Bruno Pischedda, Il Sole 24 Ore 11/11/2012, 11 novembre 2012
SCIASCIA RISISTEMATO
Dopo la composita Autobiografia di Thomas Bernhard, e in attesa del secondo volume dedicato ai romanzi di Guido Morselli, la prestigiosa collana adelphiana «La Nave Argo» avvia una nuova e ricchissima edizione delle Opere di Leonardo Sciascia. Ne è curatore uno studioso sciasciano di lunga data, Paolo Squillacioti e il piano generale prevede tre volumi suddivisi per tipologie affini: anzitutto i testi più riconoscibilmente inventivi (romanzi e racconti, con il teatro, la poesia e un interessante scomparto riferito alle traduzioni); quindi l’estesa filiera dei pamphlet militanti, delle cronachette, delle "inquisizioni" à la Borges; infine la saggistica in senso stretto, letteraria, storica, artistica e civile.
Il lavoro si regge come è chiaro su vaste campiture, basti uno sguardo ai numeri del primo volume che in questi giorni appare nelle librerie: 25 pagine di prefazione, 1.700 di testo, 300 di apparati filologici e documentari. Non sembrerebbe però un’impresa a vocazione unicamente specialistica, foriera di ulteriori studi e approfondimenti; se mai destinata a un pubblico ristretto ma più eterogeneo, sensibile all’etica collettiva, avido di uno Sciascia per così dire completo e multiverso. Sono trascorsi oltre vent’anni da quando, sotto egida di Bompiani, si chiudeva la meritoria fatica di Claude Ambroise, che con a fianco l’autore stabiliva una sorta di canone approvato e rigorosamente cronologico delle opere. Squillacioti, per parte sua, mira a un incremento netto dei reperti, integrando in ciascun volume una corposa selezione, se non degli inediti, di cui, sin qui, v’è scarso segno, senz’altro dei testi occasionali, dell’epistolario editoriale e privato, così da gettare una luce più viva sui procedimenti tipici del siciliano. E con ciò, sia detto per inciso, contravvenendo a una volontà esplicita di Sciascia, che in punto di morte ammoniva la famiglia: «nessun’altra cosa mia, né scritti dispersi in giornali o inediti, né lettere mie vorrei fossero pubblicati».
Dinnanzi ai desideri selettivi e alle cautele di un autore, sempre è lecito tenere un atteggiamento critico indipendente; e bene fa il curatore – in accordo con gli eredi – a orientarsi di conseguenza. Tuttavia i contributi maggiori che egli reca sull’argomento sembrano da situare a due livelli: appunto l’ordinamento per generi o testualità affini, e l’ampia messe di note che correda ciascun testo riguardo alle origini, ai travagli e alla trafila editoriale cui è andato incontro. Non già che Squillacioti si muova in proposito su un terreno vergine, anzi si avvale oculatamente di suggerimenti plurimi: le recenti bibliografie di Ivan Pupo e Antonio Motta, gli indirizzi di ricerca formulati lungo ormai due decadi dall’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, le ipotesi di classificazione già avanzate con finezza da uno studioso come Giuseppe Traina.
La partizione triplice che ne viene, «di valore più pratico che tassonomico», merita nondimeno di essere discussa; anche perché, se male intesa, rischia di insidiare il profilo unitario di Sciascia, scrittore più d’intelletto che di fantasia. Uno Sciascia che a ogni buon conto ci teneva a precisare: «la materia dei miei racconti è sempre di natura saggistica. E i miei saggi hanno sempre una forma narrativa». Sorge di qui il peculiare manzonismo del siciliano, che sulla scorta della Storia della colonna infame giunge nel corso del secondo Novecento a imporre una forma pochissimo frequentata di documento-racconto. Una forma, vorremmo azzardare, da cui discendono rivi anche più insospettabili. Si prenda il caso di Morte dell’inquisitore, datato 1964 e all’apparenza tanto ligio a una consuetudine erudita e archivistica. Benissimo fa Squillacioti a prometterne l’inserimento nel volume secondo, riservato ai testi più "ibridi". La vicenda di fra Diego La Matina, omicida del proprio carnefice, ci appare oggi una sorta di "micro-storia" in anticipo sui tempi, comprensiva di inchiesta veridica e suggestione fabulatoria. Difficile immaginare non vi abbia guardato con interesse Carlo Ginzburg, quando nel 1976 pubblicava Il formaggio e i vermi, biografia di un mugnaio friulano arso sul rogo nel Cinquecento. Siamo sì nell’ambito di un discorso storiografico, ma posteriore agli schemi delle «Annales», alle idee braudeliane di "lunga durata", e soprattutto inteso a reintrodurre la narrazione tra le tecniche con cui si rappresenta scientificamente il passato.
Quanto all’aspetto filologico, Squillacioti esibisce un’analoga accuratezza. Nel campionamento delle varianti, è vero, si sarebbe desiderata una più nitida indicazione dell’indirizzo correttorio: solo emendativo, normalizzatore, volto al levare, ovvero agli incrementi di senso. D’altronde la scrittura sciasciana, tanto spesso sequenziale, scarsa di ripensamenti, concede poco a ricostruzioni complesse dell’iter compositivo. Fanno eccezione naturalmente alcuni testi problematici: Il giorno della civetta, dove si insiste sull’ipotesi, non certificata, di un originario brogliaccio più ricco di riferimenti politici e parlamentari; Il consiglio d’Egitto, di cui l’archivio di famiglia conserva un taccuino preparatorio; la pièce teatrale L’onorevole, priva, in ultima lezione, del termine "culturame", che avrebbe collegato senza indugi il personaggio di Sinatra al ministro democristiano Mario Scelba; o ancora Il cavaliere e la morte: «il primo libro – assicura Sciascia – che mi sia accaduto di riscrivere» (però senza lasciare tracce utili a un esame specifico). Di là da questo, l’edizione adelphiana consegue il massimo pregio nelle ricostruzioni di una temperie storica, negli impulsi generativi e nei relativi ostacoli alla realizzazione che l’autore incontra per via.
Entro tali coordinate, testuali e contestuali, trova una spiccata conferma il protagonismo battagliero che caratterizza tutto il fare di Sciascia (il suo pòlemos, direbbe Ambroise); e che si manifesta anche in attività malnote come quella di traduttore, dall’inglese, dal francese, soprattutto dallo spagnolo.