Gianpaolo Pansa, Libero 11/11/2012, 11 novembre 2012
IL BESTIARIO
[Segreti e veleni dei telegiornali] –
Era la primavera del 2006 e si avvicinavano le elezioni politiche di aprile. Alla Rai toccò il compito di mandare in onda il confronto televisivo tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Come moderatore il Cavaliere aveva indicato Bruno Vespa, mentre il Professore preferiva Clemente Mimun, direttore del Tg1. Toccò a lui sorvegliare lo scontro. Quello che gli spettatori non videro ce lo racconta oggi Mimun, nel suo libro appena uscito: «Ho visto cose...» (Mondadori, 180 pagine, 18 euro ). Prodi mostrava una faccia tesa, era super concentrato, mentre il suo staff seguitava ad allenarlo. Berlusconi aveva i nervi a fior di pelle. Il Cavaliere parlava più dei minuti concessi e il Professore si incavolava. Diceva a Mimun: lo fermi, è intollerabile, lo interrompa! Entrambi volevano vincere ed era chiaro che si odiavano. Nel secondo match, moderato da Vespa, il Cav chiuse l’incontro con un annuncio a sorpresa: l’abolizione dell’Ici. Non esisteva la possibilità di una replica prodiana, perché il tempo era scaduto. E forse Berlusconi si convinse di aver vinto le elezioni.
Al contrario di quanto immaginava Silvio, la vittoria andò a Prodi. Ma fu un successo effimero, agguantato per il rotto della cuffia. Il governo del Professore durò poco più di anno. Guidava l’Unione, una baracca piena di partiti nemici l’uno dell’altro, che si erano dati un programma di dimensioni mostruose, ben trecento pagine. Dovevano realizzarlo un premier, due vice premier, 23 ministri, 10 viceministri, 66 sottosegretari. Un record mondiale.
Alla fine del gennaio 2008, il governo Prodi finì a carte quarantotto. Pochi mesi dopo, le nuove elezioni decretarono il trionfo di Berlusconi che a sua volta durò a Palazzo Chigi soltanto sino al novembre 2011. E fu costretto a lasciare il passo ai tecnici di Mario Monti.
Il libro di Mimun dovrebbe essere letto dai tanti politici ancora convinti che la tivù garantisca la vittoria a un governo. Non è così. La televisione, almeno in Italia, è diventata un media impotente. Ecco la prima lezione che si ricava dai ricordi di chi dirige il Tg5 di Mediaset, dopo aver guidato in Rai il Tg2 e poi il Tg1. Lui ce lo spiega in questo racconto autobiografico ben scritto, avvincente e un tantino malinconico.
La malinconia non va ritenuta un difetto. Mimun è un essere umano che mi piace. Ha molto carattere. Si è fatto tutto da solo con una gavetta lunga e difficile, che oggi novanta giovani su cento rifiuterebbero di sopportare. Come dice il titolo del suo racconto, ha visto e sofferto cose che non tutti affrontano.
L’attrazione fatale di guidare un telegiornale, e l’enorme lavoro che comporta, li ha pagati con una malattia che poteva metterlo fuori gioco per sempre. Tuttavia, a 59 anni, sta ancora molte ore negli studi romani di Mediaset al Palatino per onorare l’incarico di direttore.
Al sinistrume italico Mimun non piace per niente. Lo considerano un servo di Berlusconi. È una vecchia abitudine di tutte le parrocchie rosse. Se non ti inginocchi e non obbedisci ai loro ordini, ti bollano come uno sgherro o un maggiordomo al soldo del loro avversario, il Cavaliere. L’hanno fatto anche con me.
In realtà Clemente è al servizio soltanto del proprio scrupolo professionale. Mentre leggevo i suoi ricordi, mi sono reso conto per l’ennesima volta della coglioneria di tanti big rossi. Certo, lui ha un editore, e dunque un padrone, al quale deve rispondere. Ma succede sempre così nei media che sono proprietà di privati. Come accade nella carta stampata, compreso il quotidiano che state leggendo.
Tuttavia è molto meglio un padrone solo che un’Armata Brancaleone di padroni politici irresponsabili che pensano soltanto al proprio miserabile vantaggio. Meglio avere un limite chiaro che ti condiziona, piuttosto che subire un’infinità di limiti nascosti che ti assediano, ti strozzano, ti rendono impossibile il lavoro. Le pagine che Mimun dedica alla Rai, dove ha lavorato per tredici anni, ci rammentano che l’arroganza dei partiti e la loro voracità non sono nate l’altro ieri.
Clemente racconta vicende che danno i brividi. Bettino Craxi lo voleva agli speciali del Tg1, perché aveva sentito dire che era un elettore socialista. Ma non sapeva neppure il suo nome. Ordinò “Metteteci Mammuth!”. I ritratti delle star incontrate nella tivù pubblica sono al vetriolo. E senza sconti per nessuno, neppure per le signore come madama Gruber, la regina della superbia.
Le cose che ha visto svelano il verme nascosto sotto la buccia di mele splendide a vedersi, però intaccate da una quantità di vizi. La faziosità politica. La scelta suicida di schierarsi per questo o quel partito. La voglia di mettersi agli ordini di chi sembra potente e garantisce carriere immeritate. Certo, la televisione appare ancora uno dei poteri forti nell’Italia 2012. Tuttavia una straniero in patria come Mimun (nonna materna nata a Tunisi, nonno paterno in Palestina, padre a Tripoli) con il suo racconto svela l’inganno. La tivù ormai conta molto poco. Lo conferma il declino della Casta, insieme al successo surreale e rischioso di un tribuno alla Beppe Grillo.
Lui non possiede emittenti tivù. Non dirige reti o telegiornali. Non partecipa a confronti televisivi. Eppure può scassare del tutto un sistema politico senza crearne un altro. Scagliandoci in un abisso anarchico che nessuno aveva annusato. La sua arma non è il web, il mondo di Internet, come di solito si ritiene. La bomba nucleare glie la offriamo noi, a cominciare dai partiti. Nessuno ha bisogno di uccidere i leader della sinistra, del centro, della destra. Provvedono ad annientarsi da soli.
Caro Mimun, se fossi il direttore di “Libero” manderei il più bravo dei miei giornalisti a intervistarti sul kapò delle Cinque stelle. E la domanda conclusiva del colloquio dovrebbe essere espressa così: “Conviene a un politico andare in tivù nella speranza che gli serva a vincere le elezioni?”. Ho ricordato come si concluse il match tra Prodi e Berlusconi. Ma una riflessione sull’oggi sarebbe interessante per molti.
Tuttavia la domanda vera da fare a Mimun potrebbe essere un’altra: “Ha ancora senso dirigere un telegiornale? O forse è soltanto un’attrazione fatale sì, ma inutile?”. Immagino la tua risposta professionale, propria di chi ha il giusto orgoglio di essere arrivato in alto senza l’aiuto di nessuno: “Fai quel che devi e poi avvenga quel che può”.
È la replica che vale per i cani senza collare come te, caro Clemente. E se permetti anche per i vecchi cagnoni come il tuo amico Pansa.