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 2012  novembre 12 Lunedì calendario

FRANCESCO ROSI


Il fisico è ancora solido. Ma dietro gli occhiali bifocali a goccia si intravede lo sguardo malinconico di un signore che sta per compiere novant’anni. La sua parola è cortese. Di quella cortesia napoletana fatta di spontanee attenzioni: il caffè, la poltrona comoda, la dedizione all’altro. Anche se l’altro è la prima volta che mette piede in casa sua. È rilassato e disponibile Francesco Rosi, uno dei nostri artisti che ha reso grande il cinema italiano. Giuseppe Tornatore gli ha dedicato, sotto forma di conversazione, un libro molto intenso (Io lo chiamo cinematografo,
in uscita per Mondadori) che ripercorre i suoi novant’anni. «Sono stati lunghi, belli e penosi», dice Rosi. «Da qualche tempo non mi sveglio più con quella strana agitazione che ha afflitto questi miei ultimi anni». E lo dice, senza quella svogliatezza che hanno a volte i vecchi quando parlano di sé. Quando confessano un dolore nascosto che il pudore vorrebbe tenere a distanza, in una zona irraggiungibile del cuore. Il sole batte con delicatezza sulla vetrata di una casa la cui vista abbraccia la Roma di Trinità dei Monti. Sembra un quadro sulle pareti del cielo: «mi piace passare qui il mio tempo, ciò che mi rimane da vivere, tra le mie carte, i miei libri, i miei
ricordi, le mie abitudini».
In che ordine metterebbe le cose che ha citato?
«Non c’è un ordine preciso. Se non quello che di volta in volta ti mantiene vivo. Vede il tavolino? Tutte le pubblicazioni ammonticchiate parlano di me e del cinema. C’è Luchino, intendo Visconti, con la sua acribia estetica. C’è Gian Maria Volonté, avvolto da un rigore frenetico che poteva diventare contagioso. Ci sono io con
Le mani sulla città:
un film, se mi consente, che rivisto oggi fa ancora un effetto dirompente. Le belle cose non hanno tempo».
Eppure il cinema è cambiato. C’è molta più tecnologia. Come la vive?
«Mi getta nel panico. Però ci può stare che le cose cambino e si evolvano. Oggi tutti parlano di algoritmi per dire che dipendiamo dal calcolo e che la scienza e le statistiche guidano il nostro sentire. Ma il cinema – quello vero – non lo fai con la scienza, bensì con l’intuizione e l’espressività artistica».
Cosa l’ha affascinata del cinema?
«Il mio battesimo avvenne con Chaplin. Mio padre mi portò a vedere
Il monello
e lì, in quella umile sala rumorosa, intravidi cosa il cinema mi avrebbe potuto dare e cosa io avrei potuto realizzare con questo mezzo».
Lei ha sempre puntato all’impegno, allo sguardo politico, ignorando l’evasione. Perché?
«Perché ognuno è fatto a modo proprio. La mia educazione avvenne sulle idee di Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini. L’impegno sociale, la pulizia morale, le buone regole li avevano stampati in fronte. E poi venne Visconti: fu per me determinante».
In che modo?
«Diventai primo assistente a La terra trema e fu un’esperienza fondamentale. Il film lo girammo interamente in Sicilia. Per attori furono presi i pescatori e le donne del posto. Eravamo ad Acitrezza. Le riprese durarono sei mesi. Quel film mi ha fatto capire quanto importante è il rigore e l’assenza di artificio».
Ma anche quanto potesse essere esigente un personaggio come Visconti?
«Poteva trasformarsi in un uomo terribile. Un giorno si arrabbiò perché, secondo lui, non avevo eseguito al meglio certe disposizioni. Voleva sapere esattamente in che punto l’albero di una barca si spezzava dopo una tempesta. E io gli dissi che non
potevo, viste le condizioni del tempo, andare a misurarlo. Tu non mi devi rispondere così! Esclamò, fra l’isterico e l’incazzato ».
E lei che fece?
«Ero allibito e sconfortato. Ricordo che me ne andai a piangere sulla scogliera. Ma poi, dopo un paio di giorni, tutto riprese normalmente. È stato un grande nonostante i difetti. La mia ammirazione per lui era talmente profonda che avrei fatto qualsiasi cosa per fargli piacere».
Lei ha lavorato anche con altri registi?
«Sì, con Antonioni che era bravissimo nel gestire gli attori. Con Emmer, leggero e affabile. Con Monicelli, un uomo di grandissima intelligenza. Con Raffaello Matarazzo».
Il regista di Catene?
«Proprio lui. Ebbe un successo clamoroso negli anni cinquanta. Dietro quel suo modo un po’ patetico di fare cinema c’era in realtà un signore raffinato e colto. Aveva paura di tutto».
A proposito di successo, lei si impone quasi subito con La sfida.
«Era un film sulla camorra, girato quasi interamente tra le strade di Napoli. Allora, pochi conoscevano quel fenomeno criminale ».
Che lei approfondì con Le mani sulla città.
«Cercai di cogliere il grado di corruzione che la politica aveva toccato e il suo coinvolgimento negli affari criminali. Come vede: niente di nuovo sotto il sole».
Quel film era stato preceduto da Salvatore Giuliano. Di quali anni parliamo?
«Salvatore Giuliano uscì nel 1961, Le mani sulla città nel 1963».
C’è un cambio di linguaggio tra i due film.
«Salvatore Giuliano era più innovativo. Aveva delle soluzioni che rivoluzionarono la grammatica del cinema. Entrambi i film piacquero enormemente a Orson
Welles».
Lo ha conosciuto?
«Bene, quando girai
Il momento della verità.
Anche lui voleva fare un film sulle corride. Fu un personaggio straordinario. Colossale come il suo fisico: a tavola era uno spettacolo e nel cinema un genio assoluto. Afflitto da una permanente mancanza di
denaro».
Cosa pensa del film che Michael Cimino ha realizzato su Salvatore Giuliano?
«Un’opera imbarazzante. Tanto più, se si pensa che proviene dallo stesso autore che ha girato quel capolavoro assoluto che è Il cacciatore».
Un regista può essere così ondivago
nei risultati?
«Il fatto che accada ci insegna che la creatività ti può abbandonare da un momento all’altro».
A lei è successo?
«Certamente ho fatto film belli e meno belli. Se ripenso al mio
Cronaca di una morte annunciata
mi rendo conto di aver subito troppo la letterarietà del romanzo di Marquez. Tra l’altro scelsi un attore nel ruolo di protagonista che non funzionò».
Con chi ha lavorato meglio?
«Con Alberto Sordi feci
I magliari.
Si rivelò un attore che sapeva
andare oltre le sue corde comiche. Straordinario era Salvo Randone e un interprete mirabile fu Rod Steiger. E poi Gian Maria Volontè. Il suo professionismo rasentava la santità. Poteva ricopiare a mano per tre o quattro volte la sceneggiatura pur di entrare completamente nella
parte».
Di lui abbiamo il ricordo di un uomo schivo.
«Fu una singolare figura di comunista radicale. Era difficile discutere con Gian Maria. Tutto diventava per lui decisivo, per questo, a differenza di Elio Petri, cercavo di non provocarlo. Uno degli ultimi attori con cui ho lavorato fu Vittorio Gassman in
Dimenticare Palermo,
fu toccante e straordinaria la sua interpretazione. Mi chiese come era andato, e la cosa mi apparve strana detta da lui. E poi pensai: guarda questo attore acclamato da tutti e reso così fragile dalla depressione. Del resto ne sapevo qualcosa con Giancarla».
Intende dire sua moglie?
«Sì. Era una donna speciale. Me ne innamorai la prima volta che la vidi: una sera al bar Rosati di Roma. E non ebbi più pace fino a quando non ci mettemmo insieme. Allora, uscivo da una relazione con Nora Ricci che mi aveva dato Francesca, una bambina bellissima che, in seguito, manifestò qualche problema».
Di che natura?
«Sinceramente mi è difficile mettere a nudo questa parte. Giovanni Bollea mi disse che Francesca soffriva di una forma di autismo. E io non mi capacitavo. Certe volte la sentivo parlare al telefono. Con quella voce che improvvisamente si faceva squillante: “Sono la figlia di Francesco Rosi”, diceva. In certi momenti era felice e normalissima. In altri coglievo un disagio profondo. Poi un giorno ci fu un incidente».
Che cosa accadde?
«Stavamo andando in macchina a Napoli. Improvvisamente mi ritrovai fuori strada. Non ho nessun ricordo successivo. Mi risvegliai nell’ospedale di Frosinone e in seguito appresi che Francesca era morta sul colpo. Il mio dolore fu immenso. E a più di quarant’anni da quel fatto tragico, continuo a sentire in me un chiodo rovente. Non so perché gliene parlo. È come voler mettere a nudo un senso di colpa».
Forse anche desiderare di rivederla com’era e come l’ha amata.
«Ma siamo davvero dei testimoni attendibili, nel momento in cui rendiamo pubblico il nostro dolore?».
Forse sì. Se riusciamo a condividerlo
con gli altri.
«Forse. E mi viene da pensare a Giancarla, mia moglie. Siamo stati felici, insieme, per cinquant’anni. Senza di lei non avrei realizzato quasi nulla di tutto ciò che ho fatto. Capisce? Ci completavamo. E quando è caduta prima in depressione e poi è rimasta preda dell’Alzheimer, sono come impazzito. Per starle più vicino ho smesso di fare cinema. Mi sono dedicato al teatro. Ma quasi tutto il tempo lo dedicavo a lei. Ed è morta anche lei in maniera tragica, per un incendio provocato da una sigaretta, poco più di due anni fa. Solo oggi ho l’impressione di ricominciare a vivere ».
Avrebbe voglia di fare un nuovo film?
«Ogni tanto penso a quelli che non ho realizzato. E li ritrovo lì, appesi alla mia malinconia. Mi verrebbe voglia di scuoterli. Di riappassionarmi ai progetti. Ma i miei novant’anni rendono tutto più problematico».
Perché? Ci sono autori che nonostante l’età – o forse grazie ad essa – raccontano cose bellissime.
«Li invidio. Ma io sto sfiorando una soglia, oltre la quale c’è solo la morte. E le confesso che per la morte provo solo disgusto. Non mi piace. È una stronzata dirlo, perché non piace a nessuno. Però, mi accorgo che tutti i miei film hanno toccato il problema della morte. C’è una punta di metafisica in questo. Quanto alla morte concreta non è che ne ho paura. Ma non mi ci vedo. È come un fotogramma in cui non vorrei esserci. E allora mi illudo di fermare il tempo».
In che modo?
«Sa, vivo in una casa dove non ho spostato nulla dalla scomparsa di Giancarla. Sono tornato a dormire nella sua stanza da letto. Quando mi sveglio la mattina vedo il mondo che apparteneva a lei e questo per me significa continuità, mi rassicura sui sentimenti che provo. Sono più tranquillo. Meno angosciato. Nessun rumore ha più il suono sgradevole dello schianto».