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 2012  novembre 11 Domenica calendario

ATTENTI ALLA MAPPA

Ritorna la geografia. Ad annunciarlo è lo stesso uomo che all’inizio di questo secolo ci aveva avvisati del ritorno dell’anarchia nel mondo «felice» che aveva visto scomparire l’Unione Sovietica. Sto parlando di Robert Kaplan, un brillante scrittore americano che possiede tutti gli ingredienti dell’intellettuale di nuovo tipo: giornalista di successo, viaggiatore instancabile, iconoclasta, freddo analista e consulente occasionale del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Scrittura, curiosità, viaggio, freddezza analitica e buona comunicazione con il potere. Nel 2001 Kaplan ha pubblicato The Coming Anarchy («L’anarchia prossima ventura») e dieci anni dopo alcune sue profezie si sono avverate: ci sono zone del mondo in cui lo Stato è scomparso o tende a scomparire (Somalia, la regione del Sahel, Haiti, Afghanistan, Libia...) e in buona parte dei Paesi del Nord Africa si è verificato un grande fermento sociale, scatenato dalla mancanza di prospettive di una popolazione giovane molto numerosa. Lo sappiamo bene noi spagnoli e italiani. I nostri Paesi vivono una gravissima crisi economica e sociale e sotto i nostri piedi — geograficamente parlando — soffiano venti di anarchia sulle sponde sud del Mediterraneo: in Libia, soprattutto in Libia.
Kaplan ha appena pubblicato The Revenge of Geography («La rivincita della geografia») che si basa su un’idea molto interessante: il territorio come soggetto politico non è stato annullato dalle tecnologie della comunicazione istantanea né dall’economia post-materiale. Siamo ancora fisici, siamo ancora corporei, siamo ancora geografici. Abitiamo un luogo nel mondo e la natura politica di questo luogo dipende ancora, in buona misura, dalla sua ubicazione sulla mappa. Mappe, mappe, mappe. Nell’era del Gps bisogna tornare alle vecchie mappe per capire dove siamo e cosa può succedere. La tesi di Kaplan è molto dialettica: quando l’«ageografia» — l’assenza di limiti e di contorni precisi nella vita degli uomini — sembra impadronirsi della cultura-mondo, la vecchia geografia torna a ricordarci l’importanza di alcune piccole isole tra Cina e Giappone, a spiegarci la ferrea legge dei valichi afghani, l’angoscia del tenente Drago nella fortezza Bastiani, deserto dei tartari che oggi ubicheremmo nel Sahel, la vulnerabilità dell’isola di Manhattan di fronte a un probabile innalzamento del livello del mare, o il crescente desiderio di certe regioni marittime europee di essere qualcosa di più di semplici demarcazioni amministrative in un’Unione Europea più integrata. Vi sono due elementi comuni nelle nuove regioni «indipendentiste» dell’Europa occidentale: la Scozia, la Catalogna, i Paesi Baschi e le Fiandre sono territori aperti sul mare che hanno assistito alla nascita della rivoluzione industriale. Sono nazioni abituate al cambiamento.
Il ritorno della geografia mi fa pensare a una poetica affermazione del filosofo tedesco Peter Sloterdijk: «Kant ci aveva insegnato che la domanda con cui l’essere umano si assicura della propria situazione nel mondo doveva essere: "Cosa possiamo sperare?". Dopo le de-fondazioni del XX secolo sappiamo che la domanda è la seguente: "Dove siamo quando siamo nell’immenso?"» (Sfere, vol. I, Meltemi editore). La geografia ritorna, stimolata dalla domanda del brillante pensatore. Travolti dall’accelerazione abbiamo bisogno di sapere dove siamo. Mappe, mappe, mappe.

Quando credevamo di essere cittadini della nuova Repubblica di Internet, il geografo statunitense Joel Kotkin ha pubblicato sulla rivista «Newsweek» una nuova mappa del mondo. Sicuramente Kotkin conosce la geografia meglio di Kaplan. Professore in diverse università, è direttore esecutivo del sito web www.newgeography.com.
Nel settembre 2010, ha avuto l’idea di pubblicare un nuovo mappamondo che raggruppa tutti i Paesi in nuove aree. L’Alleanza Nordamericana (Canada e Usa). La Nuova Lega Anseatica (Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia). L’Impero Russo (Russia, Bielorussia, Moldavia e Ucrania). I Nuovi Ottomani (Turchia, Turkmenistan e Uzbekistan). L’Oriente Selvaggio (Afghanistan, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan e Tagikistan). L’Iranistan (Iran, Iraq, Bahrein, Striscia di Gaza, Libano e Siria). La Grande Arabia (Egitto, Giordania, Kuwait, Arabia Saudita, Palestina, Emirati Arabi Uniti e Yemen). Il Regno di Mezzo (Cina e Taiwan). La Cintura del Caucciù (Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam). L’Arco del Maghreb (Algeria, Libia, Mauritania, Marocco e Tunisia). L’Africa Subsahariana. L’Impero Sudafricano. Le Repubbliche Bolivariane (Argentina, Bolivia, Venezuela, Cuba, Ecuador e Nicaragua). L’America Liberale (Cile, Colombia, Costa Rica, Messico e Perù). I Paesi Fortunati (Australia e Nuova Zelanda). Gli Indipendenti (Francia, Brasile, India, Giappone, Corea del Sud e Svizzera). Le Città-Stato (Londra, Parigi, Singapore e Tel Aviv). Un esercizio interessante. Perfino divertente. Kotkin sembra avere un’acuta intuizione delle nuove dinamiche. Ma non abbiamo ancora visto come classifica i Paesi meridionali dell’Europa. Il lettore presti attenzione e faccia un profondo respiro: The Olive Republics! Le Repubbliche delle Olive: Portogallo, Spagna, Italia, Slovenia, Croazia, Montenegro, Kosovo, Macedonia, Grecia e Bulgaria. Ritorna la geografia e forse sta tornando con crudeli stereotipi.
Ritorna la geografia, insieme a sua cugina, la storia. Nell’attuale crisi europea si può riconoscere un ciclo evidente. I Paesi che oggi si trovano in gravi difficoltà sono gli stessi che negli anni Settanta costituivano uno degli assi più critici della Guerra Fredda: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. Il 25 aprile 1974 cominciò in Portogallo un movimento a effetto domino. I giovani ufficiali di sinistra presero il potere e la dittatura salazarista cadde. Dopo qualche mese, nel luglio 1974, crollava la giunta militare greca, fulminata dal rischio di una guerra contro la Turchia per il controllo di Cipro. Un anno più tardi, nel novembre 1975, a Madrid moriva il generale Franco e la Spagna iniziava un’evoluzione incerta. L’Italia, unica democrazia della regione, era sottoposta a forti tensioni politiche e sociali: il Partito comunista di Enrico Berlinguer si avvicinava all’egemonia elettorale sotto lo sguardo preoccupato di Washington. Nella Jugoslavia di Tito, apparentemente tranquilla e protetta dall’espansionismo sovietico, maturavano le contraddizioni interne che sarebbero esplose drammaticamente 15 anni dopo. Le Repubbliche delle Olive.
Il Sud dell’Europa era in fermento — ogni Paese con la propria moneta nazionale, le dogane, le tasse, le proprie industrie statali e il proprio margine di manovra per la svalutazione — mentre dall’altra parte del pianeta iniziava un nuovo capitolo storico-geografico: il disgelo tra gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese. È affascinante leggere gli atti, recentemente resi pubblici, dell’ultimo colloquio tra Mao Zedong e il presidente americano Gerald Ford nel dicembre 1975, un mese dopo la morte di Franco in Spagna. Mao si interessava alla situazione dell’Europa del Sud e Ford gli confermava il timore degli Stati Uniti che l’espansionismo sovietico trovasse terreno fertile nell’area del Mediterraneo. Entrambi erano d’accordo sul fatto che il modo migliore di evitare l’espansione sovietica fosse un rapido ingresso della Spagna, del Portogallo e della Grecia nella Comunità economica europea. E il contenimento dell’Italia.

Così si fece negli anni Ottanta... e trent’anni dopo il geografo Joel Kotkin ci parla delle Repubbliche delle Olive. Trent’anni dopo, l’Europa del Sud è di nuovo il tallone di Achille dell’Occidente. Ieri, il punto debole della Nato; oggi, il punto debole dell’euro. Cos’è successo? Due mesi fa, Massimo Franco proponeva un’ipotesi molto suggestiva sul «Corriere della Sera» (5 settembre 2102): il peso della religione. I protestanti «rigoristi» del Nord contro i cattolici «lassisti» del Sud. La georeligione. Dopo qualche tempo, il segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Tarcisio Bertone, intervistato da «La Vanguardia» di Barcellona, rispondeva: «Mi sembra che la crisi abbia colpito tutta l’Europa, anche se in diversa misura, evidenziando i punti deboli di ogni Paese, nonché i limiti strutturali dell’Unione Europea. Pertanto, la tesi che vuole trovare un "fattore religioso e culturale" nell’indebitamento può sembrare suggestiva, tuttavia, non solo non sembra storicamente giustificabile, ma corre il rischio di essere un pretesto per non cercare soluzioni opportune» (23 settembre 2012).
Cos’è successo? A mio parere, bisogna cercare le cause della situazione attuale soprattutto negli anni Settanta e Ottanta. I Paesi dell’Europa del Sud furono spinti al credito, mentre si smantellavano le vecchie strutture industriali. Credito, consumo, economia di servizi, sovvenzioni europee, opere pubbliche e affari immobiliari furono le basi del nuovo consenso sociale. Il caso della Spagna è esemplare in questo senso. E la Grecia è il caso più clamoroso: fu spinta all’economia del credito per motivi «geostrategici» e perché la portata della sua economia non destava preoccupazioni. La Grecia: enclave dell’Unione Europea nei Balcani, alle porte del Mar Nero, anticamera della grande Turchia e della Russia. Carolingia a Bisanzio. Pura geografia politica.
Non è casuale che la situazione dell’Italia sia relativamente diversa. L’Italia ha tre punti di forza: la zona industriale del Nord, un elevato debito pubblico senza un grande indebitamento privato, e una democrazia che è riuscita a resistere alla Guerra Fredda. Con tutte le difficoltà del caso, da quasi settant’anni gli italiani continuano a scendere a compromessi e a negoziare civilmente le loro contraddizioni interne. Gli spagnoli, no. I portoghesi, nemmeno. I greci, neanche. Le dittature sono all’origine delle attuali difficoltà. E le dittature del sud dell’Europa sono sopravvissute alla vittoria della democrazia liberale nella Seconda guerra mondiale a causa della geografia. La penisola iberica era un’eccellente portaerei per gli Stati Uniti. La Grecia era un ottimo avamposto di controllo. Solo l’Italia è sfuggita alla logica della dittatura geografica.
La geografia ritorna per ricordarci che non viviamo in un mondo immateriale. La geografia ritorna con la domanda del filosofo Sloterdijk: «Dove siamo quando sappiamo di essere nell’immensità?» La geografia ritorna con due accompagnatori. Un nuovo pensiero critico, il pensiero spaziale. E il rischio di un nuovo dogmatismo, il determinismo geografico. Mappe, mappe, mappe.
Enric Juliana
(Traduzione di Elena Rolla)