso. Si è stancato della sinfonia e si è limitato a qualche accordo, i primi venti minuti per gradire. Alla fine di “Bohemian Rapsody”, la canzone del boemo, Freddie Mercury grida: «Niente importa davvero. Niente importa davvero, per me». Poi si lascia cadere. Liz Taylor risposò Richard Burton il 10 ottobre del ’75. Lo ridivorziò il 29 luglio del ’76, dopo nove mesi e mezzo.
«Ma che, ce l’ha con me?» Sì.
«Niente importa davvero, per me».