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 2012  novembre 11 Domenica calendario

RAMIN BAHRAMI

[L’infanzia a Teheran sotto le bombe, il padre scomparso nelle prigioni di Khomeini con la colpa di essere troppo cosmopolita Poi, le lezioni di musica con la madre, la fuga in Europa, il conservatorio e la scoperta di Glenn Gould. E oggi che è uno dei più grandi pianisti sulla scena continua a dire: “Johann Sebastian Bach può salvare il mondo”] –
«Johann Sebastian Bach può salvare il mondo». L’iraniano Ramin Bahrami, pianista tra i più acclamati della scena internazionale, lancia tale affermazione con solido convincimento. Quest’anomalo e ossessivo musicista, che con le sue incisioni bachiane, dall’Arte
della fugaalle Variazioni Goldberg, ha scalato le classifiche mondiali dei dischi più venduti, è persuaso che Bach sia il luogo degli assoluti. Una dimensione «dove le realtà più differenti convivono in armonia, dove Oriente e Occidente si vogliono bene, dove il nero fa l’amore con il bianco e il tedesco s’innamora del ritmo siciliano». Spiega che suonare Bach lo riempie nell’anima, gli regala sensazioni intense e lo affranca dai brutti ricordi (vedremo che ne ha molti). È persuaso che il Kantor sia «pace universale e accensione erotica, incontro con il paradiso e morbidezza affettiva », e nella sua musica scorge «la capacità di unire il rigore più ferreo alla poesia più celestiale». In Bach, incalza con granitica devozione, «ogni linea ha una vita propria e indipendente, però tutto è necessario. Guardi il rapporto fra basso, contralto e soprano. E pensi alla parola “contrappunto”: significa nota contro nota, o anche persona contro persona. Bach non nega lo scontro né il contatto, come dimostra nell’introduzione della Passione secondo Giovanni o nell’erotismo di un’invenzione a due voci». Insomma, nella prospettiva totalizzante di Bahrami, «Bach è un genio del colore, un matematico, un asceta, un profeta, un pittore, un evangelista e un seduttore. Sacralità e sensualità tramite lui vanno a braccetto».
Quest’iperbolico flusso di passione bachiana potrebbe far immaginare Bahrami come un tipo fanatico con l’aspetto del primo della classe, del genere megalomane e opprimente. Invece è un giovane uomo simpatico, dall’aria soffice e lunare. In testa ha un cespuglio di capelli corvini e il volto è pieno di stupori interrogativi. Appare esotico e disorientato: come un marziano caduto sulla Terra. Non si dà arie, anzi, dimostra una pervicace autoironia: «Io sono un pezzo di musica che ha assunto per sbaglio sembianze umane. Sono un errore della natura. Prenda una nota musicale e ci appiccichi mani e piedi: eccomi, sono io. All’inizio mi chiedevo come mai io avessi un naso e una bocca. Poi ho capito che ero nel posto sbagliato».
Questa conversazione, che non smette mai d’essere ridente, si svolge a Roma, nei giardini dell’Accademia Filarmonica Romana. Siamo in una pausa della master-class per pianisti che Bahrami conduce alla Sala Casella. Ramin si racconta, e la sua vita scorre tumultuosa come un romanzo. È così colma di tragedie, peregrinazioni e scoperte da averlo indotto a scrivere un’autobiografia, ora in uscita per Mondadori. Il titolo,
Come Bach mi ha salvato la vita, riprende il suo tormentone. Però non è un libro invasato e ripetitivo, perché regala una lettura avvincente. E benché colmo di dolori e lacrime, non ha una sola pagina che non esprima la vitalità di Ramin e la sua voglia di camminare per il mondo.
«Sono nato a Teheran nel 1976», racconta. «All’epoca la mia città era una metropoli dinamica, moderna e inquinata, percorsa dalle proteste degli studenti e dai colpi di coda di una monarchia che cercava di soffocarle nel sangue. Presto sarebbe giunta una nuova era, con l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini, la proclamazione della repubblica islamica nel 1979 e l’instaurarsi di un regime religioso integralista. Accadimenti che avrebbero avuto conseguenze durissime sul mio destino». In più, a infestare la sua infanzia, ci fu la guerra tra Iran e Iraq: «Era un periodo di bombardamenti continui. Suona la sirena e tu non sai se tra un attimo ti esploderà la casa: sensazione terrificante. Io avevo il dono di presentire il pericolo, come i cani, e mi mettevo a tremare. Sapevo istintivamente che stava per scatenarsi l’inferno prima che scattasse l’allarme».
La famiglia di Ramin, multiculturale, illuminata e vicina alla corte, era molto nota in Iran. Il nonno paterno era un importante archeologo persiano, Mehdi Bahrami. La nonna, Anna-Frieda, era di origine tedesca, e Paviz, il padre di Ramin, era nato a Berlino, mentre i bisnonni materni erano russo-turchi. Ultimo di tre fratelli, Ramin era legatissimo al padre, direttore di due grandi aziende, la Siemens Iran e la Brown Boveri, e cultore entusiasta della musica: «Sono cresciuto ascoltando a colazione le sinfonie di Brahms e Beethoven, e la merenda era scandita dal Concerto per violino di Cajkovskij, il pezzo prediletto da mio papà, violinista mancato. Io lo adoravo, e per me fu angosciosissimo il suo arresto. Lo accusarono di tradimento perché aveva collaborato con lo scià prima della rivoluzione. In realtà bastava possedere un libro occidentale, o qualsiasi altra cosa che suggerisse un’apertura verso l’Occidente, per venire messi in galera. La colpa di mio padre consisteva nell’aver progettato scuole moderne per il paese e aver svolto sempre un lavoro progressista come dirigente». Dalle carceri rivoluzionarie Paviz non sarebbe più uscito: vi morì nel ’90, quando il figlio era in Europa, «e ancora oggi non sappiamo dove siano i suoi resti».
Nello sgomento di una realtà tanto traumatica, il bambino Ramin comincia a suonare guidato dalla madre Shahin, «che aveva studiato al conservatorio imperiale di Teheran con un allievo di Arthur Rubinstein». La musica è per lui uno sfogo e una consolazione. Ma ciò che gli inculca la volontà di votarsi definitivamente alla sua missione è l’ascolto, a sei anni, di una partitura bachiana: «Mi capitò di sentire la Toccata della Sesta partita in mi minore suonata dall’eccentrico pianista canadese Glenn Gould. Non dimenticherò mai la malinconia profonda che m’invase ascoltando quel brano. Sulla copertina dell’Lp c’era un uomo vestito di nero, con il basco e un lago sullo sfondo. Provai una simpatia immediata per quella figura, e ancora oggi posso dire che un’immedesimazione artistica e una vivacità ritmica pari a quella di Gould non le ho trovate in nessun altro. Guardando i video dei suoi concerti, trasmette un inimitabile senso di libertà. E i suoi movimenti circolatori, alla tastiera, mi fanno pensare alle danze dei dervisci o a una specie di trance».
Ramin è un adolescente quando si rifugia in Italia grazie a una borsa di studio, approdando a un maestro del livello di Piero Rattalino, che riconosce in lui un talento grande e selvaggio: «Io l’ho portato a tollerare il morso», avrebbe detto in seguito il suo insegnante, «ma per fortuna non sono mai riuscito a domarlo del tutto». Tra difficoltà economiche e nostalgie di una patria in cui oggi non intende più mettere piede, Ramin frequenta il Conservatorio Verdi di Milano, si perfeziona nell’accademia di Imola e alla Musikhochschule di Stoccarda, comincia a essere un applaudito concertista ed entra in relazione con musicisti di altissimo calibro. Determinanti sono gli incontri con Rosalyn Tureck, l’artista che ha più contribuito a far conoscere la modernità dell’opera pianistica bachiana («anche lei, come Gould, ha colto l’Oriente che c’è in Bach », sostiene Bahrami), e con il poeta del pianoforte András Schiff: «È stato lui a trasformare la mia posizione alla tastiera. Prima suonavo stando chiuso su me stesso, un po’ incurvato. Schiff è riuscito a far alzare la mia schiena invitandomi a guardare lo spirito di Bach aleggiante sopra di noi. Così fa Bach: s’aggira protettivo tra i suoi interpreti, cioè tra coloro che lui stesso ha scelto per diffondere il suo messaggio. Ha anche avuto la benevolenza di venirmi a trovare in sogno».
I concerti e le registrazioni si sono moltiplicati con enorme successo per Ramin, e alcuni suoi dischi sono entrati nelle hit parade del pop. Narra di aver avuto «il privilegio di portare la musica di Bach in Cina, negli Stati Uniti, in Messico, in Sudamerica e in quasi tutta l’Europa». Dopo una serie di esecuzioni a Lipsia nel 2009, con la Gewandhausorchester diretta da Riccardo Chailly, la critica tedesca lo ha definito «un mago del suono che ha il coraggio di affrontare Bach su una via veramente personale ». Oggi continua a viaggiare come un incrollabile promotore del suo dio, organizzando tra l’altro maratone votate a Johann Sebastian (il World-Bach-Fest a Firenze). Quando non è in tournée abita nella campagna della Germania meridionale, «in un ambiente giusto per dedicarmi allo studio». Orripilato dai soprusi e dalle dittature, auspica un mondo in cui la musica bachiana, «nata per collegare e non per dividere, e in grado di costruire ponti e distruggere steccati, sia ascoltata dai politici, e apra loro i cuori e le menti». Sembra sincero quando afferma di essere certo di avere ancora molto da comprendere dell’oggetto della sua venerazione: «Se un giorno sentissi di essere arrivato al centro dell’universo di Bach, quel giorno sarebbe l’ultimo della mia vita».