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 2012  novembre 11 Domenica calendario

TUTTO IL MONDO IN UNA CORNICE

Siamo nell’epoca del forse, o forse no. Non è un gioco di parole ma la conclusione a cui porta parlare di globalizzazione. Ci propongono di riflettere sul tema due nuovi libri sull’arte contemporanea, entrambi di grande pregio didattico.
Postmediabooks propone Nuove geografie artistiche - Le mostre al tempo della globalizzazione di Roberto Pinto. Un volume che mancava, una storia delle mostre che hanno segnato il disperdersi dell’egemonia occidentale dei luoghi e nei temi delle esposizioni. Pinto ci ricorda come già nel 1851, all’Expo di Londra, fosse stato presentato al pubblico un intero villaggio Maori trasportato dalla Nuova Zelanda con abitanti, abitazioni e sculture: il dubbio che una parte dell’umanità trasformi un’altra in folklore resta sempre in agguato, come dimostrarono le polemiche con cui sono state accolte quasi tutte le rassegne successive, a incominciare da «Primitivism in 20th Century Art» (Museum of Modern Art di New York, 1984) e «Magiciens de la Terre» (Centre Pompidou, Parigi 1989).
L’autore offre le intenzioni dei curatori traducendo parte dei testi nei cataloghi; risulta illuminante Okwui Enwezor che, presentando la sua Biennale di Johannesburg (1997), precisa: «La colonizzazione e lo spostamento dei lavoratori hanno creato nuovi archetipi, persone, comunità e culture». Dalla conquista, dalla diaspora e dalle nuove autonomie non sono riemersi valori autoctoni, che sono ormai perduti, ma canoni nuovi e ibridi. Una mostra come «Cities on the Move», che ha caratterizzato gli anni Novanta nel suo nomadico comporsi in modo nuovo ogni volta che cambiava città, ha riflettuto appunto sulla costante «creolizzazione»: un termine nato con il grande teorico Edouard Glissant e che Hans Ulrich Obrist, uno dei curatori della mostra, prende sovente in prestito.
Ma siamo in grado di cogliere dove il mix si realizza al suo meglio? Le mostre raccolte da Pinto sono quelle che tutti riconosciamo come fondanti per il discorso postcoloniale, dalla Biennale di San Paolo a quella dell’Havana; eppure, tra qualche decennio, potremmo scoprire che in Cina o in Angola hanno avuto luogo esposizioni determinanti, alle quali non abbiamo saputo prestare attenzione.
Anna Detheridge è autrice per Einaudi di un vasto affresco dagli anni Sessanta a oggi, scritto per intuizioni e paratassi e con cenni interdisciplinari. Intitolato Scultori della speranza - L’arte nel contesto della globalizzazione, il libro parte dal presupposto che l’arte visiva abbia cambiato di segno con l’avvento delle pratiche concettuali (anche se ciò non esclude una sciabolata pregevole al ready made).
Mostrando come il fenomeno concept art sia stato fertile e irrevocabile, il testo accosta artisti molto noti a italiani di fama locale: in effetti, perché non porre finalmente sul medesimo piano tutte le culture e confrontarle con la nostra? Il saggio, non per nulla, si apre dichiarando una voluta attenzione al marginale. Va però detto che anche gli sguardi ad autori poco frequentati come Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello o Franco Vaccari, sono rivolti a nomi che la critica sta ora rileggendo con insistenza, cioè poco marginali. Né mancano riferimenti ad artisti affermati quali Gehrard Richter, Olafur Eliasson o la neostar Mario Garcia Torres. Nonostante le migliori intenzioni di indipendenza, il tracciato che si percorre leggendo non è lontano da un mainstream aggiornato.
Pinto e Detheridge non seguono un «Art Power», come lo ha definito Boris Groys, fatto di mercificazione. Il problema è che proprio la globalizzazione ci impone di leggere la storia dell’arte in modi sempre diversi dal passato ma piuttosto uniformi nel presente, che ci si occupi di mostre o di un’idea di arte concepita come via per la speranza civile.
Questi inciampi sono peraltro planetari e ci possiamo consolare con un esempio: nel suo volume Is Art Global? (2006), James Elkins evidenzia come un tempo i saggi di storia dell’arte presentassero frequenti citazioni di Ernst Gombrich, oggi oscurati dai riferimenti ad Aby Warburg. Ce lo dimostra, oltretutto, facendo uso di diagrammi tratti dal programma Power point, quello che sta uniformando le lezioni e la mentalità di studiosi e studenti, secondo una nota tesi di Edward Tuft. Come effetto della globalizzazione, insomma, consideriamo valevoli gli stessi autori, gli stessi eventi e persino gli stessi grafici.
Il nuovo spazio per il «forse» di cui si accennava sopra, dato dall’accostarsi delle culture, in effetti è più stretto di quanto avremmo desiderato. Non vincono il dubbio e il molteplice, ma impostazioni simili da Cuba a Venezia a Tokyo. Per ora.