Giuseppe Lupo, Avvenire 11/11/2012, 11 novembre 2012
ORDINARE UNA LIBRERIA: PER LINGUA O AUTORI PREFERITI?
Esiste un dipinto di Gianfilipo Usellini, in cui mi piacerebbe abitare. Si chiama La biblioteca magica (1950-55), è una tempera enorme e raffigura la sala di una biblioteca (forse la Braidense di Milano), dove i personaggi (Pinocchio, il Gatto con gli stivali, Arlecchino, Robinson Crusoe, Marco Polo, Giulietta e Romeo) escono dalle pagine dei libri e si mettono a discutere fra loro, nei corridoi, a cavalcioni tra le mensole, appesi al soffitto, trasformando la stanza in un palcoscenico di parole misteriose.
In primo piano ci sono Cristoforo Colombo, Marco Polo e Ferdinando Magellano. E si vede pure Pinocchio che fa da guida a Cappuccetto Rosso, la Fata Turchina e Pierino Porcospino.
Dove li sta portando? Ci vorrebbero orecchie e occhi particolari per seguire tutto quello che succede nel quadro.
Ci pensavo nei giorni scorsi, mentre avvertivo intorno a me un’aria di smobilitazione. A casa mia è arrivata una libreria nuova e ho dovuto spostare alcune collane dai vecchi scaffali ai nuovi, trasferire i volumi dallo studio al soggiorno. Operazione lenta e rischiosa: avrei potuto perdere le traiettorie, smarrire il senso della posizione, disperdere le poche certezze che ho accumulato negli anni, sapendo che Dante si trovava vicino al balcone, Virgilio occupava una solida posizione due palmi sopra il televisore e Boccaccio mi strizzava l’occhio quando imboccavo il corridoio della zona notte. Per fortuna ho cercato di risistemare la mappa, dare un senso a quelli che considero gli strumenti più utili per riempire le sere d’inverno. Gira, sposta, ricomponi, nell’illusione che tutto quello che è accaduto sulla faccia della terra, dalla guerra di Troia al volo sulla luna, sia finito in quelle pagine.
Una libreria non è solo l’insieme di volumi, è un panorama geografico, un inventario di persone, un vocabolario di luoghi: non leggiamo Cervantes, abitiamo la Spagna di Don Chisciotte. C’è un bel po’ di differenza. A un certo punto l’occhio si è fermato su un ripiano nascosto, dove erano finiti i ’miei’ libri, quelli scritti da me.
Anche loro erano emigrati in altre latitudini, occupavano un piccolo pezzo di terra che aveva ai confini i poemi di Omero, l’Orlando furioso, Gargantua e Pantagruel, Tolstoj, Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Marquez.
Al termine di tutto questo gran trambusto, fra sedie e scale che ballavano, ho letto un velo di delusione sulla faccia delle mie figlie che avevano partecipato con entusiasmo all’esodo dei romanzi (forse fidandosi anche troppo delle mie indicazioni). Guardavano le copertine, leggevano i titoli sul dorso e mi fissavano con un’aria di meraviglia: «Ma è un minestrone? Come fai a mettere insieme scrittori che parlano lingue diverse?». Davvero un guazzabuglio: un bibliotecario sarebbe inorridito non solo perché gli autori avevano raccontato in greco, spagnolo, francese, slang americano, ma perché le loro storie venivano da civiltà inavvicinabili. Ho provato a difendermi: «Sono i libri degli amici. Tengono compagnia ai miei». La loro meraviglia si è mutata in sarcasmo: «Da quando in qua ti sei messo a giocare con Omero?» e mi hanno lasciato per andarsene a dormire.
Ho cercato di fare ordine suddivendo le opere per secoli, per nazioni, per generi. Ma ho perso il conto del tempo, non mi sono accorto che, a parte me, non c’era nessun altro a far rumore nel condominio.
Poi ho sentito alcune voci, ho alzato lo sguardo e mi sono trovato davanti Pinocchio e Marco Polo, Elena e Madame Bovary. Erano fuggiti dai libri, godevano della stessa libertà che avevano nel quadro. Mi girava la testa. Cercavo di dire: »Sedetevi, accomodatevi».
Poi ho visto comparire Barack Obama. Era uscito dal televisore come poco prima Ulisse dall’Odissea. Era felice, aveva appena vinto le elezioni negli Usa.
La storia continuava il suo sogno.