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 2012  novembre 12 Lunedì calendario

I JEANS CON LA PLASTICA RICICLATA LA RIVOLUZIONE VERDE DELLA LEVI’S


Nei maxi-stadi dove gli americani trascorrono interi pomeriggi a guardare le partite del campionato di baseball (e a sbronzarsi), le Budweiser sono vendute solo in confezioni di plastica marrone per minimizzare il rischio di pericolosi lanci dagli spalti. Intanto, attraverso la raccolta differenziata dei rifiuti, si accumulano milioni di bottiglie di plastica verde usate per le bevande gassate e iper-zuccherate e altri milioni di contenitori trasparenti da quattro litri per l’acqua. Come riciclare questa montagna di contenitori? E come evitare al tempo stesso le accuse d’insensibilità ambientale rivolte all’industria dell’abbigliamento? Charles “Chip” Bergh, 54 anni, dal settembre 2011 chief executive della Levi Strauss, la più grande casa mondiale di blue-jeans, ha avuto un’idea: usare la plastica riciclata per integrare il cotone dei vestiti.
Dall’anno prossimo nelle boutique di tutto il mondo, nei grandi magazzini e soprattutto nei 470 negozi della società di San Francisco, la collezione Primavera 2013 “Levi Waste Less” sarà venduta con lo slogan: “Questi jeans sono fatti con l’immondizia”. Il 20 per cento del tessuto sarà infatti ricavato dalla plastica: in pratica otto bottiglie vecchie per ogni paio di pantaloni. «Fin dall’inizio della nostra storia abbiamo concepito l’abbigliamento in modo molto mirato e pragmatico», spiega James Curleigh, responsabile del marchio Levi’s a livello planetario. «E
nel dare ora un valore ai rifiuti, speriamo di cambiare anche il modo in cui la gente concepisce il riciclaggio».
Berg e Curleigh si augurano anche che, al di là di un gesto ricco di simbolismi e degli ammiccamenti a un pubblico sempre più sensibile alle tematiche ambientali, la neo-vocazione verde del gruppo si traduca in aumenti delle vendite e degli utili. Di cui, per la verità, la Levi Strauss ha bisogno. Pur restando infatti il primo produttore al mondo di abbigliamento “firmato”, con 4,1 miliardi di dollari di fatturato 2011, subisce anch’esso l’impatto della crisi.
Nel terzo trimestre di quest’anno il fatturato è sceso del 8,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2011, mentre l’utile è calato del 12 per cento anche per effetto dei movimenti valutari. Questi dati non hanno avuto ripercussioni in Borsa, né potevano averli dal momento che l’azienda non è borsa, ma ancora nelle mani degli eredi del fondatore (sono quotate solo le sue emissioni di bond). Ma il raffreddamento del mercato ha ovviamente messo in allarme Chip Berg e i 16mila dipendenti dell’azienda.
Intendiamoci: la situazione non è affatto allarmante. Ed è sorprendente che, dopo quasi un secolo e mezzo di storia, la società sia ancora autonoma, faccia perno sullo stesso business e continui a essere sana. Contrariamente alla leggenda, secondo cui Levi Strauss, un immigrante bavarese giunto a San Francisco, cominciò a vendere i suoi pantaloni di tela ai cercatori d’oro durante il “gold rush” californiano, i documenti storici parlano di un accordo tra il commerciante tedesco, che aveva aperto uno spaccio insieme ai fratelli, e il sarto Jacob Davis, che aveva inventato un paio di pantaloni rafforzati con fili di rame, ma gli mancavano i soldi per brevettarli. Dal 1873 quei jeans cominciarono a essere venduti a operai e lavoratori che ne apprezzavano la robustezza. Dopo la seconda guerra mondiale diventarono anche un capo alla moda.
Nel corso del tempo l’azienda ha continuato a espandersi: attraversando alcuni cicli negativi, ma sempre riprendendosi. L’ultimo periodo critico è stato a cavallo del millennio. Dopo nove anni su dieci di vendite in calo, nel 2007 la Levi Strauss è finalmente tornata in attivo, anche se con un fatturato quasi dimezzato: 4 miliardi di dollari rispetto ai 7 miliardi di metà degli anni Novanta. La ragione delle difficoltà? La concorrenza sempre più agguerrita di case rivali e di produttori low-cost, che i predecessori di Bergh hanno cercato di contrastare agendo sui costi, delocalizzando alcuni impianti e moltiplicando le cause per violazione dei copyright, in particolare contro Ralph Lauren, Zegna e altri gruppi tessili.
Il rapporto tra jeans made in Usa e quelli prodotti all’estero è complesso per la Levi Strauss, che proprio sull’identità americana ha fatto leva per moltiplicare le vendite. Ancora adesso i suoi pantaloni sono un simbolo di patriottismo: Glenn Beck, ad esempio, un personaggio famoso nel mondo della radio ed esponente della destra ultraconservatrice, ha lanciato una “sua” linea di jeans Levi’s, chiamato 1791, come l’anno in cui fu ratificata la costituzione jeffersoniana, e prodotto interamente negli States. Ma in un mondo globale la Levi Strauss aveva anche bisogno di integrare la specificità americana con elementi più vicini alla sensibilità del pubblico internazionale. Di qui la scelta del modello ecosostenibile, avviata con misure di risparmio energetico e continuata con iniziative sul cotone organico e il risparmio di acqua, per sfociare adesso nei pantaloni fatti di plastica.
“Una grande azienda con un minore impatto ambientale”: questo il motto adottato negli ultimi anni dai manager di San Francisco, tutti esterni alla proprietà, con il duplice obiettivo di farsi pubblicità e respingere le ricorrenti accuse di insensibilità ecologica. Così nel 2009 la Levi Strauss ha lanciato un programma di educazione del consumatore per spingerlo a lavare meno spesso i jeans, in modo da consumare meno acqua. Al tempo stesso, insieme a altre aziende del comprato riunite nell’associazione “Better cotton iniziative”, ha incoraggiato in Pakistan, India, Mali e Brasile la produzione di un cotone speciale che richiede meno irrigazione e che viene usato ora nel 5 per cento dei suoi jeans. L’azienda di San Francisco ha anche riesaminato il processo di lavorazione che serva a al denim, il tessuto dei jeans, il suo “look disperato”. Prima occorrevano 45 litri di acqua perché, con il lavaggio assieme alla pomice, ogni paio di pantaloni assumesse quella sua caratteristica inconfondibile. Adesso, grazie all’uso di ceramiche hi-tech, di palline di gomma e sistemi innovativi di filtraggio, bastano appena 4 litri e mezzo per ogni paio.
La multinazionale ha così risparmiato 360 milioni di litri di acqua, ma il vero salto di qualità sotto il profilo ambientale arriverà con l’uso della plastica riciclata. Le bottiglie vengono divise per colore, pulite e ridotte in fiocchi di polyester: che poi, grazie all’uso di speciali macchine filatrici, sono intrecciati nel tessuto di cotone. «Il colore delle ex-bottiglie di plastica - assicurano con orgoglio a Levi Plaza, la sede della società lungo l’Embarcadero di San Francisco conferisce al tessuto delle bellissime sfumature cromatiche».