Paolo Salom, Corriere della Sera 10/11/2012, 10 novembre 2012
ORA LA FOXCONN DELOCALIZZA NEGLI STATI UNITI
Mentre a Pechino i delegati del Pcc delineano le strategie (e gli uomini) per il futuro della Cina, l’economia globale detta le sue regole e impone il ritmo. Un ritmo che nemmeno l’inesauribile forza lavoro della fabbrica del mondo riesce a tenere, se è vero che la Foxconn, azienda taiwanese che assembla i prodotti Apple nei suoi immensi stabilimenti nella Repubblica Popolare (800 mila i lavoratori a libro paga), per far fronte alle sue commesse ha deciso di aprire nuovi impianti negli Stati Uniti. Galeotto fu il successo di iPhone 5 e iPad, strumenti così richiesti che nemmeno con i turni massacranti degli operai cinesi l’offerta riesce a soddisfare la domanda. Così galeotto da invertire radicalmente i flussi di delocalizzazione che, negli ultimi vent’anni, sembravano avere una direzione univoca: da Occidente a Oriente. «Non riusciamo a far fronte alle richieste — ha ammesso il presidente di Foxconn, Terry Gou —. I nostri equipaggiamenti sono insufficienti, a fronte dell’altissima domanda». Dal suo lancio a settembre Apple ha venduto 5 milioni di iPhone 5. Nei mesi passati, il rapporto con la Foxconn aveva suscitato non poche perplessità per via delle condizioni di lavoro denunciate dagli operai, autori in qualche caso di clamorose proteste, anche violente, e numerosi suicidi, le cui motivazioni non sono mai state chiarite fino in fondo. Certo è che le fabbriche della Foxconn nella Repubblica Popolare sono state oggetto di «ispezioni» da parte dei manager inviati dalla Apple per verificare le accuse di maltrattamenti ed eccessi nei carichi di lavoro dei dipendenti. È bene notare che l’azienda taiwanese che ha aperto impianti in varie parti del mondo, dall’Europa al Giappone, al Brasile, in Cina si avvale soprattutto di forza lavoro manuale, mentre negli Stati Uniti potrebbe puntare a linee d’assemblaggio robotizzate. Secondo quanto rivelato dal quotidiano britannico Guardian, tuttavia, Terry Gou avrebbe invitato «dozzine di manager americani» in Cina per (ri)prendere confidenza con la «vecchia» produzione manuale. In realtà, nelle fabbriche cinesi le differenze non si limitano alle modalità di assemblaggio dei prodotti: oltre a questo, ci sono orari di lavoro spalmati sulle dodici ore giornaliere, sei (o sette) giorni su sette, con la pressoché totale assenza di sindacati. Ecco perché, ogni tanto, di fronte a un lavoratore punito da un superiore per mancanze anche minime, talvolta scoppiano vere e proprie rivolte. Se davvero vorrà aprire degli impianti in America — di fatto andando incontro alle promesse di Obama sulla creazione di nuovi posti — la Foxconn dovrà rivedere le sue politiche del lavoro.
Paolo Salom