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 2012  novembre 10 Sabato calendario

IL PRIMO

trimestre di utile operativo non impedirà ad Alitalia di chiudere l’anno con una perdita ingente, superiore al 2011. Per il 2013 la società promette un utile operativo, anche se credo che la previsione non sconti la recessione in atto, e sia viziata dall’irrazionale esuberanza che contagia i manager quanto annunciano gli obiettivi. Comunque, quello che conta è l’utile netto; altrimenti si continua a distruggere patrimonio. Ma un ritorno stabile all’utile non pare futuribile.
A quattro anni dal “salvataggio”, Alitalia rimane dunque in dissesto, ennesimo esempio di una grande azienda italiana in difficoltà: sottodimensionata per competere nel mercato globale; concentrata su un mercato domestico che non cresce; zavorrata dalla passata mala gestione; e “ristrutturata” pensando alla struttura proprietaria (e alla rete di interessi che si cela dietro la scusa della difesa dell’italianità) piuttosto che alla
struttura di mercato nella quale l’azienda dovrebbe competere. I risultati si vedono.
In questo Alitalia non fa eccezione: le vicende di Telecom, del sistema bancario, di Finmeccanica e partecipate, di Fonsai, della Rai, di molte aziende energetiche, dell’editoria, dei trasporti, dell’acciaio e persino del tessile ne condividono le caratteristiche salienti. La differenza è che qui il salvataggio è avvenuto a spese dei contribuenti (che hanno pagato due volte, visto che lo Stato ci ha perso pure come azionista); è stato orchestrato da un banchiere che ora è ministro dello Sviluppo e che sovrintende alle ristrutturazioni aziendali; e ha coinvolto il gotha degli imprenditori italiani.
Prima di occuparsi della struttura proprietaria, ogni ristrutturazione dovrebbe partire dalla struttura di mercato in cui l’azienda opera. Per capire quella delle linee aeree, bastava guardare agli Usa: il 70% del mercato è delle compagnie tradizionali, con gli
hub;
il resto delle
low cost,
con voli
point to point.
Due segmenti di mercato differenziati, perché diversi sono i servizi offerti, e nessuna compagnia
è mai riuscita a competere in entrambi. In ogni segmento c’è forte concentrazione per via di margini bassi ed economie di scala: tre compagnie hanno il 66% del primo, Southwest il 50% dell’altro. L’Europa procede nella stessa direzione: Lufthansa, British-Iberia e AirFrance-Klm dominano il segmento
hub;
EasyJet e Ryanair il
low cost.
Pretendere che con questa struttura del settore Alitalia potesse competere da sola contro le tre maggiori compagnie, partendo da un mercato domestico tra i più deboli in Europa, e con azionisti senza capitali, è stata una follia. Pretendere di competere anche nel
low cost,
trasformando AirOne, un’altra follia. Aver acquistato Air One, in difficoltà, la follia più grande, servita solo a far rientrare le banche dall’esposizione verso la compagnia di Toto, e assicurarsi il monopolio sulla Milano-Roma.
Su questo monopolio si è puntato tutto per mascherare
la follia iniziale, anche a costo di derogare alla legge Antitrust e fare incetta di slot a Linate cercando di comperare le altre compagnie in dissesto (oltre ad AirOne, Volare e WindJet). Ma non si è prevista la concorrenza dei treni veloci, che ha messo in crisi il monopolio ben prima dell’Antitrust.
Poi si è puntato su Fiumicino come
hub,
pur avendo la clientela potenziale per le tratte più remunerative a Milano, mantenendo inutilizzati gli slot a Malpensa per ostacolare la concorrenza e vendendo, per fare cassa, quelli preziosi, a Londra.
Infine, si è fatto il papocchio dell’italianità, invece di vendere subito Alitalia. Peggio: facendo entrare Air France, le è stato concesso di fatto un diritto di prelazione, gratis, a rilevare in futuro Alitalia, pregiudicandosi così la possibilità di metterla all’asta per incassare il premio di controllo. Purtroppo la compagnia francese è anche quella nelle condizioni peggiori di fare la miglior offerta: soltanto in tre degli ultimi 15 anni è riuscita a generare un cash flow positivo, e perderà quasi un miliardo nel 2012. Insomma, un vero capolavoro.