Andrea Tarquini, la Repubblica 11/11/2012, 11 novembre 2012
I DIARI SEGRETI DI STAINGRADO [A
settant’anni dalla battaglia che cambiò la storia, le testimonianze degli uomini e delle donne che sconfissero Htler] –
Maksim Gorkij fu il loro ispiratore. Loro, giovani brillanti storici in maggioranza ebrei, volevano andare al fronte. Per narrare in diretta, con interviste da trasmettere ai media a Mosca e poi raccogliere in volumi, l’orrore in atto. La (guerra d’annientamento) nazista, e l’eroismo della gente semplice in uniforme, quell’eroismo che come ne La madre di Gorkij diventa parte del quotidiano. Da Mosca, quaranta chilometri a est della Wehrmacht raggiunsero Stalingrado. Il comandante supremo maresciallo Vasilij Ciujkov e il commissario politico, tale Nikita Kruscev, li accolsero entusiasti. Loro intervistarono, registrarono, scrissero senza tregua, scattarono anche istantanee con le Zorkij e le Kiev d’ordinanza. Ma nel 1945 Stalin vincitore non volle più quei resoconti storici poco retorici, troppo vicini a Erodoto, Tucidide o al Guerra e Pace di Tolstoij.
Le loro carte — la Spoon River dei combattenti russi — sparirono, sequestrate dalla polizia segreta. Alcune, uno di loro riuscì a nasconderle. Ed ecco che adesso un giovane storico tedesco, Jochen Hellbeck, scopre i loro protocolli segreti e narra al mondo la loro storia, e le storie che loro raccontarono.
Die Stalingrad Protokolle, I protocolli di Stalingrado,
s’intitola lo straordinario lavoro di Hellbeck che l’editore S. Fischer ha appena pubblicato in Germania proprio mentre stanno per ricorrere i settant’anni dell’inizio della battaglia che cambiò il corso della Storia. Ce la misero tutta, quei giovani storici, per convincere Accademia delle scienze, Pcus, la Nkvd di Beria, Molotov e lo stesso Piccolo padre, a partire. «Vogliamo narrare in diretta il luogo dove l’eroismo si è banalizzato divenendo abitudine quotidiana», disse nella sua richiesta Vasilij Grossman, l’autore dell’indimenticabile Vita e destino.
L’altro leader dei giovani fautori della “histoire totale” scritta al fronte fu Isaak Minz. Arkadi Zidorov fu almeno in guerra al loro fianco, Ilja Ehrenburg li sostenne.
Giunsero con un Dakota americano con la stella rossa appena dietro il fronte, i giovani storici. Ciujkov e Kruscev offrirono loro ogni aiuto, pur avendo ben altro a cui pensare. In quel cupo inverno del ’42 la Wehrmacht, la Luftwaffe, le Waffen SS hitleriane avanzavano con la rabbia d’una bestia ferita, dopo la prima disfatta inflitta loro sui cieli di Londra dalla Royal Air Force nella Battaglia d’Inghilterra. Convinti di una missione di purificazione razziale. Massacrare, distruggere tutto, violentare in massa, seppellire ebrei rastrellati, prigionieri, civili, donne violentate e bambini appesi alle baionette per esercizio, tutti in fosse comuni, così il Reich millenario conduceva, con a fianco l’Ungheria di Horthy e l’Italia di Mussolini e il silenzio del Vaticano, la crociata contro il bolscevismo.
Hitler credeva nella forza del destino, ma i protocolli segreti narrano più che mai come non avesse capito cosa stava accadendo. «Berlino immaginava i russi come sottomessi infelici, non capiva la loro voglia di difendere la patria e la loro vita quotidiana, né capiva le capacità d’un esercito rivoluzionario e politicizzato», spiega il giovane storico tedesco. Nei protocolli spiccano frasi significative del commissario politico Afanassi Matvejevic Zvirin: «Per galvanizzare i soldati diffondo spesso i testi dei media britannici e americani». La Russia non crollava, a costi umani spaventosi aveva trasferito l’industria militare oltre gli Urali. Sfornava là i temuti tank T34, e finalmente caccia come lo Yak 9 o il Lavoshkin 5, temibilissimi per gli aerei nazisti. O il “carro armato volante” Ilyushin 2, terrore delle Panzerdivisionen con i raid a volo radente. E intanto lassù a Murmansk, il porto nel grande Nord, cargo britannici e poi americani scortati dalla Royal Navy e da sommergibili della Voenno-Morskoj Flot scaricavano migliaia e migliaia di caccia Spitfire, Hurricane, Mustang, bombardieri B25, radio, logistica, camion moderni e manuali di guerra a volontà. «Per sconfiggere Hitler farei patti anche col diavolo», aveva detto Winston Churchill. L’eroismo divenuto banale quotidiano, 27 milioni di morti, lo sforzo industriale e le enormi forniture angloamericane fanno la vittoria della Russia. Ma dal 1945 Stalin non volle saperne di quel progetto di storia in diretta. Temeva i giovani discepoli di Gorkij. Tra l’altro quasi tutti ebrei mentre scattava la purga contro i medici ebrei accusati ingiustamente di volerlo uccidere. Grossman e Minz caddero in disgrazia. I loro appunti, sequestrati dal servizio segreto, sparirono per decenni in sotterranei segreti. A parte copie in carta carbone che Minz riuscì a nascondere da amici. I superstiti del gruppo di storici-inviati di guerra si rividero una sola ultima volta nel 1984. Fu una class reunion di ricordi amari. Non è toccata loro la fortuna di conoscere quel giovane nipote degli ex nemici che ha ripescato dall’oblio della censura e narra oggi al mondo la testimonianza straordinaria di una vittoria cui, nonostante la Guerra fredda che seguì, dobbiamo, anche, la nostra libertà.
Non venitemi a dire che gli uomini sono soldati migliori: potranno avere più forza fisica, ma per coraggio e dignità morale fino all’ultimo le donne al fronte ci sorpassano. E poi, non esistono eroi che non abbiano mai provato paura. Nessuno sa o immagina che cosa Ciujkov prova nell’animo o fa quando è solo e pensa, a notte fonda al fronte. La fierezza di sé, e l’istinto di conservazione, sono decisivi, Tolstoij in Guerra e pace
aveva ragione. [...] Penso al coraggio estremo dei miei soldati: quattro di loro erano prigionieri in una canalizzazione, accerchiati dai tedeschi. Ci mandarono un segnale: sparate cannonate su di noi, così ucciderete anche loro [...]. Penso alle lettere della mia giovane moglie: «Amore, sono fiera che tu sia là, mi manchi...». Hitler non aveva calcolato che avremmo resistito. Un altro fattore è il nostro procedere senza pietà contro vigliacchi e seminatori di panico. Il 14 settembre commissario politico e comandante del 40mo reggimento disertarono. Io li uccisi da solo davanti a tutti i soldati.
Conseguii la maturità nel 1941, volevo iscrivermi all’Università Maksim Gorkij a Sverdlovsk, ma scoppiò la guerra. Mia sorella maggiore partì volontaria, mio fratello fu arruolato e inviato in Estremo oriente. A casa eravamo rimasti papà, operaio alla fabbrica di pesce in scatola, mamma, nonna e il mio fratellino. Da membro del Komsomol chiesi di entrare nella Sanità militare. «No, lei è troppo giovane, torni quando avrà 19 anni», risposero. Scrissi a Stalin, non so come cambiarono idea: mi inviarono di corsa al fronte. L’addio a mamma, papà e
nonna è stato semplice. Poco tempo per le lacrime. Mamma sorrideva alla stazione, mi scrive in tante lettere che le donne del villaggio le chiedono perché fosse così felice, con tre figli al fronte. «Non li ho cresciuti per farli restare da bamboccioni a casa», risponde lei. Noi ragazze abbiamo una mole spaventosa di lavoro, tutti questi giovani feriti il più delle volte in condizioni disperate. Il 21 ottobre sono stata ferita da una raffica nemica, mi hanno portato in un ospedale da campo ottanta chilometri dal fronte. Avevo troppa paura di perdere ogni contatto con il mio reparto, allora sono fuggita da quel lazzaretto e ho raggiunto le mie commilitone in prima linea.
ALEKSIEJ DOBRJAKOV
Vicecommissario politico supremo nel 64mo corpo d’armata
Ricordo ancora il comandante della batteria di cannoni della 154ma brigata della fanteria di marina. Aveva dodici soldati ai suoi comandi, e l’ordine di difendere una postazione a ogni costo. Ma aveva anche l’ordine di non esporsi di persona in prima linea in un combattimento corpo a corpo con i tedeschi. Insomma, aveva l’ordine di limitarsi a fermare i tedeschi prima della sua postazione. Quel giorno lui, quando ha visto i soldati della
Wehrmacht avanzare, ha deciso di disubbidire all’ordine. «Urràh!», ha gridato, e si è lanciato all’attacco fuori della trincea, brandendo la mitragliatrice pesante della postazione. È finito sotto tiro, ha ucciso sette tedeschi, ma nel combattimento si è visto tranciato via un ampio lembo di carne della gamba destra. Poi si è presentato, invalido, a rapporto dal colonnello Smirnov, il suo superiore: voleva giustificare l’insubordinazione. Compagno colonnello, gli disse, mi offra un bicchiere di vodka. Prego, eccola, rispose il colonnello. E all’istante notò quella cicatrice. «Sì, d’accordo, è successo durante il combattimento», gli rispose il comandante della batteria, «ma via, compagno colonnello, quel pezzo di carne che mi manca val bene sette tedeschi in meno. Potrebbe punirmi accogliendo infine la mia vecchia richiesta d’iscrizione al partito».
All’inizio, quando sei nominato tiratore scelto, la coscienza ti tormenta al pensiero di mirare su altri uomini per uccidere. Ma quando siamo arrivati col mio reparto alla fabbrica Metis, a Stalingrado, e abbiamo visto poco lontano, appena oltre il fronte, soldati tedeschi che portavano via una giovane donna, chiaramente per violentarla.... Un bimbo, suo figlio, gridava piangendo, «mamma, dove ti portano? aiutatemi!». E pensate che vedere scene simili non abbiano un impatto duro sul tuo animo? Come fai a liberartene? Oppure, in un parco, vedemmo le ragazze pendere dagli alberi, uccise dopo essere state violentate. E impiccati accanto a loro i bambini. Niente da fare, ti resta dentro. Conosco anche tanti commilitoni che, ai primi centri col fucile di precisione, si sentono in colpa. Poi sono finiti come me, sentendo nell’animo una sola voglia: uccidere quanti più tedeschi puoi, far loro al minimo lo stesso male che loro hanno portato a casa nostra. Adesso sono malato di nervi, spesso tremo. La memoria è sempre là.
IVAN VASSILYEV
Commissario politico
È una vergogna se un comunista, un commissario politico, non parte per primo all’attacco guidando la carica dei suoi soldati. E poi, il nostro ruolo è speciale. La notte, mi disse il compagno tenente colonnello Jakov Dubrovskij, il soldato è solo in trincea, ha bisogno di parlare, tocca a noi parlare alla sua anima, portargli dolci o qualcosa da bere con lui, lasciarlo confidarsi. Il compagno Iser Ajsenberg, della 38ma divisione di fanteria, gira per le trincee con la sua valigia, dove di solito tiene libri e opuscoli di propaganda. In realtà distribuisce ai soldati tavolette di cioccolata, giochi di dama o domino, e la disponibilità a parlare.