Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 10/11/2012, 10 novembre 2012
I NUOVI PROFESSORI HANNO GIA’ 38 ANNI. «VECCHI», «NO, ESPERTI»
L’esercito dei 321 mila candidati si avvia a marciare verso il concorso per ottenere un posto di insegnante tra gli 11.542 messi a bando dal ministero. «Marciare per non marcire» era il motto, diventato un detto di tristissima memoria fascista e coniato da Marinetti all’alba della Grande guerra. Qui si tratta di non marcire di precariato e disoccupazione, dunque tanto vale marciare. Chiuse il 7 novembre le iscrizioni, sono stati diffusi i numeri: otto su dieci sono donne, la metà degli iscritti proviene dal Sud, il 29 per cento dal Nord, il 20 dal Centro. Ma quel che colpisce è l’età anagrafica. Uno su due è tra il 36 e i 45 anni, per una media di 38,4 anni; oltre 45 mila sono quelli tra i 46 e i 55 e quasi 3 mila superano i 55 anni.
Con questi numeri si può immaginare il ricambio in una scuola già vecchia? Massimo Raffaeli insegna da un trentennio. Oltre a essere un critico letterario noto, tra i migliori in Italia, è docente di materie letterarie all’Ipsia Bettino Padovano di Senigallia (Ancona): «Sono entrato quando avevo 25 anni: esattamente ogni mattina faccio quel che facevo nell’82 e mi costa un’enorme fatica rapportarmi con i nuovi linguaggi, le modalità e le culture dei miei allievi. Io a volte mi sento un giurassico. Ora, saltata la generazione dei padri, entrerà nella scuola un esercito di professori nonni. La media dei concorrenti, invece, dovrebbe essere di dieci anni meno, ma il nostro è un sistema patologico».
Quel che resta da capire è che cosa hanno fatto, i candidati cinquantenni, nei decenni precedenti: precariato delle supplenze, altri mestieri saltuari, disoccupazione? «Probabilmente — dice Raffaeli — hanno passato il loro tempo a cercare di sfangarla: sarà pure stata un’esperienza umana straordinaria, ma ne viene fuori giustamente gente indurita, fiaccata, incavolata. Per appassionarsi a questo lavoro ci vuole la tranquillità e l’entusiasmo che gli aspiranti professori hanno perso per strada, costretti come sono alla transumanza perpetua e l’un contro l’altro armati. È indecente che il nostro Paese non sia riuscito a garantire la continuità e la trasmissione tra le generazioni». I colleghi più giovani? «Splendidamente motivati, disponibili, preparati, spesso migliori di noi, ma tutti precari».
La competenza e la passione. C’è chi parla di vocazione per l’insegnamento. Chi di missione. Pochi parlano semplicemente di professione. Mariapia Veladiano è oggi preside dell’Istituto Comprensivo di Rovereto, elementari e medie, dopo 27 anni di insegnamento. Scrive romanzi bellissimi: il secondo, Il tempo è un Dio breve, è appena uscito per Einaudi. «Non si fanno concorsi da dodici anni e adesso immettiamo in ruolo persone che dovrebbero essere a due terzi della carriera». Gente già delusa, forse esaurita da mille vicissitudini. Due sono le parole chiave di Veladiano: competenza e passione. E se è così, non è detto che i giovani insegnanti siano migliori. «Certo, sarebbe bene che le età dei docenti fossero mescolate, in modo da favorire lo scambio di esperienze e di strumenti, ma io non ho il mito della gioventù: quel che conta davvero è la capacità di tener vivo il desiderio di far bene un lavoro bellissimo. Gli allievi apprezzano non l’età ma la passione e la bravura del professore. Un giovane insegnante poco motivato dura ben poco: e sarebbe giusto che la scuola allontanasse chi non lavora bene, indipendentemente dall’età».
È pur vero che la stanchezza può subentrare anche a forza di tagli e riforme sbagliate, di diffidenze e di parole d’ordine abusate: gli insegnanti fannulloni, sfigati... «In Italia non esiste immaginario positivo o narrazione costruttiva sulla scuola. Romanzi, cinema, fiction non fanno altro che dipingere l’insegnante non come un professionista soddisfatto del proprio lavoro, ma come un poveretto che per essere felice deve fare altro: l’investigatore, il giornalista... Servirebbe una nuova etica della scuola che spazzi via i cliché tristissimi o le affermazioni generiche a cui siamo abituati».
«È inutile concentrarci sui grandi temi se ci manca l’essenziale e dobbiamo battagliare con la mancanza di banchi e di sedie», dice Giancarlo Visitilli, autore di un libro, recente, E la felicità, Prof? (Einaudi), in cui racconta un serrato confronto, per un anno, con gli adolescenti di una classe di maturità alla ricerca di un equilibrio e di un’identità. Visitilli insegna Lettere in un liceo scientifico di Bari e rivendica l’attualità della lezione di don Milani. «L’età dei concorrenti aumenterà la distanza, già abissale, tra insegnanti e allievi». Ricorda che c’è gente che rinuncia al concorso perché ha trovato un posto da vigile urbano, pur avendo magari più lauree. «Diciamo la verità, alcuni cinquantenni che concorrono oggi non hanno trovato un’occupazione e ripiegano nella scuola». Figurarsi con che entusiasmo: «Il risultato è che affossiamo sempre di più la scuola pubblica, perché è vero che spesso quando si entra di ruolo ci si siede».
Per lo meno i giovani insegnanti avranno il vantaggio di uno slancio maggiore e una mente più fresca. O no? «Macché, i sessantenni sono più vivaci, disposti ad aggiornarsi, e sentono come un dovere l’andare al cinema, a teatro, in libreria. I più giovani, che magari stanno mettendo su famiglia, parlano solo di mobili, divani, sedie. Può darsi che siano più preparati didatticamente, ma non hanno interessi culturali: e durante l’anno di prova non fanno che stare davanti al computer a fare taglia e incolla per superare l’esame».
Paolo Di Stefano