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 2012  novembre 12 Lunedì calendario

CHI HA UCCISO MICHAEL JACKSON


Il giorno in cui Michael morì, il mondo ebbe l’impressione che i Jackson avessero superato odi e rancori, che i genitori e gli otto fratelli stessero elaborando il lutto come normali esseri umani, distrutti dalla scomparsa prematura del numero uno, disorientati dalla perdita improvvisa di un padre nero che lasciava tre figli bianchi — Prince, Paris e Blanket — senza una mamma, affidati alle cure della nonna ottantenne. Solo Joe Jackson, il patriarca, duro come una quercia e non meno spietato di quando vigilava sulla sua famiglia canterina come un mastino, si lasciò scappare una frase che i media, insolitamente clementi, attribuirono a un attacco di demenza senile: «Mio figlio vale più da morto che da vivo». Di normale
nella dinastia del re del pop non c’era più nulla dal 1965, da quando Joe, nel giorno del settimo compleanno di Michael, portò i Jackson 5 a un concorso di canto e scoprì che il più giovane dei cinque era il genio di casa.
«Il padre dei Jackson, il vero artefice di quel successo, è un bruto scaltro, vanaglorioso e dispotico. Ferì a tal punto il più sensibile dei suoi sei figli che, per tutta l’età adulta, Michael sarebbe stato animato dalla fiera determinazione a somigliare il meno possibile a Joseph Jackson» scrive Randall Sullivan, il giornalista investigativo firma di punta di
Esquire
e
Rolling Stone,
che domani pubblica
M-Vita, morte, segreti e leggenda del Re del Pop
(Ed. Piemme, 688 pagg., 23,50 euro), l’unica biografia post mortem circostanziata e attendibile su Michael Jackson.

«Il padre dei Jackson, il vero artefice di quel successo, è un bruto scaltro, vanaglorioso e dispotico. Ferì a tal punto il più sensibile dei suoi sei figli che, per tutta l’età adulta, Michael sarebbe stato animato dalla fiera determinazione a somigliare il meno possibile a Joseph Jackson» scrive Randall Sullivan, il giornalista investigativo firma di punta di
Esquire
e
Rolling Stone,
che domani pubblica
M-Vita, morte, segreti e leggenda del Re del Pop(
Ed. Piemme, 688 pagg., 23,50 euro), l’unica biografia post mortem circostanziata e attendibile su Michael Jackson.
A oltre tre anni dalla scomparsa di Michael, ora che i debiti sono stati sanati, la normalità è ancora tabù in casa Jackson. Tre miliardi di dollari che attualmente transitano nelle casse (rigidamente amministrati dai tre esecutori testamentari nominati dal defunto) e un patrimonio che ne può generare altrettanti nel giro di pochi anni hanno scatenato una ferocia all’interno della famiglia che Sullivan esplora col rigore del cronista, attenendosi ai fatti, schivando il gossip e lasciando il lettore con una domanda cui ad ogni capitolo si aggiunge un nuovo punto interrogativo: chi ha veramente ucciso Michael Jackson? D’accordo, il dottor Conrad Murray sta scontando la pena per aver somministrato la dose fatale di Propofol, il potente ipnotico che il 25 giugno 2009 causò l’arresto cardiaco di Jacko, ma come mai un uomo di 50 anni era in uno stato di decadimento fisico da far pietà al medico legale? come mai non riusciva a dormire neanche un’ora senza l’aiuto di un anestetico e la presenza
di un anestesista? come aveva fatto l’uomo che possedeva gran parte del catalogo dei Beatles a dilapidare una fortuna al punto da dover accettare un contratto che non sarebbe mai stato in grado di onorare? in quale solitudine era sprofondato l’artista che aveva messo la sua vita in mano ai Testimoni di Geova, a Scientology, al chirurgo plastico Arnold Klein, al Rabbino Boteach, alla Nation of Islam e al consigliere spirituale
delle star Deepak Chopra?
L’agonia di Michael Jackson, rivela Sullivan, era iniziata nel 1994, all’epoca delle prime accuse per pedofilia, quando Evan Chandler, padre del dodicenne Jordan,l’avevatrascinatointribunale con l’accusa di molestie ai danni di minore ed esposto a umiliazioni inaudite (fu fotografato nudo dalla vita in giù), salvo poi accettare venti milioni di dollari per risolvere il caso in via extragiudiziale
— «il primo grande errore del cantante; per tutti significò un’implicita ammissione di colpa. E a rendere più penosa la situazione era il fatto che la fonte principale delle sofferenze da cui cercava di fuggire si annidava proprio all’interno della sua famiglia ». Sempre più debole, disorientato, schiavo di psicofarmaci eanalgesici,l’artista,lecuifortune erano centuplicate dopo l’uscita di
Thriller
e l’acquisizione del catalogo
dei Beatles, faceva uso di Propofol in tour dall’età di 36 anni. Era già al centro di un mostruoso meccanismo che coinvolgeva familiari, amici, legali, impresari, discografici, medici, consiglieri spirituali, governanti, creditori veri o presunti e un’orda di opportunisti che, nel tentativo di estorcergli denaro, macchinavano incessantemente alle sue spalle. E i peggiori di tutti erano quelli che portavano il suo stesso
cognome. Michael ne aveva fatto le spese già all’epoca della reunion dei Jacksons, un’operazione che il padre padrone non sarebbe riuscito a concludere senza la mediazione di mamma Katherine, l’unico membro del clan che avesse un ascendente su Michael. Fratelli e sorelle, voracissimi, agivano come trapani sulla matriarca affinché intercedesse presso Michael ogni qual volta avevano bisogno di contanti. La caccia ai bigliettoni non ebbe termine neanche nelle ore successive alla morte. «La notte stessa», racconta Sullivan, «la bambinaia Grace Rwaramba ricevette una telefonata da Katherine: “I bambini piangono, chiedono di te, non riescono a credere che il papà sia morto. A proposito, ti ricordi che Michael nascondeva sempre contanti in giro per casa? Mi trovo nella sua villa proprio in questo momento. Secondo te dove li ha messi?”. I membri della squadra di sicurezza sostennero che fu La-Toya a riempire borsoni di tela con sacchi neri colmi di contanti e a sistemarli in garage». Pur non consentendo ai familiari l’ingresso in casa, Jackson continuava a esserne ostaggio. All’epoca del tormentato processo per pedofilia, che nel 2005 si concluse con l’assoluzione, gli avvocati raccomandarono la presenza dei familiari in aula; avrebbe favorevolmente impressionato i giurati. Quelli ne approfittarono per riguadagnare terreno. Fu il fratello Jermaine, che si era convertito all’Islam, ad architettare la fuga in Bahrein, dove Michael e i figli divennero a tutti gli effetti prigionieri di lusso dello sceicco Abdullah, che finanziava i capricci della star con la mira di lanciare una propria carriera discografica.
Gli ultimi anni furono rocamboleschi, ma allo stesso tempo lividi. In fuga tra le sabbie arabe, nella verde Irlanda o in una sordida hacienda di Las Vegas, Jackson era costretto a confrontarsi quotidianamente con gli squali. Non c’era più ombra di creatività nel-l’artista, che per oltre quindici anni visse al centro di una miriade di complotti (quello della sua casa discografica per indebolirlo economicamente non è mai stato provato). Dopo l’assoluzione del 2005, «tentava in tutti i modi di trovare un sistema di far soldi che non implicasse la sua presenza su un palcoscenico o in uno studio di registrazione». E allo stesso tempo era invischiato in tanti e tali procedimenti penali e civili da non potersi permettere neanche un conto a proprio nome; i capitali transitavano in quelli di fiduciari sfiduciati, di Arnold Klein o della bambinaia che gli aveva sguinzagliato la Nation of Islam. Quando, in occasione dei concerti alla 02 Arena, si tornò a parlare di milioni, rispuntarono i vecchi “amici”: «L’ex manager Frank Dileo, membri della famiglia e persino John Landis, il regista di
Thriller,
che si era mosso per primo il 21 gennaio del 2009, quando i concerti di Londra erano solo un progetto».
Il quartier generale dei Jackson, la villa di Hayvenhurst, era (ed è) il centro nevralgico dove genitori, fratelli, nipoti, nuore sedotte e abbandonate tessevano trame degne delle
Cronache dal Serraglio.
Michael era diventato l’ultima ruota del carro, gli comunicavano a cose fatte che le serate da dieci erano diventate venti, poi trenta, poi cinquanta «perché altrimenti la cifra non sarebbe stata sufficiente a colmare i buchi». Terrorizzato di finire sul lastrico e non riuscire a provvedere ai figli, l’artista firmava e invocava dosi sempre maggiori di Propofol per riuscire ad addormentarsi. I concerti di Londra non si sarebbero mai fatti, neanche se fosse vissuto.
Non ci fu pietà per il defunto.
«Nel 2009, prima che le varie apparizioni (pagate) dei Jackson nel giorno del compleanno di Michael causassero il rinvio del funerale dal 29 agosto al 3 settembre, la sepoltura era stata ritardata per le discussioni tra Janet e gli amministratori del patrimonio da una parte, e tra Janet e la sua famiglia dall’altra. Essendo l’unico membro della famiglia a vantare una certa agiatezza, aveva versato il deposito di 40mila dollari a Forest Lawn. In luglio e agosto si era rifiutata di far celebrare il rito funebre senza prima aver riavuto i suoi soldi». L’ultimo atto dei soliti noti è recentissimo, cinematografico e goffo: nel tentativo di sfiduciare i tre esecutori testamentari ed entrare in possesso del patrimonio i fratelli organizzano il rapimento di Katherine, l’unica in grado di contrastarli in quanto tutrice legale dei minori. Con l’aiuto di un medico compiacente le fanno credere di aver avuto un picco ipertensivo. Un commando guidato da Rebbie, Randy, Janet e Jermaine la accompagna
in una spa dell’Arizona, lasciandola per giorni senza cellulare e senza tv, mentre invia ai legali una lettera in cui reclamano la gestione del patrimonio (che sortisce tutto tranne il risultato sperato). Prince e Paris, i due figli maggiori, mangiano la foglia e cominciano a inviare messaggi via Twitter in cui denunciano la scomparsa della nonna e accennano al complotto. «Quella serie di colpi di scena maldestri hanno diviso i suoi figli più che mai», conclude Sullivan, «e la matriarca è ancora oppressa dalla tristezza della situazione». Le è stata di conforto la finalizzazione dell’acquisto di altre undici tombe nella Holly Terrace di Forest Lawn. «Così da morto Michael Jackson sarebbe stato circondato dai membri di una famiglia che aveva cercato di tenere a distanza per gran parte della sua vita». L’ultimo capitolo del thriller è ancora tutto da scrivere. La parola, adesso, spetta ai figli. E stando alla cronaca
non sono tre pezzi facili.