Egle Santolini, TuttoLibri, La Stampa 10/11/2012, 10 novembre 2012
“A SCUOLA DA DUMAS PER INCATENARE IL LETTORE”
[Mille pagine Il monumentale «Villa Metaphora» costruito attingendo un po’ ovunque: dalla filologia germanica all’economia, ai manuali di selfhelp] –
Nell’arsenale di letture che Andrea De Carlo ha consultato per Villa Metaphora, è entrato di tutto. «Trattati di filologia germanica - elenca e saggistica francese per aggiungere dettagli all’intellettuale parigina. Studi sulle lingue inventate, per mettere a punto il dialetto che parlano alcuni dei miei 14 personaggi: quello di Tari, un’isola immaginaria a Sud della Sicilia, dove tutti convergono in un resort privatissimo. Verga, altri veristi, qualche oscuro poeta dialettale siciliano». E poi libri di economia, visto che vi si parla, tra l’altro, di banchieri tedeschi. Ma anche fonti più inaspettate: «Certi manuali di self help, per esempio, e un bel po’di siti di gossip, indispensabili per Lynn Lou, la star americana». Riviste di arredamento e articoli sul risparmio energetico, per dare all’architetto Gianluca Perusato e al falegname Paolo Zacomel le parole giuste a indicare le essenze del legno e certi congegni per la desalinizzazione. E per il rapporto tra Paolo e Lara Laremi, «tutto l’armamentario romantico, dai Dolori del giovane Werther in poi. Queste letture stratificate affiorano, nel romanzo, accanto a quelle di una vita. Ma soprattutto ci sono anni di osservazione e di ascolto in vari campi d’indagine. Nella costruzione dei personaggi ho sempre adoperato un metodo Actor’s Studio: ne immagino il retroterra, quello che il lettore non sa ma percepisce. Qui ho dovuto moltiplicare il lavoro per 14. La sfida chiedeva di essere raccolta: registrare ciò che sta succedendo in modo preciso e documentato, però senza l’affanno della cronaca giornalistica».
E delle sue invenzioni letterarie lei elenca anche le letture. Zacomel, buon selvaggio e gentiluomo, si sfama sull’isola con formaggio, pomodori e racconti di Cechov.
«Il fatto che siano racconti ti dà la sensazione che puoi anche non leggerli tutti di fila: quelli di Cechov li avevo frequentati anni fa, però non integralmente. Ho rimediato più di recente, ora sono un libro fondamentale anche per me».
Torniamo indietro nel tempo, alla dieta culturale di un ragazzo borghese nella Milano degli Anni Sessanta e Settanta.
«Verso i nove anni ci sono stati I tre moschettieri.Dumas è stato il primo a farmi capire che romanzo voleva dire star lì incatenati, a vedere quello che succedeva, ad appassionarsi ai personaggi a cui tieni o che non sopporti. Soprattutto, da bambino chiuso in una metropoli grigia provavo un gran bisogno di evasione e di natura. Molti libri d’avventura, alla scoperta di mondi lontanissimi. Ne ricordo uno in particolare, I fiumi scendevano a Oriente del colonnello Leonard Clark. Col tempo sono arrivate le vere e proprie letture di formazione. Kafka,Orwell, i russi dell’Ottocento. Egli americani».
L’inevitabile Hemingway.
«E più ancora Scott Fitzgerald: considero Il grande Gatsby ciò che più si avvicina all’idea di romanzo perfetto. Kerouac, anche: la rottura linguistica della letteratura beat. E Bob Dylan, soprattutto quello di Blonde on Blonde, forse l’influenza letteraria più forte che io abbia mai sperimentato. È stato lui a trascinare la letteratura nella musica, riportandola all’origine degli aedi e dei cantori omerici».
Dunque se vincesse il Nobel lei non griderebbe allo scandalo.
«Al punto che, avendone l’occasione, ho provato a dare a Dylan un importante premio americano. Ero nella giuria del Neustadt, hanno finito per scegliere un indiano, professore universitario come loro».
La sua carriera letteraria è stata innescata da un incontro con Calvino.
«Senza di lui non avrei mai pubblicato Treno di panna.Al di là di questa circostanza, e della conoscenza personale, gli devo un riferimento stilistico basilare, la scoperta della lingua come gioco musicale, la leggerezza un punto di vista così raro in Italia. E a proposito di ribellione agli stereotipi nazionali, ricordo la passione con cui ho letto Beppe Fenoglio, il tentativo quasi disperato, nel Partigiano Johnny, di rompere la crosta dell’italiano letterario. “Il libro che tutti avremmo voluto scrivere”, per tornare a Calvino. Di Fenoglio ammiro la generosità, il coraggio del rischio. Prendo atto del fatto che, da vivo, sia stato rifiutato da tutti. Ma non bisogna neanche farsi influenzare dal successo di pubblico. Anche Scott Fitzgerald, alla sua epoca, non era certo in cima alle classifiche.Dove stava gente che adesso neanche più ci ricordiamo chi fosse».
Chi le piace, dei contemporanei?
«Mi piaceva molto John Irving per la capacità di costruire mondi, per esempio in Hotel New Hampshire, ma oggi mi pare che si sia rifugiato in una nicchia più angusta. Anche Ian McEwan, che pure è bravissimo, mi delude quando sospetto che, dei suoi libri, abbia già in mente la possibile trasposizione in film: certe volte nella trama, certi toni. Le versioni cinematografiche sono pericolosissime per gli scrittori. Non a caso il libro recente di McEwan che più mi ha convinto è Chesil Beach, perché era evidente fin dalla premessa che nessuno ne avrebbe ricavato un film».
E infatti Sam Mendes ci ha provato, con Carey Mulligan, ma a quanto pare ci si è impantanato. Ma tornando al suo, di romanzo 921 pagine sono forse più comode da leggere su supporto elettronico che su carta. E lei che rapporto ha con l’e-book?
«Senza pregiudizi, ma sono ancora affezionato all’aspetto tattile dei libri. Soprattutto, distinguerei fra libri cartacei brutti e belli. Un libro ben stampato è impareggiabile, ma oggi purtroppo quanti cattivi inchiostri, quanti caratteri microscopici, quanta pessima carta e con scarse rilegature. Più in generale, trovo che le nuove tecnologie siano una buona opportunità: niente mi pare più vicino alla telepatia del linguaggio che usiamo negli sms. Resta il fatto che la grande malattia contemporanea, quella soltanto nostra, è il deficit di attenzione. Abbiamo troppi canali aperti, parliamo con le persone più amate e, insieme, aspettiamo l’arrivo di una e-mail o lo squillo del telefono. Tutto sommato, una barbarie senza precedenti».