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 2012  novembre 12 Lunedì calendario

DONNE DI THAILANDIA. MORIRE DI SMOG. O DI SESSO

Prima di salutare, Jida si fa offrire una Pepsi al bancone dove il suo datore di lavoro ha appena incassato 2000 bath, circa 50 euro, per un’ora con la ragazza. In realtà sono passati solo quindici minuti da quando è iniziato il viaggio nella Thailandia di Jida nel-l’angusta casa-bordello di Pattaya nel Rayong. La scala è stretta e poco illuminata, la ragazza sale i gradini traballando su tacchi sottili come le sue gambe. È travestita da scolaretta con una camicetta troppo larga per la sua taglia e una gonna molto corta e abbondante per quel corpo minuto che non sembra avere i 24 anni che dice. La stanza è ricoperta di specchi e alla parete è appeso un plasma acceso con un film porno. Jida arriva da Map Ta Phut, provincia del Rayong, 180 chilometri da Bangkok, una delle aree industriali più estese al mondo. Cento chilometri di costa dove da qualsiasi punto svetta il più grande fra gli insediamenti: un enorme fungo in metallo con due lunghi camini che lanciano lingue di fuoco e di fumo nel cielo. È il simbolo del Map Ta Phut Industrial estate: 117 industrie di cui 45 petrolchimiche, 8 centrali elettriche alimentate a carbone, 12 industrie di fertilizzanti e 2 raffinerie. Nella stanza Jida non è contenta di parlare, è abituata ad essere pagata per altro, molto altro ormai da sette anni, da quando ha lasciato il minuscolo villaggio di pescatori della zona interna di Map Ta Phut dove vivono circa ventimila persone, la maggior parte delle quali impiegate nel polo industriale che oltre a dare lavoro produce un tale inquinamento che nel 2009 il Tribunale amministrativo della stessa provincia del Rayong ha dichiarato che ben 65 degli allora 75 progetti industriali presenti dovevano essere fermati. In quell’area si parla di inquinamento dal 1997 quando emersero mille intossicati per esalazioni. Dieci anni dopo, uno studio dimostrò che buona parte delle sostanze tossiche presenti nell’aria avevano parametri 3 mila volte superiori ai livelli di sicurezza e che intorno all’insediamento i danni genetici riscontrati nelle cellule del sangue erano maggiori del 65% rispetto agli abitanti di altre zone. Oggi lungo la spiaggia campeggiano cartelli di una campagna per promuovere la raccolta differenziata e poco importa se a fianco ci sono pezzi di amianto abbandonati e che l’Istituto dei tumori abbia lanciato l’allarme per l’impennata di casi di cancro alla vescica, ai polmoni, al seno e allo stomaco.
LA THAILANDIA è donna. Le donne sono la parte più bella e ospitale del paese, anche e non solo le piccole donne come Jida, ogni volta violentate nell’anima se non nel corpo. A Pattaya Jida vuole trovare un modo per costruirsi un futuro, quasi si sente protetta nella casa-bordello dove vivono anche altre ragazze che hanno lasciato Map Ta Phut, alcune di loro fuggite dalle violenze del padre o dei fratelli. A Pattaya le donne diventano le “fidanzate” di ogni uomo occidentale che le compra anche per uno o più giorni. Alcune di queste “coppie a ore” le incontri nei negozi del central Festival Pattaya beach all’interno del lussuoso 5 stelle della catena Hilton affacciato su quella stessa spiagga dove 24 ore su 24, tante altre ragazze aspettano i clienti accanto a bidoni dell’immondizia e topi. La sera la walking street di Pattaya è un enorme paese dei balocchi di corpi in vendita; tutto avviene davanti agli occhi della polizia che finge di non vedere quello che ipocritamente rimane un reato. La Thailandia è donna come il suo primo ministro, Yingluck Shinawatra 44 anni ex imprenditrice e simbolo del trionfo della “camicie rosse” (fronte unito per la democrazia contro la dittatura) protagoniste dell’occupazione dell’aeroporto di Bangkok nel dicembre 2008; protesta che venne sedata dai soldati con un bagno di sangue. Il capo del Governo in questi giorni ha visto le montagne di riso invenduto che il suo governo ha contribuito a creare con l’introduzione di un discusso programma per cui lo stesso esecutivo ha comprato riso dai coltivatori a prezzi più elevati rispetto a quelli di mercato. I magazzini si sono riempiti, i prezzi sono lievitati causando una perdita di competitività sui mercati mondiali tanto che da prima nazione esportatrice di riso la Thailandia rischia ora di essere superata da India e Vietman . Intanto, a Map Ta Phut le associazioni dei cittadini hanno fatto della sentenza contro gli insediamenti industriali il loro manifesto anche se conoscono bene il costo di un eventuale fermo delle attività: circa 7 miliardi di euro per i soli progetti senza contare le ricadute occupazionali per le numerose aziende dell’indotto. C’è da immaginare che cambierà poco per quella gente che respira l’aria, beve l’acqua e mangia il cibo di quei luoghi contaminati. Di pochi giorni fa poi la notizia che la Pepsi ha deciso di espandere il proprio business in Thailandia. Il progetto, che si svilupperà fra il 2013 e il 2015, prevede il completamento di un impianto nella Amata city industrial estate sempre nel Rayong. Si parla di un investimento di 18,4 miliardi di baht (461 milioni di euro). Una pioggia di denaro che certo non risolverà il problema dell’inquinamento che in quell’angolo di mondo rappresenta già il testamento di molte generazioni future.