Maurizio Ferraris, la Repubblica 11/11/2012, 11 novembre 2012
IL MONDO IN UN TAG
[Si chiama così il metodo di catalogazione dei testi sul web con parole chiave. Una questione che riguarda non solo il sapere ma anche il potere] –
“Tag” propriamente significa “cartellino”, “etichetta”. Ed è il nome che si adopera per classificare un qualunque testo (verbale, visivo, musicale) pubblicato sul web, per descriverne l’argomento con una o più parole- chiave e facilitarne la ricerca. Un fenomeno elementare, in apparenza, ma che a ben vedere ci fornisce una via d’accesso privilegiata a uno dei maggiori problemi (o meglio enigmi) della nostra epoca. Questo: il web, attraverso tutti gli schermi (di computer, tablet, smartphone) che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno non fa che parlare di sé, eppure non sappiamo cos’è veramente.
Riflettendoci un momento, la risposta viene dal nome preso spontaneamente dagli oggetti che popolano i nostri
archivi digitali e i desktop, cioè le scrivanie (altro nome non accidentale) dei nostri computer: files (cioè cartelline), sistemi di scrittura, raccoglitori di immagini. Eureka: il web è un dispositivo che produce documenti, non è un apparato passivo, non è un tessuto ma un tessitore, e questa è la grande differenza rispetto a mezzi come la televisione o la radio, la cui funzione prevalente è trasmettere informazioni su eventi generati altrove.
Il web è dunque un sistema performativo, e non puramente descrittivo, e questo spiega perché abbia cambiato la nostra vita molto più dei mezzi di comunicazione di massa di cui viene impropriamente considerato l’erede. Sebbene possa svolgere le funzioni dei vecchi mass media, il web si distingue da essi perché è in grado di generare oggetti (dai biglietti aerei ai crediti alle scommesse); questi oggetti nascono dalla interazione tra soggetti, e si fissano attraverso apparati di registrazione. Così, se con “scrittura” intendiamo ogni possibilità di iterazione indefinita, il mondo sociale si manifesta come una scrittura generalizzata, che esplode, sparpagliandosi caoticamente, e insieme subisce un processo di inflazione che non ha precedenti, e che del resto non è estraneo alla crisi economica.
A questo punto, i problemi cruciali, e interconnessi, sono quelli della classificazione e della validazione di questo corpus bulimico e babelico. Ed è questa circostanza che ha determinato il rilancio della ontologia, questa specialità filosofica del Seicento riportata in auge inizialmente non dai filosofi, ma dagli informatici: come classificare i documenti di una amministrazione pubblica? Come costruire un database medico o un corpus giuridico unificato? Ci pensa il filosofo in collaborazione con l’informatico, il giurista, l’economista.
Resta però che, per quanto importanti, questi progetti possono al massimo generare delle isole d’ordine in un mare troppo grande per venire ordinato dall’alto. Soprattutto, di un mare che è disordinato, ma tende anzi a organizzarsi da solo, secondo principi abitudinari, quelli appunto generati dalla registrazione, dalla memoria che è la sua risorsa fondamentale e la sua anima autentica. Pensate a come il vostro computer o tablet o smartphone registra le parole che adoperate più frequentemente, e si ostini a imporvele anche quando voi vorreste scrivere altro, quasi che pretendesse lui di sapere che cosa volete dire voi (il bello è che talora ha ragione).
È a questo punto che intervengono i “tag”, che potremmo forse definire, in omaggio al postmoderno,
delle “ontologie deboli” o “rizomatiche”. Come tali, sono appunto eredi delle parole- chiave che si trovano nei libri, per aiutare il bibliotecario. Qui però devono aiutare il lettore, che è un’altra cosa (e che del resto è spesso insoddisfatto dei cataloghi a soggetto). Inoltre, nel tag la parola-chiave la mette l’autore, e non necessariamente l’autorialità significa autorevolezza e precisione: non dimentichiamo che quando Colombo ha taggato la sua scoperta l’ha chiamata “India”, o che Dante ha intitolato la sua opera “Commedia”, che per gli standard contemporanei è un po’ confusivo. Allora deve decidere il lettore? Per un po’ sì lo si è pensato, e sono andate di moda le “folksonomies”, le classificazioni generate dagli utenti, ma è un fatto che forse sono un po’ meno confusi degli autori, ma certamente sono molto più numerosi
e con opinioni contrastanti.
Negli ultimi tempi una delle soluzioni adottate da chi si occupa di progettare i siti è stata quella delle “parole-chiave”, in modo che la responsabilità del tag rimanga agli autori. È, emblematicamente, il caso degli “hashtag” in twitter, cioè di quelle parole marcate con il simbolo del cancelletto #. Si tratta, insieme a @, di un miracolato del web che in precedenza aveva vissuto – fuori del mondo angloamericano, dove è adoperato per una grande quantità di scopi – una esistenza umbratile, faticando a giustificare la propria enigmatica presenza sulle tastiere dei computer, mentre ora è il depositario del significato profondo del tweet. Se Manzoni avesse twittato l’inizio del Cinque maggio lo hashtag sarebbe stato probabilmente #Napoleone o #Provvidenza, mentre hashtag come #maggio o #Sant’Elena sarebbero apparsi fuorvianti.
La responsabilità del tag ricade sugli autori anche nei giornali, dove però è importante il coordinamento di una struttura centralizzata, e l’adozione di alcuni principi di fondo. Il primo, ovvio, è che il tag è anche interpretazione: il “caso Ruby” è “gossip”, “Berlusconi” o “prostituzione minorile”? Nelle due classificazioni ovviamente è implicito un giudizio. Il secondo, meno ovvio, è che è meglio essere parsimoniosi nei tag, non metterne più del necessario e, se mai, ridurne il numero, appunto per contenere il carattere intrinsecamente inflattivo del web. Il terzo è che, nell’etichettare, è preferibile adottare l’universale che non il particolare: meglio etichettare “animali” che non “giraffe” (che costringerebbe a tag come “elefanti” e “gatti”).
Ma soprattutto si è capito quanto sia importante tener presenti le differenze specifiche della comunicazione nel web rispetto ad altri media, come la televisione e la carta stampata. Nella prima domina il tempo, nella seconda lo spazio, e queste due coordinate decidono che cosa vien detto e che cosa è taciuto. Nel web, invece, lo spazio e il tempo sono irrilevanti. Tutto resta, né ci sono problemi di spazio. Perciò chi mette un tag si sta impegnando su un arco temporale molto più ampio di chi fa l’occhiello di un articolo di giornale: stabilisce, in modo programmatico, un luogo in cui si raccoglieranno in futuro dei contenuti, o ridefinisce un campo in modo retrospettivo.
La morale è che quando qualcuno tagga un contenuto, non ha più necessariamente a che fare con l’attuale (né, reciprocamente, con l’effimero), e a ben vedere lo stesso termine “giornale” – e soprattutto “giornale di ieri” – risulta singolarmente fuorviante, se pensiamo alla natura dei contenuti in rete. In generale quel che si fa è una sorta di “eternizzazione” del proprio intervento. C’è anche un’altra morale su cui vale la pena di riflettere. Rispetto alle ontologie classiche, le tassonomie che risultano dai tag (le “tagsonomie”, si potrebbe dire) non sono ovviamente classificazioni gerarchiche, ma piuttosto paratattiche, orizzontali o meglio a forma di grafo. Dei rizomi, appunto, che però, diversamente dai rizomi amati dai rizomatici di una volta non possono permettersi il lusso di essere indisciplinati, perché gli errori di classificazione si pagano: in termini di fatica, di danni economici, di tempo perso, di disinformazione.