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 2012  novembre 11 Domenica calendario

STATISTICA

Ha recentemente scritto il politologo tedesco Claus Offe: «Noi continuiamo a fare cose di cui è evidente che in futuro, a posteriori, ci dovremo pentire – e questo tanto sul piano tecnico-materiale quanto su quello della prospettiva morale».
Oggi sappiamo bene che l’apparente irrazionalità di alcuni comportamenti deriva dal modo con cui il nostro cervello reagisce non solo all’informazione disponibile, ma anche al modo in cui essa è veicolata, seguendo processi incisi profondamente nel Dna umano, e non solo in quello umano. In estrema sintesi, questi studi ci dicono che la mente è incapace di analizzare tutte le informazioni utili per compiere correttamente le scelte necessarie. Normalmente, infatti, essa non è in grado di effettuare una valutazione accurata delle diverse opzioni disponibili seguendo le leggi della probabilità: di conseguenza ci affidiamo spesso a delle «scorciatoie mentali», cioè a un ragionamento intuitivo, rapido e semplificato, che non sempre, però, ci fa prendere la decisione giusta. Inoltre, quando dobbiamo valutare i pro e i contro di una scelta entrano in campo informazioni ausiliarie, che sono già nella nostra mente, magari memorizzate solo perché ripetute spesso dai mezzi di comunicazione.
Abbiamo così la tendenza a sovrastimare la probabilità di eventi con i quali abbiamo familiarità, magari perché un nostro conoscente ha sperimentato proprio quell’evento. La nostra mente spesso tende a visualizzare il problema, più che a concentrarsi sulla considerazione analitica dei singoli aspetti. Di conseguenza, essa è pronta a recepire maggiormente informazioni e opinioni coerenti con ciò di cui siamo già convinti, piuttosto che valutare l’ipotesi contraria. Vari esperimenti dimostrano che quasi tutti preferiscono dare peso ad una evidenza che conferma le proprie credenze, sottovalutando quella contraria, confermando così quello che Bacone sosteneva nel XVII secolo, cioè che l’uomo, una volta che si è formato un’opinione, usa tutti gli strumenti per sostenere quell’idea, nonostante le tante evidenze contrarie. Se questo vale in generale, questi meccanismi appaiono particolarmente rilevanti quando si tratta di sviluppare opinioni su fenomeni di cui non abbiamo una conoscenza diretta. È ben nota la tendenza della stragrande maggioranza delle persone ad acquistare il quotidiano, o a seguire i programmi televisivi più in linea con le proprie convinzioni, e lo stesso accade per la consultazione dei siti Internet.
Ed è qui dove la statistica dovrebbe entrare in gioco. Infatti, nelle società moderne sono sempre più spesso «i dati» a contribuire a formare l’evidenza sullo stato di una società, giocando un ruolo decisivo nel determinare quell’insieme informativo che la nostra mente archivia e richiama quando necessario. Nel volume La mente politica Drew Westen illustra una dettagliata analisi delle campagne elettorali americane dell’ultimo mezzo secolo, leggendole alla luce dei risultati ottenuti dai neuroscienziati. Poiché «non prestiamo attenzione ad argomenti che non suscitano in noi interesse, entusiasmo, paura, rabbia o disprezzo», Westen ci ricorda che «dal punto di vista delle neuroscienze, più un messaggio è puramente “razionale”, meno è probabile che attivi i circuiti emotivi che presiedono al comportamento di voto». Di conseguenza, il messaggio ai politici è estremamente chiaro: se volete conquistare il cuore e la mente degli elettori dovete partire dal cuore, perché altrimenti questi ultimi non proveranno grande interesse per il contenuto della vostra mente. Poiché i nostri circuiti neurali sono basati su reti complesse, spesso attivate in modo inconsapevole, secondo Westen i politici hanno la scelta di battersi «per occupare quei pochi millimetri di terreno cerebrale che elaborano i dati, le cifre e i programmi politici. O si può rivolgere la campagna al più vasto elettorato neurale, reclutando delegati in tutto il cervello e puntando su stati emotivi diversi concepiti per esercitare il massimo richiamo». Alla luce di queste considerazioni, confermate – credo – dall’osservazione dei meccanismi di funzionamento della politica italiana (ma non solo), ci si potrebbe domandare se non convenga riconoscere che le deliberazioni vengono adottate non in base all’evidenza (compresa quella statistica), cioè alla conoscenza dei fenomeni, bensì alla capacità dei politici di influenzare emotivamente i cittadini e far sì che questi ultimi chiedano ciò che i primi vogliono (o ritengono importante, indipendentemente dall’evidenza empirica) e non viceversa.
La disponibilità delle nuove tecnologie sta producendo un vero e proprio cambio di paradigma nella statistica, nella comunicazione pubblica e nel funzionamento della società. Infatti, non è mai stato così facile e così poco costoso produrre informazioni quantitative, sondaggi d’opinione e dati statistici: a tutto questo si aggiunge la crescita esponenziale degli Open Data (cioè la diffusione gratuita e in formato «aperto», così da facilitarne il riutilizzo, dei dati riguardanti il funzionamento delle organizzazioni pubbliche e private) e, più recentemente, lo sviluppo dei Big Data , cioè i dati generati dai moderni sistemi di transazione, interazione, monitoraggio e localizzazione. Insomma, il «diluvio di dati» non è destinato ad interrompersi nel prossimo futuro, anzi. Chi sa perché la gente fa quello che fa? Il punto è che lo fa e che noi possiamo tracciarlo e misurarlo con una precisione senza precedenti. Con abbastanza dati, i numeri parlano da soli. Il punto è che i fenomeni a cui ho fatto riferimento sono reali e ciò sta già influenzando il dibattito pubblico e il modo in cui gli individui e la società adottano le proprie decisioni. Infatti, se una delle conclusioni dell’analisi comportamentale è che tendiamo a vedere solo quello che vogliamo vedere, e se lo sviluppo dei metodi statistici e delle nuove tecnologie informatiche sono oggi a disposizione di un numero crescente di soggetti attivi nell’agorà politica, non possiamo stupirci della «cacofonia statistica» in cui viviamo, che raggiunge il suo picco nel corso dei talk show, o del senso di impotenza che proviamo quando leggiamo articoli che riportano con grande evidenza dati fragili o addirittura falsi. Ma come si trasmette l’informazione in un mondo siffatto? Diversi studi ci dicono che, normalmente, l’informazione viene trasmessa come un virus: all’inizio essa raggiunge solo alcuni, che a loro volta la trasmettono ad altri, e così via. Ma, come nel caso di un virus, ad ogni passaggio l’oggetto trasmesso cambia leggermente, cosicché chi si trova alla fine della catena raramente riceve l’informazione originaria. Come accadeva quando da bambini giocavamo al «telefono senza fili», anche nel mondo reale c’è spesso qualcuno che trasmette, involontariamente o deliberatamente, l’informazione in modo scorretto: naturalmente, i social network amplificano enormemente le possibilità, anche per i non esperti, di trasmettere ad altri informazioni, sia quelle corrette sia quelle modificate, e questo alimenta convinzioni individuali su una quantità pressoché infinita di questioni, non necessariamente basate su dati corretti.
Peraltro, i dati relativi all’Italia mostrano un forte aumento dell’uso di Internet come fonte informativa privilegiata per ricevere le informazioni sui dati economici (dal 25% del 2009 al 31% del 2012), a scapito dei media classici, eccetto la radio, la cui importanza è sostanzialmente costante. È evidente che il Web 2.0 (i wiki, i blog, i forum eccetera) e le nuove forme di analisi del data deluge , essendo soggetti agli stessi pregi e difetti del mercato, hanno straordinarie potenzialità, ma mettono gli individui meno avveduti ancora più a rischio di manipolazione. Nel primo episodio di Matrix Neo (il protagonista) combatte contro la macchina che crea la realtà virtuale nella quale gli uomini, resi schiavi dagli alieni e ridotti a mera fonte di energia, credono di vivere. La macchina uccide Neo, il quale risorge grazie al classico bacio della principessa e finalmente vede il mondo come esso è veramente, cioè un insieme di codici alfanumerici usati dalla macchina per generare le immagini che animano la realtà virtuale.
Ebbene, per realizzare il proprio compito nel mondo «digitale», gli statistici ufficiali devono fare il percorso inverso, cioè evitare di essere concentrati unicamente sui numeri, ma tenere conto anche della «proiezione mentale» che essi generano nel cervello degli individui e nella società. Solo così, infatti, le statistiche cesseranno di essere considerate codici incomprensibili, ma descriveranno persone, imprese, situazioni e comportamenti concreti, cioè ologrammi immediatamente intellegibili dall’osservatore. È possibile fare ciò senza perdere la propria anima di servitori «neutrali» della società?
Fermo restando che nessun dato statistico è del tutto neutrale, in quanto elaborato a partire da un certo modello di misurazione (cioè da una certa visione della realtà), la mia risposta è positiva. Visti i problemi che abbiamo di fronte a livello nazionale e internazionale, pensare di «conoscere per deliberare» solo sulla base dei dati che si riferiscono al presente o al passato rischia di essere un errore grave, a causa della non linearità di alcuni processi e della dimensione globale di taluni fenomeni. Serve molto di più: servono modelli scientifici basati su dati affidabili, con i quali costruire scenari, simulazioni e valutare rischi e possibili soluzioni. Ecco perché di fronte ai problemi che stiamo vivendo, abbiamo un disperato bisogno di investire nella scienza, nella sociestique e nella collaborazione tra discipline diverse, così da passare, per quanto possibile, dalla cultura dell’accettazione supina dell’incertezza a quella della gestione del rischio. È questo un cambiamento culturale enorme, tutt’altro che semplice.