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 2012  novembre 04 Domenica calendario

Il Giornale, domenica 4 novembre 2012 Si fa presto a dire tronista. Ne pensavo tutto il male possibile anch’io, fino a tre ore fa

Il Giornale, domenica 4 novembre 2012 Si fa presto a dire tronista. Ne pensavo tutto il male possibile anch’io, fino a tre ore fa. Ma poi ho conosciuto un tronista morto, che nella vita di tutti i giorni girava negli ospedali a vendere salute e frequentava le sale operatorie per spiegare ai medici come vanno usati i ferri del mestiere. Antonello Zara, falciato quattro anni fa in Sardegna da un’auto che sfrecciava contromano, era un fenomeno televisivo sui generis. Nel 2004 aveva raccolto a Uomini e donne l’eredità del palestrato per antonomasia, Costantino Vitagliano, senza farlo rimpiangere. Nel programma di Canale 5 condotto da Maria De Filippi recitava il ruolo assegnato al bellissimo di turno: farsi corteggiare dalle ragazze presenti in studio. Gli veniva facile, grazie a un’eleganza e a una galanteria innate: alla prescelta finale, Valentina Gioia, per dire, durante un week-end in barca nel Mar di Sardegna fece trovare sul fondo d’una flûte di champagne una fedina d’oro identica a quella che lui portava sempre al dito. Ma considerava l’esperienza tv niente più che una parentesi, un piacevole diversivo nella sua attività di informatore scientifico, alla quale teneva tantissimo e che non avrebbe lasciato per nessuna ragione al mondo. Il padre del tronista, Valter Zara, è morto insieme col figlio quel disgraziato 4 agosto del 2008. Respira, parla, mangia, si alza dal letto e torna a coricarsi per pura rassegnazione, come se qualcun altro lo stesse facendo al posto suo. Sulla sua faccia leggi che la vita gli è estranea. «Antonello aveva 31 anni. Mia moglie Patrizia ne ha 55, io 64, e siamo invecchiati di dieci all’improvviso. Io ho persino perso i capelli. È strano, tutto mi sta crollando addosso soltanto ora. Un po’ me l’aspettavo. Non esco più. Vivo in questo sacrario che è casa nostra. Lo vede? Foto di mio figlio ovunque. Dormo nel suo letto. E quando mi stacco di qui, non vedo l’ora di rientrare». Il signor Zara abita a Verona. Esce tutte le mattine verso le 9.30. Percorre un paio di chilometri per raggiungere il cimitero di Chievo. Antonello riposa nel reparto 210, loculo 8. «Può piovere, nevicare, tirare vento o fare 40 gradi, devo andare. A volte ci torno anche di pomeriggio. Era più di un figlio: un amico. Dava lui consigli a me». Gli parla sottovoce per una decina di minuti. Toglie i fiori appassiti, mette quelli freschi. Prima di uscire dal camposanto, fa il giro del colombario e si ferma dalla parte opposta alla lapide. «Ho calcolato a quale altezza si trova il loculo, mi sono anche fatto un piccolo segno nella malta grezza, ma sta scomparendo. Lo hanno sepolto con la testa da quella parte». Saluta il suo Antonello picchiando il pugno sul muro, come se volesse passargli una mano fra i capelli. Poi torna a casa. Altre persone che possano consolarlo, fra le pareti domestiche, non ne ha. «Era il nostro unico figlio, purtroppo. Un giorno, a 7 anni, mi chiese a bruciapelo: “Papà, perché non mi compri un fratellino?”. Come facevo a spiegargli dell’aborto spontaneo e di quel compagno di giochi tanto atteso che non sarebbe mai arrivato?». Se nella legislazione italiana sta per essere introdotto il reato di omicidio stradale, lo si deve in larga misura alla battaglia solitaria che Valter Zara ha condotto dal 2008 a oggi contro Matteo Sgariboldi, l’investitore di suo figlio, residente a Monza, che all’epoca aveva 20 anni. «S’è l’è cavata con 232 euro di multa per guida contromano. Ha patteggiato un anno di reclusione, che ovviamente non ha scontato. E dopo 18 mesi gli avevano già restituito la patente». Il padre di Antonello ha lasciato il lavoro per studiarsi i libri di diritto e dedicarsi alle cause giudiziarie, ha sensibilizzato i parlamentari di tutti gli schieramenti, è andato in audizione alla Camera, ha denunciato per omissione di atti d’ufficio i due poliziotti che per primi intervennero sul luogo dell’incidente, è ricorso in Cassazione contro l’archiviazione del fascicolo disposta dal giudice per le indagini preliminari di Tempio Pausania. «Qualche sera fa mi ha telefonato l’onorevole Mario Valducci del Pdl, presidente della commissione Trasporti della Camera, primo firmatario della legge delega di riforma del codice della strada, e mi ha comunicato che presto dovrebbe passare almeno la revoca della patente a vita per chi guida in maniera sconsiderata o in stato d’alterazione psicofisica da alcol e da sostanze stupefacenti. È già un passo avanti. Però mi aspetto che il Parlamento aumenti da 8 a 18 anni la pena per l’omicidio stradale». Che cosa le fa credere che nella morte di suo figlio vi sia stata una condotta colposa da parte dell’investitore? «Una serie di fatti mai chiariti. Antonello era stato a una cena con amici a Porto Cervo, cui partecipava George Clooney. Stava rincasando in sella a un cinquantino Honda preso a noleggio. In quel punto, Cala Faro, la strada è in salita, quindi poteva andare al massimo ai 30 all’ora. Lo Sgariboldi usciva con la sua auto, una Bmw, dall’hotel Porto Cervo. Percorse almeno 300 metri a sinistra della carreggiata, anziché a destra. Tre periti hanno stabilito che viaggiava a 82 chilometri orari. Io, che ho venduto automobili per una vita, dico che filava almeno ai 100. Antonello si trovò di fronte un bolide nero nella notte. Non ebbe scampo. Il motorino rimase incastrato sotto la Bmw, che si fermò solo dopo 70 metri. Lui volò per aria, perse il casco e batté la testa sull’asfalto. Le lancette del suo orologio si fermarono sulle 4.08. L’investitore nemmeno s’avvicinò, rimase accanto alla propria auto. Un tassista, transitato dopo 20 minuti, gli chiese: “Ha chiamato i soccorsi?”. Non l’aveva fatto. Fu il tassista a telefonare al 118, ho la sua dichiarazione giurata. Passati altri 20 minuti arrivarono una pattuglia del 113 e un’ambulanza senza medico a bordo. Antonello morì durante il trasporto con una seconda ambulanza all’ospedale di Sassari». Sassari? Non potevano portarlo all’ospedale di Olbia, che è più vicino? «È il primo mistero: gli fecero percorrere 120 chilometri anziché 30. Il secondo mistero è che dopo un po’ si presentarono sul luogo della tragedia i genitori dell’investitore e si riportarono il figliolo nella loro villa, che si trova nell’esclusiva località Romazzino. Nel verbale dei poliziotti si legge che fu mandato a casa in quanto “stanco”. Non fu sottoposto né all’alcoltest né ad accertamenti circa l’uso di sostanze psicotrope, esami che in compenso furono eseguiti a Sassari sul cadavere di mio figlio, con esito negativo». Volevano accertare la presenza di alcol o droghe nel sangue del morto anziché dell’investitore, ho capito bene? «È così. Il mio sospetto è che si volesse addossare la colpa a mio figlio. Gli agenti si sono difesi sostenendo che non avevano gli strumenti per eseguire i controlli e che secondo loro lo Sgariboldi appariva in stato di lucidità mentale. Ai colleghi della Polstrada di Olbia, intervenuti per i rilievi di legge solo alle 8 del mattino, consegnarono un biglietto da visita del ragazzo. L’ispettore capo Andrea Chiminelli provò a telefonare, ma nessuno rispose. Da parte mia ho chiesto di avere i tabulati di tutte le chiamate intercorse quella notte sui cellulari della famiglia Sgariboldi: mai avuti. Il giorno dopo chiamai la polizia di Olbia, volevo sapere come stesse l’investitore. “È appena uscito di qui bello sorridente”, mi risposero. In tribunale non s’è mai presentato. Ho chiesto due volte, attraverso la Polstrada, di parlare con suo padre da uomo a uomo. S’è rifiutato d’incontrarmi. Non ho ricevuto una lettera di scuse. Non si sono presentati al funerale». Che sollievo le darebbe sapere che un ragazzo più giovane di suo figlio è chiuso in prigione? «Non volevo nessuna pena detentiva per lui. Solo che lo mettessero per un anno in una casa di riposo ad assistere gli anziani. Almeno quello». Come seppe della tragedia? «Mia moglie fu informata da mio cognato soltanto alle 14, quindi dopo dieci ore. Fatalità volle che io, sardo di Las Plassas, mi trovassi a Cagliari in visita a mia madre malata. Stavo per correre all’ospedale di Sassari, ma l’ispettore mi dissuase: “Non può fare più nulla per suo figlio. Piuttosto torni subito a Verona, sua moglie sta molto male”. Per mesi, dopo la disgrazia, la facevo controllare dai miei suoceri, quando mi assentavo per lavoro, nel timore che commettesse un gesto inconsulto. Patrizia non vedeva l’ora di ricongiungersi con Antonello». E oggi? «È tornata al lavoro, ma solo part-time. S’è molto legata alla Chiesa, in quattro anni è già stata tre volte a Medjugorje. Io invece mi sono distaccato. Lei mi parla di cose belle, ma le mie orecchie non sentono più. Dov’era Gesù quella notte? Forse in ferie? O s’era distratto? Ne ho anche parlato con un frate. Ha sospirato: “Dopo tutto quello che mi hai raccontato, sarei arrabbiato anch’io”. Resta il rispetto, quello sì. Vado alle due messe di suffragio che tutti i mesi faccio celebrare per Antonello nella chiesa di Santa Maria della Scala, il 7, giorno della sua morte, e l’11, giorno del ritorno della salma a Verona». Com’era arrivato suo figlio in Tv? «Un po’ per hobby e un po’ per soldi faceva il modello, aveva sfilato anche per Giorgio Armani. Conosceva star dello sport e dello spettacolo. Un amico gli propose di entrare nella scuderia di Lele Mora, che lo segnalò alla De Filippi per Uomini e donne e Volere o volare. Contava di mettere insieme un gruzzolo per aprire con me una trattoria. Amava cucinare, io pure. Continuo a farlo. Mi salva dalla pazzia». Prima d’allora, lei sapeva chi è un tronista? «No. Ma devo essere sincero: venne qui a casa una troupe di Mediaset per intervistare mio figlio e io, guardandolo nel monitor della regia, mi accorsi che aveva la faccia giusta per la Tv, che “bucava” lo schermo. Il mio sogno sarebbe stato che diventasse impiegato di banca, visto che aveva il diploma di ragioniere. Mi rispose: “Contare i soldi degli altri, papà? Non fa per me”. Era uno spirito libero. Come informatore scientifico guadagnava 5.000 euro netti al mese. A mia moglie aveva confessato che i reality show non gli interessavano più». Lei ha dichiarato in televisione che Antonello era un salutista e che teneva alla propria vita. Però il mondo dello spettacolo richiede molti strappi alle regole. «Non era il tipo da strappi. Ogni sei mesi veniva sottoposto ai controlli previsti per il personale ammesso nelle sale operatorie. Tutti perfetti. Non ha mai sgarrato». È morto alle 4 del mattino. A quell’ora la maggioranza dei ragazzi dorme. «Era l’ultimo giorno della sua unica settimana di ferie. L’indomani sarebbe dovuto rientrare per recarsi a Zurigo, dove lo attendeva un corso d’aggiornamento sulla spina dorsale organizzato dalla Synthes, l’azienda del gruppo Johnson & Johnson per la quale lavorava». Maria De Filippi vi ha aiutati? Sul Web i fan si lamentano che non l’abbia mai commemorato a Uomini e donne. «Se fosse morto Costantino avrebbero già fatto una puntata speciale per ricordarlo», protesta Giada nel blog dedicato alla memoria di suo figlio. «Ha mandato un cuscino di fiori il giorno dei funerali. Mai scritto, mai telefonato. Sono stato io a contattarla. Mi ha ricevuto a Roma. “Non ne ho parlato in trasmissione perché non volevo rinnovarvi un dolore”, s’è giustificata. Era sincera». So che a voi genitori non piace che vostro figlio sia paragonato a Costantino Vitagliano. Perché? «E neanche a Daniele Interrante. Sono personaggi lontani dal modo di pensare di Antonello. Non è mai andato a cena con loro. Seguiva la propria strada. Organizzava raccolte di sangue con i calciatori, faceva collette per donare apparecchiature sanitarie ai bisognosi, pensava alla famiglia». A vostro figlio il Comune di Verona ha intitolato un parco giochi. «È quello che vede sotto casa nostra, dove Antonello giocava da bambino». Un lettore ha protestato scrivendo al quotidiano locale L’Arena: «Un tronista di una trasmissione di basso profilo etico e morale che lustro avrebbe dato alla nostra comunità?». «Parla così perché non sa nulla degli 11 anni trascorsi da mio figlio in giro per gli ospedali del Triveneto a distribuire stent coronarici, tutori per la colonna vertebrale o fili di sutura. A volte, quando gli chiedevano con urgenza un presidio medico-chirurgico, s’improvvisava corriere e andava a consegnarlo di persona». Nel sito di Uomini e donne non v’è traccia del cognome Zara. Solo le foto degli ultimi tre tronisti, Andrea Offredi, Eugenio Colombo e Diego Ciaramella. «Per anni ho lavorato a Roma col papà dell’attrice Nathalie Caldonazzo, Mario. Lo sa quanti ne ho conosciuti come loro? Vivono attaccati al telefono, in attesa di una chiamata che spesso non arriva. La televisione prima li mastica e poi li sputa». Le succede mai di sognare Antonello? «Di rado. Quando capita, lo rivedo a 8 anni. Un mese fa m’è comparso da adulto, vestito di scuro. È stata l’unica volta che mi ha parlato. Mi ha indicato il solo oggetto d’arredamento rimastomi del suo appartamento che aveva inaugurato poco prima di morire: una chaise longue. Mi ha detto: “Sdràiati qui, papà. Ripòsati”». Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: La versione di Tosi (Marsilio). LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto, Il Vittorioso, Visti da lontano e La versione di Tosi. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.