Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 11/11/2012, 11 novembre 2012
ADULTERIO: FINE DEL PARADOSSO ALL’ITALIANA
Se a tradire era lei, allora la faccenda era più grave, perché veniva compromessa l’immagine e l’unità della famiglia. Mentre se a tradire era lui — sia nel caso di adulterio sporadico, sia nelle ipotesi di relazione adulterina più o meno stabile (ma non nel caso di «concubinato notorio») —, le cose potevano sempre aggiustarsi, perché è vero che i coniugi sono uguali e uguali sono i loro diritti e i loro doveri, compreso quello alla fedeltà coniugale reciproca, ma il marito era «più uguale» della moglie. Quindi era soltanto lei a commettere il reato e a essere punibile. Lui no.
Così ragionarono i giudici della Corte costituzionale nel 1961, quando riconobbero la legittimità costituzionale dell’articolo 559 del Codice penale, che, appunto, puniva l’adulterio della moglie e non anche quello del marito. «Che la moglie conceda i suoi amplessi a un estraneo è apparso al legislatore, in base alla prevalente opinione, offesa più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del marito», scrivevano i quindici giudici della Consulta. E ancora: «Il preminente interesse dell’unità della famiglia è leso e posto in pericolo dalla condotta infedele della moglie in misura che non trova riscontro nelle conseguenze di una isolata infedeltà del marito». E infine: «Il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina turbamento psichico nei giovani figli, con tutte le conseguenze sulla educazione e sulla disciplina morale, in ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani principi morali».
Una disparità di trattamento, quella tra moglie e marito, argomentata giuridicamente, oltre che introiettata dai singoli individui e coltivata dalla società. Una disparità che tuttavia poteva considerarsi sanata — sempre secondo il ragionamento dei giudici costituzionali — dall’eguale diritto dei coniugi di uccidersi l’un l’altro. Più precisamente, dal riconoscimento delle attenuanti nella stessa misura, per entrambi i coniugi, qualora l’uno avesse ammazzato l’altro per averlo colto in flagranza di adulterio (articolo 587 del Codice penale).
In altre parole, poiché l’omicidio commesso «nell’atto di scoprire il coniuge, la figlia o la sorella in illegittima relazione carnale» e lo «stato d’ira» da cui quel delitto era stato originato, venivano considerati allo stesso modo per lei e per lui, l’uguaglianza tra i coniugi di fronte alla legge era salva. Perfetto. Con quella sentenza gli alti magistrati della Corte costituzionale avevano scritto, anche se inconsapevolmente, la più efficace sceneggiatura per qualunque delitto d’onore. Tutti gli argomenti, le ipotesi di scuola e le contromisure, giudiziarie e non, raccontate nel famosissimo film Divorzio all’italiana (di Pietro Germi, con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli, uscito nello stesso anno in cui fu pronunciata la sentenza) erano già trattati e sviluppati dalla pronuncia dell’alta Corte. E chissà, forse fu anche per questa ragione che nel 1963 il film vinse l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale...
Divorzio all’italiana irrideva una società che non ammetteva il divorzio e in cui l’unica strada per sciogliere un matrimonio era disfarsi — accoppandolo — del coniuge. Però non tralasciava il sentire profondo della gente comune, specialmente nel Sud, poiché la storia del delitto d’onore è una storia squisitamente mediterranea. E così quando in Sicilia, dalla rossa ed evoluta Emilia Romagna, arriva il funzionario del Partito comunista che arringa i compagni della locale sezione sul «secolare problema della emancipazione della donna» e chiede loro «un democratico, sereno e obiettivo giudizio sulla signora Cefalù» (nel film, la moglie di cui Mastroianni vuole liberarsi e che fugge con un suo vecchio spasimante), la risposta del pubblico è corale e unanime: «Bottana!».
Far cambiare idea a chi la pensava così era come volergli sostituire la testa. Una impresa impossibile. E tuttavia, non soltanto il cinema, ma anche la realtà si muoveva. E quando certe cose accadono nel mondo reale, non si torna più indietro. La storia di Franca Viola, di Alcamo, che nel 1966 venne rapita dal suo pretendente e rifiutò il cosiddetto matrimonio riparatore con lui, cosa che le avrebbe salvato l’onore, fu una vicenda autenticamente e felicemente sovversiva e segnò uno «scandaloso» spartiacque. Alla Borsa dei valori morali, l’onore così inteso crollò improvvisamente e irreversibilmente. E due anni dopo crollò anche alla Borsa dei valori giuridici. La stessa Corte costituzionale che appena sette anni prima — e con cinque giudici che erano gli stessi di allora — aveva spiegato come l’adulterio dell’uomo e della donna non potessero considerarsi uguali, invertì la rotta e con la sentenza numero 126 del 19 dicembre 1968 sancì che l’articolo 559 del Codice penale era incostituzionale, poiché poggiava «sullo stato di soggezione morale, giuridica e materiale in cui era tenuta la donna». La legge, prosegue la sentenza, scegliendo di non punire l’uomo, ma soltanto la donna, «pone in stato di inferiorità quest’ultima, che viene lesa nella sua dignità, perché costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria, senza alcuna tutela in sede penale», quando invece tutto o quasi era cambiato anche nella società e la donna, scrive sempre la Consulta nel ’68, «ha acquistato pienezza di diritti, la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e della intera collettività è diventata molto più intensa, fino a raggiungere piena parità con l’uomo».
Era ancora l’Italia dei 1.500 delitti d’onore all’anno, come documentava nel 1969 il film di Giuseppe Ferrara, Delitto d’onore, che per dimostrare quanto fossero profonde le radici del fenomeno cita anche «un fatto di cronaca di tremila anni fa», il rapimento e lo stupro di Dina, figlia di Giacobbe, da parte di Sichem che, nonostante volesse «riparare» sposando la ragazza, venne assassinato dai fratelli di lei. Ma era anche l’Italia che non voleva più queste camicie di forza. Il Parlamento si preparava a introdurre la legge sul divorzio (1970), il popolo era pronto a confermarla in un referendum (1974) e i giudici costituzionali capivano che non potevano rimanere indietro e presero ad abbattere come birilli le altre norme del Codice penale in tema di relazione adulterina e concubinato. Il delitto d’onore però, il famigerato articolo 587 del Codice penale, per quanto ormai illogico rispetto al nuovo sistema che si andava disegnando, restava ancora in piedi. Anche perché non era realmente oggetto di riprovazione sociale. Al contrario, in molte aree del Paese, non solo al Sud ma anche nel profondo Nord, veniva difeso con inaspettato vigore. Cadrà anch’esso, ma con una legge, che verrà approvata soltanto nel 1981.
Un cammino lungo e difficile, che tuttavia non ha cancellato i delitti d’onore. Non solo perché se ne parla ancora con un qualche e non ingiustificato allarme sociale nei convegni giuridici (recentemente ad Avellino, «I delitti passionali, dallo stalking all’omicidio»), non solo perché come ha scritto Adriano Sofri «uccidere per amore è un fatto radicato nella nostra cultura», ma soprattutto perché negli ultimi dieci anni, in tutta Europa e non più soltanto nei Paesi mediterranei, c’è stata una nuova ondata di omicidi «d’onore» (per gli uffici studi dell’Onu sono cinquemila all’anno in tutto il mondo, ma il dato è ampiamente sottostimato), specialmente tra le comunità di immigrati e islamiche in particolare. Tanto che in Gran Bretagna, per esempio, sono stati riaperti decine di casi di omicidio il cui movente si sospetta sia l’onore violato da ripristinare di fronte alla comunità di appartenenza. Concetto che applicato a una ragazza pachistana o marocchina può significare pagare con la vita l’aver voluto indossare una minigonna.
Carlo Vulpio