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 2012  novembre 10 Sabato calendario

I RESTI DELLA TIRRENIA ALL’ASTA CON UN SIRONI —

Quel che rimane della Tirrenia di navigazione viene battuto all’asta da Blindarte a Napoli, il 24 novembre. Suppellettili, gioielli, vasi cinesi. E quadri, come la Composizione che il grande pittore sassarese Mario Sironi aveva dipinto nel 1948 per il salone della nave di lusso Esperia. Non poteva che finire così, ovvio. Sempre se l’incredibile vicenda della grande compagnia pubblica decotta, ceduta finalmente nei mesi scorsi dopo interminabili peripezie, possa ritenersi davvero chiusa.
È di mercoledì 7 novembre la notizia che la Commissione europea indagherà per verificare se la Tirrenia non sia stata venduta a prezzi di favore. L’indagine era aperta da ottobre dello scorso anno sugli aiuti che il gruppo marittimo pubblico aveva avuto negli anni dallo Stato italiano: una questione pelosissima, che si intreccia inevitabilmente con la privatizzazione. Per quale motivo? Semplice: perché gli aiuti non sono finiti. Ce ne sono ancora 72 milioni l’anno per i prossimi otto anni. In tutto, 576 milioni. Ora però il faro europeo si allarga anche all’operazione conclusa lo scorso 19 luglio con l’acquisizione della compagnia da parte della Compagnia italiana di navigazione (Cin), controllata da una cordata di cui fanno parte Moby, il fondo Clessidra, Shipping investment della famiglia Izzo e il Gruppo investimenti portuali. Valore: 380 milioni. Circa 200 in meno dei sussidi pubblici cui la Tirrenia privatizzata avrà ancora diritto. La stima del prezzo è di Banca Profilo, esperto nominato dal ministero dello Sviluppo all’epoca del governo di Silvio Berlusconi. Il pagamento è garantito da un pool di banche, con l’aiutino, per una parte di esso, di comode rate senza interessi.
Così, oppure non si vendeva. E anche se a Bruxelles storcono il naso pretendendo chiarimenti proprio sulle condizioni di vendita, è l’amara verità. Per capire come fosse combinata quell’azienda, basta dire che senza i sussidi pubblici il bilancio del 2008, penultimo anno che ha preceduto il commissariamento, si sarebbe chiuso con una perdita di 87.453 euro per ognuno dei 2.825 dipendenti.
La cessione, comunque, non è stata digerita da tutti. Particolarmente in Sardegna. Non l’ha digerita, per esempio, il deputato sardo del Pdl Mauro Pili, che non ha esitato a definire la cosa «un imbroglio di Stato funzionale solo a mettere al sicuro gli interessi dei napoletani e della Fincantieri di Genova». E nemmeno l’assessore regionale ai Trasporti Christian Solinas, indignato perché la Tirrenia è diventata sponsor del Cagliari calcio: «Quel logo sulle maglie rossoblu rappresenta l’emblema delle vessazioni e delle prevaricazioni che lo Stato e la sua ormai ex compagnia hanno perpetrato per anni sulle nostre spalle, non ultima la vicenda della privatizzazione avvenuta in totale contrasto con i diritti della Regione. Ricordiamo il trattamento riservatoci dai napoletani il 15 giugno 1997 in occasione dello spareggio salvezza tra Cagliari e Piacenza. E certe cose non si lavano con trenta denari di sponsor!» Che cosa c’entrano i napoletani? Vincenzo Onorato, il patron della Moby, è napoletano... La Cin ha sede a Napoli... Anche gli Izzo sono napoletani... E i marinai? Più di metà sono di Torre del Greco: quasi Napoli...
Che fosse questo l’epilogo, una scazzottata fra sardi e napoletani con Bruxelles che minaccia bacchettate pesanti, chi se lo poteva immaginare? Certo non l’armatore genovese Raffaele Rubattino, patriota, che nel 1860 aveva dato a Giuseppe Garibaldi il «Piemonte» e il «Lombardo» per portare i Mille a Marsala, e prima ancora il «Cagliari» a Carlo Pisacane per la sfortunata impresa di Sapri. Perché è da lì che comincia la nostra storia. Nel 1881 Rubbattino e Florio si fondono nella Navigazione generale italiana, che nel 1932 confluisce nella Italia Flotte riunite, quindi nella Italia società anonima di navigazione e infine nella Finmare dell’Iri. Il risultato è la Tirrenia. Quanti soldi pubblici abbia bruciato, difficile dire. In ogni caso, non meno di 5 miliardi in valuta attuale, sotto forma di sussidi. Certo inevitabili, visto che i servizi marittimi in un Paese pieno di isole vanno garantiti anche l’inverno e a prezzi sostenibili. Ma con i sussidi che ingoiava la Tirrenia non ci si facevano marciare soltanto le navi mezze vuote durante la cattiva stagione. Per dirne una, si compravano quattro navi veloci, costate l’equivalente attuale di 280 milioni, rimaste sempre in banchina. Per quale motivo? Consumavano talmente tanto che costava più farle navigare che lasciarle in porto. E allora come mai le avevano acquistate? Per far lavorare un po’ la Fincantieri: stessa famiglia dell’Iri. Senza parlare dei costi amministrativi. Il gruppo Tirrenia aveva 455 impiegati. Trentaquattro consiglieri di amministrazione, sei direttori generali, trenta sindaci revisori. E addirittura una struttura chiamata Fedarlinea, con altri diciannove strapuntini, per gestire le relazioni sindacali in un’azienda di 3 mila persone. Poltrone totali: 89, una ogni 34 dipendenti.
La più preziosa, quella del gentiluomo di Sua Santità Franco Pecorini, amministratore delegato capace di battere tutti i record di longevità alla guida di un’azienda pubblica. Ventiquattro anni consecutivi, durante i quali è sopravvissuto a ben diciannove governi di tutti gli schieramenti. Ora è un piccolo azionista della Ital Broker, l’assicuratore privato di cui era cliente la Tirrenia, che quando Pecorini ha lasciato la compagnia di navigazione l’ha accolto a braccia aperte: era pronta per lui la poltrona di presidente.
A quel punto la rogna è passata tutta al commissario Giancarlo D’Andrea. E che rogna: in quelle condizioni la Tirrenia era a dir poco incedibile. Le società regionali sono state quindi regalate alle Regioni, perché le privatizzassero. Altra missione impossibile. Finora c’è riuscita soltanto la Toscana, vendendo a Moby. Il governatore siciliano Raffaele Lombardo voleva comprare tutto, ma si è dovuto accontentare della sola Siremar, aggiudicata infine per gara a una società nella quale c’è comunque una partecipazione regionale. Il Tar del Lazio, a giugno dello scorso anno, ha però annullato tutto, sostenendo che era una privatizzazione ben strana: il vincitore della licitazione, la Compagnia delle Isole presieduta dall’ex senatore di Forza Italia e armatore Salvatore Lauro, aveva in tasca una garanzia bancaria gentilmente concessa dalla Regione siciliana. Guarda un po’...
Sergio Rizzo