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 2012  novembre 11 Domenica calendario

IL BUON LAVORATORE VA A CASA PRESTO

Qualche giorno fa, Chiara — 38 anni, due figli, ingegnere — si è vista sorpassare in carriera da un collega che tutti in ufficio sanno essere meno esperto e meno meritevole. Ha chiesto spiegazioni e le è stato risposto che «è più disponibile». «Nel senso — dice lei — che passa il giorno a navigare in Internet, ma poi la sera si ferma in ufficio con il boss fino alle otto o alle nove». Elena no: alle sei sgombra la scrivania, corre dai figli, prepara la cena, li mette a letto e, semmai, alle dieci riapre il computer sul tavolo da pranzo per dare un’occhiata a un progetto. Una storia minuscola, uguale a quelle vissute da migliaia di donne, in Italia. Ma che racconta una storia enorme. Perché gli italiani, i maschi italiani, spesso tirano tardi sul lavoro? Perché, a differenza degli europei del Nord, finito l’orario non se ne vanno a fare altro, ma restano in ufficio? E perché questo è un tratto comune a molti dei Paesi dove le relazioni, sul lavoro e fuori, sono statiche, verrebbe da dire vecchie?
C’è una statistica che ogni volta provoca sorpresa. E confusione. Se si guardano le ore lavorate dagli europei ogni settimana si nota che i greci battono tutti: 42,2 ore di media (fonte: l’Ufficio nazionale di statistica britannico). I tedeschi, invece, 35,6. I due Paesi ai poli opposti della crisi europea, in altre parole, sembrerebbero a testa in giù: in Grecia gran lavoratori, in Germania quasi fannulloni. E anche in Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Slovacchia si lavora in media più di 40 ore. Mentre nella virtuosa Danimarca nemmeno 34 ore e in tutti i Paesi del Nord molto meno delle classiche 40 alla settimana. Il fenomeno ha una spiegazione semplice, ma ramificazioni complesse.
La spiegazione si chiama differenza di produttività: se per innaffiare l’orto ho una pompa che prende acqua dal pozzo ci impiegherò un’ora; se devo prendere l’acqua con i secchi ce ne metterò quattro. A parità di risultato avrò lavorato il quadruplo. È evidente che all’estremo occupato dalla Germania ci sono aziende organizzate e di notevoli dimensioni, tecnologie moderne, opportunità finanziarie, catene di fornitura e di distribuzione avanzate, poca corruzione. All’estremo della Grecia, il contrario: dunque si lavora più tempo con risultati minori. Fatta cento la produttività della Ue, la Germania è a 123,7, la Grecia è a 76,3. Quella dell’Italia è a 101,5. E infatti, secondo l’Ocse, il 7% dei maschi italiani lavora più di 50 ore la settimana, contro il 2% delle donne. Ma se si contano le ore in ufficio non pagate la percentuale sale parecchio. Un’indagine condotta da Regus ha stabilito che il 45% degli italiani lavora tra le 9 e le 11 ore al giorno, contro il 38% della media mondiale.
Stabilito che non è il numero di ore lavorate a creare ricchezza ed efficienza, si tratta di capire perché in molti Paesi e in particolare in Italia alcuni, soprattutto manager, stanno troppo in ufficio. La ragione di base sta nel fatto che in molte imprese si fa carriera con le relazioni, non grazie ai meriti. Stare in ufficio tardi crea solidarietà, soprattutto maschili dal momento che la maggior parte delle donne va a casa. E in organizzazioni in cui si avanza per cordate, l’appartenenza e la fedeltà sono decisive. Non è ovunque così. Ma, di certo, l’azienda in cui si sta troppo tempo sul posto di lavoro non punta sulla qualità e sulla produttività.
«Quando l’orologio batte le cinque, il team va a casa — sostiene Max Cameron, amministratore delegato di Big Bang Technology, un’impresa hi-tech canadese —. Dico a tutti che il gioco è finito e hanno perso». Cameron ritiene che la mentalità dell’eroe che si sacrifica per l’azienda sia altamente dannosa per l’azienda stessa. Da una parte porta al burnout, a una decadenza mentale di chi lavora troppo ed è sotto stress. Dall’altra, soprattutto, crea un ambiente dove nessuno può essere leader senza sacrificare qualcosa della sua vita: chi non lo fa non può quindi essere promosso anche se ha le qualità per esserlo. «Erode la leadership», dice Cameron.
Bary Sherman, amministratore delegato dell’americana Pep Productivity Solutions, dice che i motivi non economici per i quali qualcuno lavora overtime sono due: «Il primo è che non vuole andare a casa e il secondo è che non sa come si lavora efficacemente». Chi non vuole andare a casa lo fa probabilmente per compiacere il capo e fare carriera, ma anche perché l’ambiente esterno lo permette. In Svezia, per esempio, stare in ufficio oltre l’orario prestabilito è considerato disdicevole dal punto di vista sociale: è visto come una scelta egoista di chi non ha interesse nei confronti degli altri, del mondo esterno, a cominciare dalla famiglia. Tanto che solo l’1 % degli svedesi lavora più di 50 ore (Ocse) e, soprattutto, un maschio in media dedica 177 minuti al giorno per cucinare, lavare e curare i figli, contro i 249 minuti delle donne: in Italia, i maschi spendono 103 minuti per le attività legate alla famiglia contro i 326 delle donne. Carriera e relazioni sociali dentro e fuori l’ufficio, dunque, spiegano molto dell’overtime.
Un Paese dove il merito è poco premiato, ma prevalgono le relazioni, e dove la società ha ancora muri alti tra maschi e femmine, è il Giappone. Secondo i sindacati, lì, in media, un funzionario su dieci lascia l’ufficio dopo le 11 di sera e l’84% dei lavoratori sfora abbondantemente l’orario stabilito. Al punto che esiste una parola, karoshi, che significa morte da troppo lavoro. Situazioni simili, dove si sta in ufficio finché il boss non va a casa, si vivono in Corea del Sud e a Singapore.
Poi c’è chi lavora troppo per disfunzioni organizzative. In questo caso il problema è serio per l’azienda, che forse otterrà un certo presenzialismo, ma di certo non potrà avere alti livelli di qualità e ancora meno di creatività. Con, inoltre, problemi seri per i lavoratori: una ricerca recente dell’Istituto per la salute e l’occupazione finlandese ha stabilito che chi lavora regolarmente più delle otto ore classiche al giorno aumenta tra il 40 e l’80% la probabilità di avere problemi cardiaci e corre maggiori rischi di demenza senile a causa della «prolungata esposizione allo stress», dice la dottoressa Marianna Virtanen, che ha guidato la ricerca.
Quando sentite la parola workaholic, dunque, alzate la guardia: ci sono guai nel management, o nella meritocrazia, o nei rapporti sociali esterni, o nel lavoratore. Spesso in tutti, direbbe Chiara.
Danilo Taino