Natalia Aspesi, la Repubblica 11/11/2012, 11 novembre 2012
LA SPOSA SENZA LIBERTÀ CHE (FORSE) UN PO’ INVIDIAMO
Capita che le libere donne laiche italiane vadano a vedere un film girato in una chiusa comunità ultraortodossa di Tel Aviv, da una regista ultraortodossa e, anziché arrabbiarsi moltissimo e correre a liberare le sorelle apparentemente oppresse (come la povera Santanchè ogni tanto tenta inutilmente con le islamiche), ne restino incantate. Addirittura un po’ invidiose.
La sposa promessa esce da noi il 15 novembre ma intanto ha sedotto e turbato chi ha potuto vederlo alla Mostra di Venezia, la cui giuria ha premiato come miglior attrice la sua protagonista: l’angelica, giovanissima Hadas Yaron. La deliziosa Shiva è impaziente di sapere chi è il fidanzato che i genitori le hanno scelto e glielo mostrano per la prima volta, da lontano, al supermercato, reparto latticini, con quei bei boccoli lungo le guance sotto il nero piatto cappello che portano tutti gli uomini. Le piace, anche senza rivolgergli la parola, ma una tragedia spezza i suoi sogni. La sorella Esther muore di parto e il bel vedovo Yachay dalla barba nera e dagli occhi dolci, deve subito risposarsi. Porterà il bambino in Belgio dove lo aspetta una nuova moglie.
I nonni si disperano, non vogliono perdere quel bambino: e cercano di convincere Yachay a sposare Shiva e Shiva a sposare Yachay. Cosa ne pensa il rabbino senza il cui consenso non si può decidere nulla, neppure l’acquisto di un forno? Pensa che no, non va, perché Shiva lo farebbe solo per ubbidire ai genitori, ma senza amore. A Purim si fa festa, gli uomini col loro colbacco di pelo delle grandi occasioni mangiano, bevono, ballano cantano, pregano, mentre le donne, che se sposate devono sempre avere il capo coperto da eleganti turbanti, li guardano, e poi vanno in cucina a lavare i piatti.
Shiva è divisa tra il dovere verso la famiglia e la paura di quel sentimento che comincia a provare per il cognato. “Non starmi così vicino”, gli dice, essendo lui a un metro di distanza. Per una donna non sposarsi, non diventare madre di sette o otto figli, è peccato e infatti l’amica zitellina è disperata. Alla fine Shiva decide di essere innamorata e si sposa: eccola immersa nel bianco abito nuziale che aspetta in intimidito silenzio che il suo destino si compia. In silenzio impacciato lo sposo, che non l’ha mai sfiorata, chiude la porta della stanza, si toglie la giacca nera, appende il colbacco: il film si chiude su questi casti gesti, che pure paiono sexissimi come nessuna scena impudica di tanto cinema.
Viene in mente lo scandalo che fece nel 1947, in bianco e nero, Il diavolo in corpo di Autant-Lara, ispirato al romanzo di Radiguet, per la scena in cui la mano di Gerard Philipe e quella di Micheline Presle spengono insieme una lampada, e bastava quello, allora, a suscitare i più cattivi pensieri. Ma che vita è quella delle donne della Sposa promessa?
Casa e lavoro domestico, sudditanza al barbuto uomo di casa il cui lavoro è pregare, e tutti insieme all’ancor più barbuto rabbino: da ragazze, una vita totalmente separata dai ragazzi, il matrimonio combinato possibilmente tra due coetanei vergini, e poi figli su figli: sottomissione, ubbidienza e preghiera. In un film diretto nel 1999 dall’israeliano laico Amos Gitai, Kadosh, si raccontava della vita umiliata di due sorelle della comunità haredim, cioè ultraortodossa: con i mariti che ogni mattina compiendo il rito della vestizione, benedicono il Signore “per non avermi fatto nascere donna”. Ma è donna Rama Burshtein, la regista dell’incantevole nuovo film: 46 anni, ebrea americana un tempo laica, che adesso vive a Tel Aviv ed è diventata ultra ortodossa per amore: prima di darsi al cinema ha messo al mondo cinque figli, come era suo dovere. Il cinema ultraortodosso difficilmente esce dalla comunità, conta su un gruppo di donne registe cariche di figli, non può mostrare nella stessa inquadratura uomini e donne, e in ogni caso ogni film per essere proiettato deve avere l’approvazione del rabbino.
La sposa promessa è forse il primo film ultraortodosso distribuito in Italia: diretto con grande maestria, leggiadro come un romanzo di Jane Austin, riesce a raccontare un mondo immutato nel tempo, sconosciuto e lontano, come fosse un’oasi di grazia, in cui il destino di ognuno è già stabilito, e la vita di tutti è protetta dalle regole, illuminata dalla fede, isolata dalla contemporaneità e dalle sue angosce. Dovunque il film venga proiettato, conquista soprattutto le donne, per lo meno quelle che cominciano a sentirsi affaticate dalla loro indipendenza: capiterà anche in Italia, in una società, ha scritto un’imprenditrice bresciana che ha visto il film a Venezia, “in apparenza libera da regole, in realtà dominata da un sistema economico che condiziona le scelte quotidiane e di vita?”. La signora, il cui lavoro comporta “una impegnativa delocalizzazione”, ha espresso una specie di nostalgia per una condizione femminile di “annullamento e protezione” dentro una comunità dove tutto è già deciso, regolato dalla tradizione se non dalla fede, dove le donne hanno un posto nell’ombra, ma che non le espone alla durezze delle responsabilità e delle decisioni. Noi italiane siamo più combattive e si immagina che
La sposa promessa non sedurrà tutte, ma se mai provocherà scontri di ogni tipo sul tema della autonomia e della dipendenza.