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 2012  novembre 12 Lunedì calendario

RITORNO AL ROMANZO


Business as usual; business is business. Alcuni detti inglesi fra i più famosi in materia di affari (il business, l’essere busy, occupati) si adattano bene anche allo scrittore in lingua italiana che meno sentiamo come “nostro”, e forse più lo è (il Busi-ness: l’essere, umano, Busi). Business is business, Aldo Busi è sempre lui, as usual. Ma, poi, sappiamo davvero come è Busi?
La condizione di semi-sconosciuto potrebbe anche non dispiacergli del tutto, se nel libro con cui ritorna all’arte del romanzo (quasi inatteso, dopo dieci anni: oramai ci eravamo rassegnati) dedica una delle sue scene mentali più folgoranti ai rapporti fra sconosciuti e se, fra le scene non mentali e
en plein air,
una delle più emozionanti è quella di un ballo stradale fra sconosciuti. Il libro si intitola
El especialista de Barcelona
(dopo traversie note al lettore di
Repubblica,
lo pubblica in questi giorni Dalai, pagg. 374, euro 19). Forse il titolo in lingua non italiana è dovuto anche a quel desiderio di distacco, di indifferenza fisiognomica e di anonimato che ne anima il narratore protagonista, in trasferta catalana dopo un avventuroso addio alla notorietà da ospite televisivo che ha inseguito e quindi fuggito in Italia. Andare dove nessuno
ci conosce, venire ancora reclusi ed essere trattati da “cameriere italiano” (come accadeva nel
Seminario della gioventù);
finire fra intossicati da antidepressivi (torna l’indimenticabile “Koptacaz”, già spacciato da Jasmine Belart in
Vita standard di un venditore provvisorio di collant).
I lettori di Busi riconoscono spazi e situazioni, ma la gioventù è finita, il provvisorio ha cambiato vita, il Business, come al solito, è un altro. E qui sta il busillis.
Trama. Il protagonista del romanzo è lo scrittore che non vuole scriverlo. Sta seduto su una sedia sulla Rambla e si rivolge a una foglia di platano (che gli risponde). Ha una storia da raccontare, a lei e al lettore. Però si dimentica i nomi delle persone, dei posti, perde il filo in continuazione, ora gli parte un’invettiva, ora si mette a cantare. E poi con questo “especialista” (di bizzarrie letterarie in portoghese) c’è stato o non c’è stato, e se ne viene trattato male perché rimane lì? E noi lettori perché siamo qui, come d’autunno sugli alberi le foglie e d’inverno i petali sulle rose, visto che il
narratore ci dice di aver scoperto gli arcani altarini della famiglia, delle conoscenze e del vicinato dell’especialista ma non ce li racconta (né a lei, la sua foglia o a noi, sui suoi fogli)? Lo farà, ma con comodo, con certi progressivi incrementi di ritmo somministrati come flebo. Verso il finale darà poi le soluzioni dei suoi enigmi, tutte in una volta e in modo sbadato: come un interlocutore che non si ricordi che ciò che ora dà per risaputo è ciò su cui in passato ha ostentato di mantenere un segreto da giuramento solenne, e mortale. Le soluzioni sono sempre tanto inferiori, e fisiologiche, nei confronti della patologia degli enigmi...
Ma allora, se la vicenda sembra svolgersi sempre altrove (la seguiamo come se fosse in tv e il padrone di casa ci avesse invitato e continuasse a fare zapping, parlandoci oltretutto sopra) cosa avviene davvero in questo libro? Per parafrasare il precedente titolo dell’autore ci vogliono orecchi ben portati per la lingua, per prendere in carico, e dal lato buono, il giro sontuoso delle frasi, la sapiente costruzione in cui la cesellatura che stai ammirando è in realtà un’impalcatura.
Ancora più di nicchia sarà poi l’ammirato interesse per il flusso quasi placido con cui il discorso riesce a procedere mentre appena sotto la superficie lo agitano le correnti contrapposte di giochi di parole che mulinano due o tre linee di senso alla volta: «Io, por ejemplo, quando tento di cominciare qualcosa dicendo “io” divento subito pedante e barboso, non mi reggo io per primo [...]» (dove a ogni “io” corrisponde un livello di discorso diverso, con al loro posto tutte le anfibologie che collegano i tre livelli: por ejemplo). Per non parlare poi del tormentone dei segni d’accento, tildi, umlaute, cediglie (per parole e nomi in castigliano, catalano, tedesco, portoghese...) sulla cui ardua reperibilità nella propria tastiera Busi continua a infiorettare giochi incidentali di irresistibile frivolezza.
Ci sono lo scandalo della lingua virtuosa e quello della lingua giocosa, non estranea al nonsense. Ma c’è anche lo scandalo classico di qualche scena di quelle che una volta si qualificavano “esplicite”. Poca roba, perché né il soft né l’hard sono mai davvero stati il core business di Busi. Quando c’è da dire di
solidi e liquidi, certo, lo fa con franchezza: e si toglie così il pensiero.
Giochini, “provocazioni”, “trasgressioni”, “io” alla seconda, terza, ennesima potenza. A chi lo consiglieresti, un libro così? mi ha chiesto un’amica tutt’altro che maldisposta. La risposta è difficile, perché è innanzitutto difficile capire a chi questo libro è precluso. L’argomento di Busi è sempre quello a cui intitolò un suo romanzo intermedio: “Le persone normali”. Il modo in cui ognuno giudica o non giudica sé e gli altri. La solitudine necessaria per capire; la penetrazione ottenuta solo dal distacco, i segreti rapporti tra norma e abnorme
(A. B.. norme).
Busi è uno scrittore, ma nel suo caso la parola scrittore ha un senso diverso. I suoi lettori lo sono in un senso altrettanto speciale. La sintassi è lo strumento ottico che gli permette di vedere, riprendere, rappresentare. Quella potenza che fa di ogni sua cesellatura un’impalcatura (e viceversa), che tiene assieme i quattro sensi concorrenti di un suo calembour, che gli fa scattare il tono dal registro gongolante a quello morale dell’invettiva è la stessa potenza
che fa testo di una vita. «A meno che io non fossi io, ma io io lo sono stato in ogni istante della mia vita da quando me la dimentico e io io lo sono e non prevedo cambiamenti». A maggior riprova una delle frasi-grimaldello del romanzo è “Chi non muore si rivede”, ed è grimaldello e non chiave perché di sensi ne ha tanti e di porte non ne apre una sola. Questo rende il libro così difficile nel suo essere totalmente scorrevole e affabile; così duro, spigoloso, nel suo seduttivo propiziarsi la complicità del lettore; così perentorio nell’esigere che il lettore lo trasformi in un’esperienza personale e pressoché intima, partendo da esperienze ancor più personali del narratore (che oltretutto pare sempre sul punto di dirgli o dirle, come alla sua foglia: ma cosa vuoi? chi ti conosce? perché ti impicci?).
Non è letteratura priva di intrattenimento, quella di Busi. Ci diverte con le miserie della nostra mancanza di serietà; ci commuove con il rogo di tutti i nostri fazzoletti. Tanto è morbida e versatile la sua lingua quanto scabrose risultano le sue parole sulla pelle delle nostre delicate abitudini di anime belle letterarie.
Nulla di quanto scrive Busi potrebbe essere scritto, se non come lo scrive lui. E’ il risultato di un talento, di una disciplina e di un’abnegazione fuori dall’ordinario; ma è anche quanto dà al lettore l’occasione di ritenerlo scostante, eccessivo, contingente, ripetitivo, narcisista. A quel lettore si vorrebbe assicurare che nello specchio che l’autore ci tende, dopo averlo usato, l’immagine di Busi non c’è più. O il lettore ci mette la propria o confermerà la prima metà dell’incipit della favola: “C’erano una volta gli altri”. E, poiché non lo vorrà, non verrà a sapere che la letteratura di Busi è questa occasione per non morire, per rivedersi.