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 2012  novembre 12 Lunedì calendario

VIAGGIO NELLA “CASTA DEI QUIRITI” ECCO CHI BLOCCA L’ECONOMIA ITALIANA


Consiglieri di Stato, potenti d’Italia. Padroni d’Italia. C’è un triangolo che parte da Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, passa per Via Venti Settembre, sede del ministero dell’Economia, e approda a Palazzo Chigi, sede del governo, che segna il tragitto di uno dei poteri opachi e immobili del ventennio di questa seconda Repubblica. Che spiega tante decisioni prese e altrettante rinviate, accantonate, dimenticate. Che spiega, innanzitutto, perché nessuna riforma dell’apparato statale sia mai riuscita a rendere efficiente la pubblica amministrazione italiana. Ma anche perché la politica industriale sia in gran parte scomparsa dai radar della Penisola e la politica economica si sia ridotta a mera operazione ragionieristica e perché, infine, il posto del diritto dell’economia sia stato occupato da un debordante diritto amministrativo complice l’incertezza del giudizio nel rito civile. L’uscita, per quanto parziale, dello Stato dall’economia è stato anche questo. Così ha preso forma una nuova Casta, la Casta dei palazzi romani, la Casta dei Quiriti.
In quel triangolo si muovono gli alti burocrati senza mandato democratico, esperti della norma e della procedura, grand commis aspiranti boiardi.

Magistrati amministrativi che hanno occupato progressivamente il vuoto lasciato colpevolmente dalla politica diventata “liquida”, ridotta a partiti “personali”, a veicolo per l’arricchimento individuale. Da servitori dello Stato a potenti
nello Stato. Quasi un governo parallelo o un pre-governo.
Escono da Palazzo Spada, luogo simbolico della giustizia amministrativa, dai Tar, talvolta dalla Corte dei Conti o dagli alti ranghi di Camera e Senato ed entrano nelle stanze del potere politico, economico e finanziario. Penetrano negli intrecci extragiudiziali.
All’origine della specie ci sono due personaggi entrambi deceduti. Sono loro i capostipite di questa Casta dei Quiriti: Franco Piga, più volte ministro nella “Repubblica dei partiti” (Industria e Partecipazioni statali), ma soprattutto consigliere di Stato e poi lungamente capo di gabinetto a Palazzo Chigi; e Giovanni Torregrossa, l’ultimo presidente dell’Agensud (la Cassa per il Mezzogiorno), anch’egli consigliere di Stato, per quindici anni capo di gabinetto alle Ppss con i democristiani Clelio Darida e Amintore Fanfani che seguì poi, sempre con lo stesso incarico, fino a Palazzo Chigi nei primi anni Ottanta.
GLI EREDI
Gli eredi di quella coppia hanno “governato” fino ai giorni nostri prima di lasciare a loro volta il testimone. Sono Pasquale De Lise, Corrado Calabrò e Lamberto Cardia, i primi due in origine consiglieri di Stato, poi tante altre cose, il terzo presidente di sezione della Corte dei Conti, e poi tante altre cose. Oggi sono più o meno - a un passo, dopo decenni, dall’uscire di scena. Ma hanno combattuto fino all’ultimo colpo. Cardia dopo una lunga incolore presidenza della Consob è finito (ben pagato) alla presidenza di Trenitalia. De Lise, a 75 anni suonati, presidente emerito del Consiglio di Stato, già potentissimo dominus del Tar del Lazio, sponsorizzato sempre dal gran cerimoniere Gianni Letta, chiamato in causa (ma non indagato) in diverse intercettazioni nell’inchiesta sulla cricca degli appalti Anemone-Balducci, non ce l’ha fatta ad andare a presiedere l’Authority per i Trasporti, che anche per questo continua a restare una scandalosa incompiuta. De Lise l’hanno bocciato in Parlamento il Pd e l’Idv. Un segnale, non di poco conto. Insieme ad altri. Come quello che ha sbarrato la strada a Calabrò (l’unico dei tre esterno al giro lettiano), che dal 1999 al 2001 è stato anche il presidente dell’Associazione magistrati del Consiglio di Stato, alla presidenza dell’Antitrust. Per decenni Calabrò ha girovagato come capo di gabinetto praticamente in tutti i ministeri (Bilancio, Sanità, Industria, Mezzogiorno, Marina Mercantile, Agricoltura, Poste e telecomunicazioni, Pubblica istruzione, Politiche comunitarie e Riforme istituzionali) quindi alla presidenza dell’Autorità per le Comunicazioni. Avrebbe voluto andare al posto di Antonio Catricalà alla più prestigiosa Autorità per la Concorrenza. Ma è stato stoppato soprattutto dal presidente del Senato, Renato Schifani, che ha piazzato il suo Giovanni Pitruzzella, costituzionalista, non amministrativista. Un altro segnale per la Casta dei consiglieri.
Ora sono due i potenti: il più noto Catricalà (classe 1952), consigliere di Stato, ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Vincenzo Fortunato (classe 1956), già al Tar, poi capo di gabinetto al ministero dell’Economia da una decina d’anni con una parentesi come capo di gabinetto al ministero delle Infrastrutture con Antonio Di Pietro. Fortunato è anche figlio d’arte: il padre lavorò a Palazzo Chigi con Emilio Colombo.
Ma Catricalà, uomo della continuità del rito lettiano per nulla amato dal premier Mario Monti è stato messo in ombra dall’under 40 Federico Toniato, vice segretario generale di Palazzo Chigi, scoperto dal Professore al Senato durante le consultazioni per la formazione del governo. Toniato è diventato una sorta di assistente del “ceo” Monti, costringendo Catricalà a un passo indietro sulle questioni di alta politica, e a ripiegare sulla gestione del potere burocratico. A fare il capo dell’apparato. Anche per questo è nata l’alleanza Catricalà- Fortunato, decisamente più forte della cordata di cui è espressione il consigliere (anche lui) divenuto ministro, quel Filippo Patroni Griffi che qua e là riesce a fermare le iniziative del sottosegretario di Palazzo Chigi come quella sul supercommissario anticorruzione che avrebbe allungato l’iter del relativo disegno di legge poi approvato dal Parlamento. Per conto di chi era nata l’iniziativa di Catricalà?
Eppure Fortunato è più potente di Catricalà. Senza il via libera del capo di gabinetto dell’Economia è praticamente impossibile che un provvedimento di legge possa arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri. O anche che un regolamento di qualsiasi ministero abbia il definitivo via libera. Il suo tavolo è un imbuto, lì arriva tutto, e tutto viene ordinato secondo priorità che spesso sono amministrative ma assai più spesso sarebbe difficile non definire “politiche”. Alcuni ministeri, alcune regioni (si perché da lì passano anche i provvedimenti di spesa delle regioni) hanno una corsia preferenziale. Gli altri ministeri chiedono udienza prima ancora di emanare atti, il Gabinetto del Mef seleziona, concede o non concede, frena o accelera. Le battaglie non mancano ma sono sorde, all’esterno non trapelano. Tutti sanno che con via XX Settembre bisogna fare i conti, ogni giorno. Anche perché dalla scrivania di Fortunato le carte passano poi ad altri due uffici del ministero, la potentissima Ragioneria generale, il cui bollino apre le porte se arriva e le chiude se non arriva, e il dipartimento Finanze, che ha la parola decisiva su qualunque atto tocchi direttamente o indirettamente le entrate.
L’INTERDIZIONE
Quello che molti ministro contestano è che il Mef non fa politica economica, fa politica contabile, e non sempre collabora quanto i ministri vorrebbero nella complessa operazione della ricerca delle famose “coperture” per gli atti di spesa. Non essendoci risorse a disposizione la strada sarebbe quella di spostare la spesa da dove è inefficiente a dove può essere più efficiente, ma questa valutazione economica il Mef, a quanto dicono i suoi critici, non la fa. E infatti ad ogni manovra le ricette sono sempre le stesse. Tagli dove è facile e tasse ogni volta che si può. Come se, pur sapendo da decenni che questo debito e questa spesa dobbiamo affrontarli, non fossero state studiate ricette, ipotesi, scenari. Il potere di quel Gabinetto è quindi essenzialmente di interdizione.
C’è un momento chiave nell’iter che conduce alle decisioni del governo: è quello del pre-Consiglio, il passaggio di raccordo tra l’amministrazione e la politica. Un tempo era quest’ultima a prevalere, a fissare la direzione di marcia. Non è più così. La debolezza della politica si infrange davanti al muro dei tecnicismi dei giureconsulti. Non è un caso, d’altra parte, se solo una percentuale ridotta dei provvedimenti del governo riesce da anni a giungere alla piena applicazione. Spesso le norme sono scritte per non essere applicate. E chi le scrive? A chi fa gioco la complessità? L’ultimo monitoraggio del Sole 24 Ore sull’attuazione dei principali provvedimenti di riforme del governo Monti segnala che il cammino è arrivato al 17,4 per cento. Troppo poco per dare efficacia alle misure adottate. Ma il potere affidato all’apparatchik deriva pure dai ben 482 provvedimenti necessari per l’applicazione completa delle norme. Tanto che per il 42 per cento il tempo sarebbe già scaduto. È come se una legge contasse di meno di un regolamento attuativo. Acqua al mulino di chi, per sua natura e funzione, non ha interesse che le cose cambino. Perché i nemici degli alti burocrati sono di certo almeno due: la trasparenza e la semplificazione. La prima toglie loro il monopolio delle competenze e del linguaggio; la seconda riduce il perimetro dei loro interventi. Sono clerici, più che burocrati.
Il pre-Consiglio, dunque. La sua liturgia, per l’appunto. Lo presiede il sottosegretario di Palazzo Chigi Catricalà, partecipano i sottosegretari degli altri dicasteri, i capi di gabinetto, i responsabili degli uffici legislativi. Non basta il bollino blu della Ragioneria, serve anche il via libera di Fortunato. Che ha costruito la sua di rete, anche in vista del prossimo passaggio generazionale nell’apparato: ci sono l’emergente Marco Pinto, membro del Cda della Rai in rappresentanza dell’azionista Tesoro ma già vice capo di gabinetto in via XX Settembre, il capo del legislativo Giuseppe Chinè, ma anche il capo di gabinetto del ministero del Lavoro, Francesco Tomasone, proveniente dalla Corte di Conti, considerato vicino alla sinistra, tecnico apprezzato fin dai tempi di Gino Giugni, poi con Tiziano Treu e ancora con Cesare Damiano, prima del governo dei tecnici.
I SIGNORI DEL BOLLINO
Tomasone conduce direttamente alla previdenza. Alle riforme delle pensioni che in questi anni si sono accavallate una dopo l’altra. I “signori della previdenza”, che dietro le quinte contano assai più dei ministri pro tempore, sia chiamano Tomasone, appunto, e Francesco Massicci, ispettore generale per la spesa sociale presso la Ragioneria, l’uomo dei conti, delle tabelle, delle proiezioni che spesso cambiano la vita di tanti italiani, esodati in testa. Personaggi, secondo alcuni sopravvalutati, eppure potenti, più dei politici di passaggio nei ministeri, più anche di Antonio Mastrapasqua, l’uomo dalla mille relazioni e ricchi compensi che da solo guida una macchina come l’Inps.
Non si ricordano né interviste né dichiarazioni di Massicci, che, infatti, non ama i giornalisti. Si dice che non abbia proprio un eloquio brillante. Si sa che per mantenersi in forma va a nuotare in piscina la mattina presto. Nei corridoi di Montecitorio i parlamentari raccontano pure che durante una riunione ristretta con alcuni membri della Commissione Lavoro in preparazione della riforma sul mercato del lavoro, la ministra Elsa Fornero abbia chiesto alla sua segreteria di cercarle per telefono Massicci. Poco dopo sarebbe arrivata la risposta di una segretaria: «Il dottore è in riunione ». Basita la ministra.
La Ragioneria conta, eccome, anche se non sono più i tempi di Andrea Monorchio. Mario Canzio al pari del suo predecessore Vittorio Grilli, poi diventato ministro dell’Economia, è politicamente meno visibile di Monorchio. Restano potenti (da loro dipende il destino di tutte le leggi) i ragionieri. Per quanto il loro sia un potere non reticolare come quello dei consiglieri di Stato e degli altri giudici amministrativi. Per quanto, ancora, il premier Monti abbia deciso di nominare un commissario ad acta ( Enrico Bondi) per avviare la spending review, implicitamente un gesto di sfiducia nei confronti di chi dovrebbe conoscere a mena dito la composizione della spesa pubblica nazionale. I ragionieri non sono proprio una lobby all’esterno, sono un sistema chiuso, potentissimo perché insindacabile: non c’è un altro soggetto nelle istituzioni che ha il potere e gli strumenti (cioè i numeri) per offrire al paese una verità sui conti diversa da quella della Ragioneria. Il tentativo di creare un centro indipendente o rafforzare l’Ufficio Bilancio del Parlamento è stato fortissimamente osteggiato e quindi bloccato proprio dalla Ragioneria. Fortino inaccessibile dall’esterno, ma a volte teatro di lotte intestine come quella che ha portato, per il dissidio con Canzio, l’ex ispettore generale Giuseppe Lucibello alla direzione dell’Inail.
Il centro di questo potere, che governa i flussi delle norme e delle risorse pubbliche, sta nelle stanze di via XX Settembre, ma la filiera passa anche da quelle del mega ministero dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture, ora congiunti e guidati da Corrado Passera. A depotenziare scientificamente il primo fu Giulio Tremonti nella sua lotta, all’epoca, con Claudio Scajola per questioni anche di leadership nel Pdl. Il secondo, dove è diventato viceministro Mario Ciaccia, anch’egli proveniente da BancaIntesa e pure dalla Corte dei conti, ha mantenuto una sua autonomia di risorse. Il capo di gabinetto è Mario Torsello, già magistrato contabile e poi consigliere di Stato, prima di cominciare con il governo Amato del 1992 il percorso all’interno dei ministeri. Ma se si prova a tornare indietro, alle polemiche furiose dell’ultimo scorcio del governo Berlusconi contro i niet di Tremonti a tutti gli altri ministri e poi alle difficoltà di Passera nel condurre in porto molti dei suoi provvedimenti si capisce che chi non ha mai abbassato la guardia sono la Ragioneria, da una parte, e Vincenzo Fortunato, dall’altra.
IN ATTESA DEL VOTO
Tra queste cordate in movimento, tra alleanze e conflitti sotterranei, manca la presenza femminile. Non ci sono le donne che per legge, invece, devono stare (almeno per il 33 per cento) nei board delle società quotate. Nemmeno i giovani, va da sé, trovano spazio, almeno per ora. Perché queste sono battaglie di una vecchia Italia, di conservazione degli assetti, di esclusione più che di inclusione se si volessero seguire i paradigmi di Daron Acemoglu e James Robinson nel loro Why nations fail.
I “mandarini” non demordono nonostante alcuni segnali siano arrivati: la bocciatura di De Lise all’Autorità per i trasporti, lo stop alle ambizioni di Calabrò per l’Antritrust. E poi il tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici, il divieto (con l’ultima legge cosiddetta anticorruzione) per i magistrati di partecipare a collegi arbitrali; e il limite dei dieci anni per gli incarichi fuori ruolo presso istituzioni, organi ed enti pubblici nazionali e internazionali. Chi li ha già maturati potrà restare in servizio fino al termine del mandato, ovvero la fine di questa legislatura, che quindi per molti di quelli che abbiamo qui nominato sarà l’ultimo giro di valzer.
E infatti i consiglieri (di Stato) in servizio permanente si preoccupano del futuro. Che vuol dire soprattutto rispondere alla seguente domanda: «Chi vincerà le prossime elezioni politiche?» Guardano e pensano a un possibile riposizionamento mentre assistono ai postumi del modello di governo lettiano mentre avanza la protesta grilllina. Ma l’incertezza potrebbe giocare dalla loro parte. Al pari della debolezza strutturale della politica. Perché il loro potere nasce dal vuoto lasciato da tutti gli altri. È un potere anziano di autoconservazione. Andrebbe rottamato.