Riccardo Muti, Corriere della Sera 11/11/2012, 11 novembre 2012
E VERDI INVENTO’ IL NON SUONO
Il suono verdiano è quello che ci ha lasciato Toscanini, perché ha suonato il violoncello diretto da Verdi e il suono che ha creato è sicuramente quello che poi ha adoperato, in maniera più moderna e più brillante, come interprete in tutta la sua vita.
Si narra a questo proposito un aneddoto divertente: un giorno Toscanini era al secondo leggìo alla Scala, giovanissimo, nel famoso assolo del gruppo dei violoncelli alla fine del primo atto dell’Otello e si beccò una sgridata terribile da Verdi perché suonava troppo forte. Toscanini allora avrebbe risposto al grande e venerabile Maestro: «Non sono io che suono troppo forte: è il primo che suona troppo piano!». In ogni caso, il suono toscaniniano è certamente più vicino alle intenzioni di Verdi rispetto a quello di certi direttori filologi di oggi, che magari non parlano neanche l’italiano e non sanno che cos’è l’italianità, nel senso nobile della parola.
Bisogna ammettere tuttavia che Verdi è molto esigente: richiede all’esecutore un virtuosismo non solamente di velocità delle note, ma anche nel suono, nel fraseggio, aggiungendo anche indicazioni di sonorità vocale: già in Nabucco il compositore prova nuovi timbri, in Macbeth sottolinea le situazioni drammatiche creando sonorità impensabili a quell’epoca. Nel Macbeth, e ricordiamo che è del 1847, Verdi chiede all’orchestra un suono muto, al cantante una voce soffocata, che sembrano una contradictio in terminis: «muto» significa «silenzio». Suono muto significa «suono che non è suono». Questo è virtuosismo, perché richiede allo strumentista non solamente l’esercizio e l’esperienza di ciò che ha studiato in conservatorio, ma anche il contrario: e cioè di emettere un suono… non emettendolo.
Su questo suono muto vi è poi l’indicazione diminuendo. Come si può diminuire un suono che è già un non suono?
È questa la grandezza di Verdi. Ha un concetto del suono e della sua emissione che non appartiene a quello nostro, «normale». Verdi è molto più moderno di quello che noi pensiamo, e qui è davvero proiettato molti decenni in avanti: indicava sonorità pressoché espressionistiche, ben prima che l’espressionismo diventasse una scuola di composizione o di pittura. Suono muto, suono soffocato, senza suono, con voce oscillante, sono tutti termini che non si troveranno neppure nelle partiture di Aleksandr Scrjabin, che sono ricche di prescrizioni ben precise.
Già all’inizio del suo percorso creativo Verdi si rivela un compositore «del futuro» e intende usare l’orchestra e la voce, specialmente la voce, in un modo ben diverso da quello atletico oggi in voga, quando si richiedono ai cantanti prestazioni di virtuosismo e potenza. Per lui la voce era davvero veicolo di espressione, ma un’espressione di tale modernità che, se cercassimo di realizzarla nei nostri teatri tradizionali, saremmo presi per matti.
Un chiaro esempio di questo è il ruolo di Lady Macbeth. Non credo che oggi il pubblico accetterebbe una Lady Macbeth con una voce rauca, una «voce che avesse del diabolico», ma è così che Verdi la voleva. Solitamente Verdi scriveva tenendo presenti le caratteristiche dei cantanti che aveva a disposizione e spesso apponeva modifiche se un cantante non riusciva a eseguire la propria parte come scritta; teneva molto all’accuratezza, dal punto di vista sia vocale che strumentale, ma dava la massima importanza all’espressione.
Io invece non ho mai potuto scritturare un’interprete con una voce rauca per Lady Macbeth, sia perché a un certo punto ci sono note che richiedono un suono potente, sia perché il pubblico protesterebbe. Sarebbe splendido però poter eseguire un Macbeth con un soprano e un baritono che cantino con una certa asprezza; Verdi spiegò ben chiaramente perché non voleva Eugenia Tadolini come Lady Macbeth: «La Tadolini ha una voce stupenda, chiara, limpida, potente e io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata, cupa».
Carlos Kleiber, il grande direttore d’orchestra che ci ha lasciati nel 2004, mi disse un giorno: «Ci sono delle musiche che funzionano bene solamente sulla carta, cioè guardandole. Perché, quando le si porta in vita, il risultato è di gran lunga inferiore a quello che immaginavamo».
Ogni buon musicista, aprendo la pagina di una partitura, legge e immagina, crea dentro di sé la partitura stessa. È come quando uno legge la Divina Commedia: non ha bisogno di declamarla ad alta voce, perché le parole entrano nella testa e possono anche creare un effetto recitato estremamente poetico, che si perde però nel momento in cui vengono pronunciate e nascono a vita concreta.
Lo stesso vale per la musica: io posso immaginare un suono, ma dovrò poi fare i conti con le difficoltà tecniche dei diversi strumenti; pensiamo per esempio all’oboe che, essendo uno strumento ad ancia doppia, non può scendere sotto una certa sonorità.
Il momento dell’esecuzione allora non è altro che il momento della concretizzazione di giorni e giorni di lavoro, con gli strumenti e con i cantanti. Il rapporto palcoscenico-buca è strettissimo. Ogni tanto si legge da parte di certi critici musicali: «Il direttore ha seguito bene i cantanti, ha aiutato i cantanti», ma è una frase completamente sbagliata. Il direttore non deve seguire il cantante: deve far musica con il cantante. È chiaro che non deve mettergli la camicia di forza, ma neanche essere schiavo di una serie di cantanti che, se lasciati al loro arbitrio e non incanalati in un comune flusso interpretativo, creerebbero il caos.
Uno dei problemi fondamentali in Verdi, ma in tutta l’opera italiana, è il legato. Noi abbiamo la più bella lingua del mondo, perché è come un fiume che scorre: il legato nella musica deriva infatti dal legato nella nostra lingua parlata. Purtroppo però oggi, quando si canta, molto spesso si spezzano le parole. Si racconta di un corista che un giorno, cantando il Macbeth, chiese al maestro del coro: «Scusi, che cos’è il galempio?». Aveva infatti interpretato le parole «Colga l’empio!» spezzando il verbo «col-ga».
Parte integrante dello stile è quindi il modo di pronunciare le parole, perché in Verdi sono molto più importanti che non in Bellini o in Donizetti. In Verdi ogni parola è come una scultura di Michelangelo, questa è la differenza maggiore tra lui e i compositori suoi contemporanei o di poco precedenti.
La chiave per una buona pronuncia sono le consonanti dure, specialmente in parole con la erre arrotata, che devono essere articolate in modo appropriato. Oggi, però, è difficile trovare cantanti in grado di farlo. Maria Callas ci riusciva perfettamente, come diversi altri. Se infatti le parole vengono articolate come si deve, è già garantita una buona dose di intensità.
Riccardo Muti