Serena Danna, la Lettura (Corriere della Sera) 11/11/2012, 11 novembre 2012
GUERRA A GOOGLE
Forse è una casualità che l’avvocato degli editori brasiliani in fuga da Google News sia tedesco. Eppure l’arringa che Felix Stang, legale dell’organizzazione che riunisce le 154 testate brasiliane responsabili dell’abbandono dell’aggregatore di notizie, ha pronunciato lo scorso ottobre a San Paolo potrebbe tornare utile nel suo Paese d’origine: «Piattaforme come Google — ha dichiarato Stang durante l’Assemblea generale interamericana di stampa — sono in diretta concorrenza con giornali e riviste perché lavorano come homepage e utilizzano contenuti altrui». I gruppi editoriali — che investono tempo e denaro nella produzione di contenuti di qualità — non tollerano più di vederli distribuiti gratuitamente in giro per il web. Così, se nel 2011 il 90% delle testate del Paese sudamericano ha deciso di rinunciare al servizio attraverso cui Google organizza e diffonde il loro materiale giornalistico, a fine novembre il Parlamento tedesco discuterà quella già definita come la tassa anti-Google, che impedirebbe al colosso di Mountain View di linkare su Google News articoli senza pagare un contributo agli editori. Un’iniziativa che, secondo il cristiano-democratico Günter Krings, sostenitore della tassa, «darà un campo neutrale di battaglia a editori di carta da un lato e motori di ricerca e aggregatori dall’altro».
Molti sostengono che — mostrando titoli e anteprime degli articoli — Google riduca la possibilità per ogni pezzo di essere letto sul sito d’origine. L’azienda risponde alle accuse con i dati: ogni mese Google porterebbe 4 miliardi di click di traffico ai siti giornalistici. Di questi, un miliardo arriverebbe proprio dal servizio News. «Creiamo per gli editori — ha affermato Simon Morrison, public policy manager della compagnia — 100 mila opportunità al minuto di entrare in relazione con i lettori e dunque di fare ricavi con i propri contenuti». Peccato che le associazioni di giornali vorrebbero che parte di quei ricavi arrivassero proprio dal motore di ricerca che «sfrutta» i loro contenuti per ottenere pubblicità. Sotto accusa anche i criteri di selezione degli articoli, che — nel caso di Google — vengono affidati a un algoritmo. Così, prestigiosi gruppi editoriali spesso devono competere per le prime posizioni con blog e siti «sconosciuti». È il web, bellezza. «Gli articoli vengono selezionati e classificati in base a diversi parametri — spiega Morrison —, tra cui originalità, freschezza e rilevanza della notizia».
Mentre Google continua a ripetere che il suo unico compito è «aggregare notizie», gli editori insistono che si tratta, invece, di un lavoro editoriale. Definizione confermata da una sentenza della Corte di Giustizia australiana, che ha recentemente condannato l’azienda per essersi rifiutata di rimuovere contenuti diffamatori ai danni del cittadino Michael Trkulja, la cui immagine online era associata a un omonimo criminale. La decisione del giudice ha sottolineato proprio la «responsabilità editoriale» di Google sui contenuti organizzati e mostrati sul sito.
L’idea di costringere Mountain View a dividere parte dei ricavi pubblicitari con gli editori sta tentando anche Francia e Italia, che pensano a una mozione simile a quella tedesca. Il timore di Eric Schmidt, amministratore delegato dell’azienda americana, è che si scateni l’effetto domino nel Vecchio Continente, forte del fatto che in Brasile il calo di traffico — dovuto all’abbandono di Google News — non supererebbe il 5%. Chi sbandiera il dato dimentica, però, che l’Europa non è il Brasile, dove il colosso ha diversi competitor nazionali — da Aonde a Buscando. Qui il mercato dei motori di ricerca è prevalentemente nelle mani dell’azienda americana. Solo in Italia, secondo dati Nielsen, su 26,4 milioni di utenti mensili che effettuano ricerche online, 24,1 milioni (il 95%) utilizzano Google. Una realtà che, ha ricordato David Carr sul «New York Times», ha portato gli americani all’amara constatazione che «peggio che essere aggregati da Google, c’è solo non essere aggregati affatto».
«Nella ricerca di un equilibrio tra i diritti dei produttori di contenuti e i diritti dei consumatori — spiega Eli M. Salzerberg, coautore di The Law and Economics of Intellectual Property in the Digital Age — si sono inserite le piattaforme pigliatutto. Il vero problema è il monopolio di Google su cui il legislatore dovrebbe decidersi a intervenire». Di diverso parere è l’avvocato Carlo Blengino, del Nexa Center for Internet and Society del Politecnico di Torino: «La regolamentazione deve arrivare dal mercato oppure da una legge che, a differenza delle attuali, bilanci il legittimo diritto dei produttori di contenuti ad avere una giusta remunerazione con i fondamentali diritti di accesso alle informazioni e alla cultura che Internet consente». Per Blengino quella degli editori contro Google è tuttavia una «battaglia di retroguardia»: «Costringere l’informazione all’interno dei confini dei singoli siti — ribadisce — è la negazione della natura stessa di Internet».
La legislazione che si occupa di proprietà intellettuale e copyright risale a prima dell’esplosione del web. In Europa la materia è regolata da direttive di oltre dieci anni fa, formulate su principi incompatibili con Internet, e le più recenti norme americane — come il Digital Millenium Copyright Act (Dmca) — risalgono alla fine degli anni Novanta. «Il nostro concetto di copyright non è cambiato dai tempi di Gutenberg — spiega Bill Smith, direttore dell’area digitale della Perseus Book —, bisognerebbe adattarlo alle esigenze del XXI secolo: libero accesso ai contenuti e utilizzo e riutilizzo degli stessi». Se è vero che il principio del Dmca è «conciliare i diritti degli autori con il pubblico interesse soprattutto per quanto riguarda educazione, ricerca e accesso all’informazione», allora — aggiunge Salzerberg — «nell’era del web per il bene della società dovremmo rilanciare più contenuti possibile».
In assenza di una normativa adeguata a Internet, in questi anni ci siamo mossi per eccezioni: «Dal cosiddetto fair use, uso legittimo, negli Stati Uniti, alle troppo strette "eccezioni" alle privative di autori ed editori in Europa», spiega Blengino. Eppure i contenuti sono l’oro del nostro millennio. «Nell’era dell’economia dell’informazione — si legge in The Law and Economics of Intellectual Property in the Digital Age — la creatività e le idee stano diventando il fattore di crescita più importante per la ricchezza delle nazioni». Trovare un modo per renderle produttive rispettando i diritti dei consumatori e dei lettori è la vera sfida che ci attende.
Serena Danna