Umberto Broccoli, Sette 9/11/2012, 9 novembre 2012
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Danimarca
VERSO L’EUROPA UNITA CON LA 500 PAGATA A RATE
1958, l’anno in cui sembra di volare. La ricostruzione a rate, l’Italia va bene, arrivano tante novità. Canzoni americane, juke box: nel 1958 lo stipendio di un ufficiale dell’esercito è di circa centomila lire al mese. Alle famiglie italiane si offriva la possibilità di comperare a rate una Fiat 500. Era stata lanciata sul mercato l’anno prima, nel 1957. E a novembre di quell’anno: offerta speciale. La 500 si poteva portare a casa con 395mila lire anche a rate. Firmando il contratto a novembre del 1957, la 500 era a casa sotto l’albero di Natale, per iniziare così il nuovo anno: un calcolo perfetto, in previsione delle tredicesime. Gli italiani non se ne accorgono, ma sta partendo quel fenomeno chiamato boom dai posteri. Una traccia evidente è in una trasmissione di Sergio Zavoli, in onda sul primo programma della radio lunedì 27 gennaio 1958, alle 22.30. Zavoli racconta un fatto, apparentemente secondario, ma sostanzialmente legato a un cambiamento epocale del nostro Paese: lo stato di avanzamento del cantiere per costruire l’Autostrada del Sole. Zavoli parla con Enzo Arciprete, ingegnere, responsabile dei lavori nel tratto Capua-Napoli. Parola di Sergio Zavoli: «L’opera più imponente per lunghezza di percorso e per gli scopi cui è destinata è la Milano-Roma-Napoli, più comunemente chiamata Autostrada del Sole. Lo sviluppo complessivo sarà di 738 chilometri. Per tutta la sua lunghezza l’autostrada sarà a due carreggiate larghe metri 7,50, capaci ciascuna di contenere due file di veicoli e separate da uno spartitraffico di tre metri di larghezza. Aggiorniamo le notizie relative all’andamento dei lavori in alcuni tratti del tronco. Questa è la situazione del segmento che allaccia Modena a Vado. Risponde alle nostre domande l’ingegnere Enzo Arciprete». Risponde il tecnico: «Il tronco affidato alla nostra zona può dividersi in due tratti con caratteristiche ben distinte; il tratto Modena-Bologna completamente pianeggiante si svolge tutto in rilevato sulla pianura circostante; il tratto Bologna-Vado che si addentra nei primi contrafforti dell’Appennino lungo il fiume Reno e il torrente Setta con notevoli scavi in roccia e opere d’arte più importanti». Chi ascoltava la radio, forse, non si rendeva conto della portata rivoluzionaria di questi minuti di trasmissione. Due anni prima (nel 1956) era nata la Società Autostrade, per realizzare la Milano-Roma-Napoli, l’Autostrada del Sole. Oggi è tutto naturale, ma viaggiare, in quell’Italia del dopo-dopoguerra era un impresa simile in tutto e per tutto ai pellegrinaggi medievali.
Col fiasco al seguito. Il pellegrino, per venire al Limina Beati Petri (a S. Pietro in Vaticano) doveva superare di tutto: strade impossibili, osti impossibili, percorsi impossibili, aggressioni, rapine e furti possibili, possibilissimi. Poi, a piedi (o al massimo, a cavallo) cercava di raggiungere la destinazione. Prima dell’Autostrada del Sole, si viaggiava in automobile, ma era un’impresa. Se da Roma dovevi andare a Firenze, la previsione era necessariamente dalle otto alle dieci ore di viaggio: lungo la via Cassia, con una media di qualche decina di chilometri all’ora e non di più. Inevitabilmente, affrontando un passo come quello di Radicofani, l’acqua del radiatore bolliva. Per cui ti dovevi fermare e aggiungere acqua fresca al radiatore. Infatti si viaggiava con fiasco al seguito: il fiasco del vino, con tanto di paglia di supporto e serviva per essere riempito con l’acqua di una fontanella o di un torrente e integrare l’acqua bollente del motore. Inevitabilmente, poi, spuntava fuori un parente, esperto di viaggi, ed esperto di scorciatoie su vie vicinali con le quali si potevano evitare gli autocarri o i trattori, diminuendo la noia di un viaggio in fila indiana, affumicati dallo scappamento. E allora erano dolori. Perché per risparmiare strada e tempo, si infilavano carrozzabili incerte, dove non incontravi mezzi ingombranti, ma potevi finire in un gregge di pecore. Non ti restava che il pranzo in un’osteria di viaggio. Qui, puntualmente, mangiavi male e pagavi tanto, per rimetterti in cammino stordito dalla cucina casareccia, conclamata dal parente esperto di strade e trattorie sulle strade. A Firenze, dopo mezza giornata di viaggio, avresti rimpianto il treno o i tempi del trisavolo, quando – con la carrozza – ci si metteva una settimana, ma si arrivava riposati, dopo aver cambiato vestiti e cavalli nelle stazioni di posta.
Il cammello di Renato. 1958, anno del volare e del trionfo dell’era del petrolio: celebrato anche da Renato Carosone, il grande. È del 1958, Caravan petrol. E anche in questa canzone c’è più di un riflesso della situazione generale: tutti alla ricerca affannosa e affannata dell’oro nero, il petrolio. Protagonista unto della rivoluzione in atto, simbolo scuro del cambiamento: la società volava correndo sulle quattro ruote delle automobili, dopo aver marciato inutilmente verso la guerra. E quel «comme si’ bbello / a cavallo a ’stu camello / co binocolo a tracolla / co turbante e ’o narghile’! / uhe’, si’ curiuso / mentre scave ’stu pertuso, / scordatella, nun e’ cosa! / cca’ ’o petrolio nun ce sta’! / allah! allah! allah! / ma chi t’ha fatto fa?» è uno sberleffo potente e anticipatore dei tempi a venire: i tempi in cui il petrolio scarseggerà. Carosone, scherzando, guardava ben al di là della fine dei suoi Anni Cinquanta: guardava fino ai nostri giorni, alla ricerca dell’energia sostitutiva del petrolio.
La radio aveva trentaquattro anni, la televisione quattro: ma anche l’Europa aveva un anno. Il 25 marzo del 1957 erano stati firmati i Trattati di Roma. Anche in questo caso si volava, vivendo una grande accelerazione storica: tredici anni prima, quasi non esisteva più il mondo e l’Europa era uscita frammentata dalla guerra. Ora il mondo si considerava la casa di tutti e si parlava di Europa Unita. Così Giuseppe Pella, gran democristiano, ministro degli Affari Esteri, il 25 marzo 1958, a un anno esatto dalla firma dei Trattati di Roma: «Riscriviamo pure signori la data del 25 marzo nei fasti delle nostre nazioni. Facciamo che i nostri popoli guardino alla giornata del 25 marzo come alla data di nascita dell’Europa Unita. Che tale ricorrenza annuale, che ben potrà chiamarsi in tutti i nostri Paesi la Giornata dell’Europa, consacri, signori, un impegno di governanti e di popoli di portare a buon fine l’opera così felicemente intrapresa». C’era voglia di guardare avanti. Autostrade, automobili, Europa Unita, benessere, la lira avviata a diventare una moneta importante: prima a bassa voce, poi a voce sempre più forte si pensava alla parola boom, quasi un nuovo Rinascimento. Si riscopre la voglia di andare al cinematografo (si chiamava così), nelle sale di prima, seconda e terza visione, nonché nelle sale parrocchiali. I ragazzi fischiettano una colonna sonora di un successo del 1958: è Il ponte sul fiume Kwai di Alford. Non ci si può permettere la prima visione: costa troppo. Per cui si aspetta il tempo necessario, perché il film di successo scenda via via nella programmazione e arrivi in seconda e in terza visione: alle sale parrocchiali, ovviamente, erano riservate solo certe proiezioni. I ragazzi fantasticavano comunque, sfogliando la pagina dei cinematografi sui quotidiani. C’erano film di guerra, con la guerra a tredici anni di distanza. Al Capitol di Roma Ordine segreto del Terzo Reich, sottolineato dallo slogan «grande successo di pubblico e di critica del capolavoro di Robert Siodmak».
Dallo spazio con terrore. Nel 1958 si guardava allo spazio e, undici anni prima, erano stati avvistati i primi dischi volanti. Per cui, terrore anche sugli schermi: sempre a Roma, all’Excelsior La morte viene dallo spazio. E le notti erano insonni, perché si viveva con la paura di avvistare luci strane, accanto a luna e stelle. E, nella stessa locandina dell’Excelsior, si annuncia prossima l’uscita di un film italiano, definito «unico nel suo genere». Era settembre del 1958 e di lì a poco sarebbe andato in sala I soliti ignoti. I ragazzi della capitale potevano scegliere: all’Ambrosiano Quo vadis? e sempre al Capitol «prossimamente Brigitte Bardot» in Piace a troppi, mentre all’Ambasciatori Glenn Ford e Jack Lemmon in Cowboy. Un’occhiata anche ai teatri: Chiamate Arturo 777 con Macario e Marisa Del Frate e, al Teatro Nuovo, Luchino Visconti presenta Paolo Stoppa, e Rina Morelli in L’impresario delle Smirne di Carlo Goldoni. Attenzione: si affaccia una rivale pericolosa. Signore e signori, la televisione! È totalmente inutile parlare ancora del successo strepitoso di Mike Bongiorno e il suo Lascia o raddoppia?. Ma è anche l’anno del trionfo di Mario Riva, al secolo Mariuccio Bonavolontà, presentatore de Il musichiere, firmato dai due padri unici della commedia musicale italiana: Garinei e Giovannini. La trasmissione aveva debuttato un anno prima e si era affermata subito con quelle caratteristiche proprie del successo televisivo di allora. Il televisore era un elettrodomestico abbastanza costoso. A rate c’è chi se lo voleva permettere. Immediatamente quella famiglia diventa centro di attrazione del palazzo, del condominio e, talvolta, del quartiere. Si andava a vedere altrove la televisione: a casa d’altri, volendo evitare quella del bar, dove – per assistere – era comunque necessaria la consumazione. La televisione, al suo esordio, è un altro elemento socializzante. Quando le annunciatrici (le “signorine buonasera”) salutano, in coro si risponde «buonasera» come se loro fossero là, insieme al pubblico. È cinematografo domestico e quei divi nuovi diventano familiari: nuovi penati, in quell’altare con lo schermo di vetro scuro, tenuto coperto durante il giorno, acceso solo dal capofamiglia, l’unico abilitato a far scattare l’interruttore dello stabilizzatore, in basso, sul pavimento. Dopodiché tutti aspettavano la materializzazione delle immagini: prima un puntino luminoso, poi un effetto latte, poi righe a volontà (per cui il capofamiglia interveniva sulla sintonia, peggiorando il tutto), poi – miracolo – si affacciava il volto bonario di Mario Riva, diventato subito il parente di tutti. Zio per i bambini, cugino per gli adulti. Cantava e faceva cantare: «Domenica è sempre domenica / se sveglia la città con le campane / al primo din don del Gianicolo / Sant’Angelo risponde din don dan / domenica è sempre domenica / e appena ognuno si risveglierà / felice sarà e spenderà / sti’ quattro soldi de felicità». D’accordo: era romacentrica. D’accordo: usava il romanesco sia pur ingentilito. Ma Domenica è sempre domenica (sigla de Il musichiere, firmata anche dal lombardo Gorni Kramer con Garinei e Giovannini) rappresentava bene le atmosfere di quegli anni: il giorno di festa, con i risvegli lenti, la messa domenicale (anche per i non devoti), le paste comperate al forno, le visite ai parenti, i vestiti buoni del giorno di festa (c’era il vestito di tutti i giorni e quello speciale: stop), le fettuccine al sugo di carne, la carne nel piatto «una volta alla settimana, alla domenica», l’attesa del domani-domani e del domani-prossimo-venturo. Domenica è sempre domenica sa di campane e campanili, di paese cittadino in un’Italia in volo verso il futuro. Già: ma il 1958 è l’anno di Nel blu dipinto di blu. E non meraviglia: in un anno così rivoluzionario, anche la musica leggera ha il suo piccolo grande sconvolgimento.
Balcone con vista sul domani. 1958, un anno affacciato sul futuro. Nel blu dipinto di blu: quale miglior motivo musicale per sottolineare questo balcone in vista del domani? Ancora una volta ci si schiera tra conservatori e progressisti. È fin troppo chiaro immaginare la rivoluzione di Nel blu dipinto di blu affacciata sul futuro progressista, mentre i conservatori, gli amanti del bel canto all’italiana, erano saldamente avvinti «come l’edera» alla tradizione della melodia, della rima «cuore-amore», del cantar castigato con la mano destra sul petto, unico elemento del linguaggio del corpo a tradire la passione. Sanremo, 31 gennaio 1958, prima classificata Nel blu dipinto di blu cantata da Domenico Modugno e Johnny Dorelli, seconda classificata L’edera cantata da Nilla Pizzi e Tonina Torrielli. Ecco le due Italie in scena a Sanremo: trasmesso alla radio ma anche in televisione. Mancano pochi minuti all’una di notte, quando viene annunciato il vincitore del Festival di Sanremo 1958: Domenico Modugno esplode di gioia e abbraccia ora Johnny Dorelli ora Franco Migliacci, un giovanotto esangue, biondo, con un gran naso dantesco, che aveva fatto, disfatto e reimpastato le parole di Nel blu dipinto di blu. «Volare oh oh / cantare oh oh…». Domenico Modugno trionfa e Nel blu dipinto di blu per tutto il mondo sarà Volare, così come Modugno diventerà Mister Volare.
Abolire gli schemi, dare sfogo alle emozioni, è da sempre il sogno di chi vive compresso fra schemi ed emozioni represse, per cui la voglia di libertà si può rintracciare ovunque. Il mondo della canzone italiana viveva «avvinto come l’edera», «Son qui tra le tue braccia ancora avvinta come l’edera…» e le parole delle canzoni parlavano di mamme e ci si compiaceva nell’immaginare una storia d’amore avvinta «tra le braccia» del proprio uomo. Del resto L’edera sarà avvinta al secondo posto. Fino a quando non arriva un signore che ci costringe ad alzar la testa. Il cielo è blu ed è da sempre il simbolo della libertà: «Nel blu dipinto di blu / felice di stare lassù». Franco Migliacci racconta che lui e Modugno erano seduti davanti a un quadro di Marc Chagall, pare fosse Le coq rouge. C’era un omino sospeso a mezz’aria che sembrava volare nel cielo. «Volare, oh oh!», canta Modugno, «Cantare, oh oh oh oh!», risponde Migliacci. Nasce Volare. E da quel momento l’Italia vola verso il boom economico. E l’opinione pubblica si divide in due. È polemica forte verso questo nuovo modo di cantare: una polemica senza fronti e senza risparmio. Un grande come Gorni Kramer dice testualmente: «Ma che pazzia è questa canzone: non ha stile, non esiste». E invece sarà tradotta in un’infinità di lingue, cantata da altrettanti interpreti, considerata rappresentativa del nostro Paese quasi quanto ’O sole mio. E anche il modo di cantare di Modugno romperà ogni schema: quelle braccia larghe, ad abbracciare il mondo, aperte verso il mondo, spalancate verso il futuro. A Fregene, sul mare di Roma, Ennio Flaiano riempie pagine di appunti: aveva appena scritto Una e una notte. Con Federico Fellini trasformerà questi appunti in un film iniziato a scrivere proprio in quei momenti: si chiamerà La dolce vita. In quello scorcio di Anni Cinquanta si diffonde sempre di più la consuetudine di farsi i fatti degli altri, non riuscendo a farsi i fatti propri. Sbucano i paparazzi, perché c’è un interesse crescente per la vita quotidiana dei Vip: si affermano i settimanali specializzati in cronaca rosa e anche i quotidiani iniziano a raccontare i fatterelli, accanto ai fatti. «Gabriele Ferzetti si sposa a San Marino con la signorina Maria Grazia Eminente, figlia ventenne di un noto commercialista milanese», si legge con «Sophia Loren ha iniziato a Hollywood il suo terzo film americano, accanto a Anthony Quinn. L’orchidea nera è prodotto da Carlo Ponti e da Marcello Girosi». Ma c’è dell’altro, sintomo evidente dei tempi cambiati: «Ava Gardner e Walter Chiari sorpresi giovedì scorso in un noto ristorante nei pressi di Piazza Navona, per evitare di essere fotografati insieme hanno dovuto compiere una movimentata e cinematografica fuga». I tempi sono cambiati, perché ora si trova spazio per l’evasione, per il pettegolezzo leggero, per entrare – sia pur da spettatori – nel privato dei divi. Questa curiosità è sempre esistita, figlia del dualismo storico tra storia ufficiale e storia segreta. Ma, tredici anni prima, nel 1945, non era certo il primo problema sapere tutto del divo del momento: era prioritario sapere come campare all’indomani. Ma ora, il domani sembrava migliore e, tutto sommato, in quel 1958 non guastava leggere: «Abbe Lane è arrivata a Roma in incognito per una breve vacanza. Si esclude che la bella Abbe possa tornare sugli schermi della televisione italiana. Non approva i “mutandoni della nonna” imposti ad ogni bella donna che voglia comparire sui nostri teleschermi». Era l’eco di un piccolo scandalo televisivo. Abbe, moglie stupefacente di Xavier Cugat (non bello altrettanto, ma simpatico, si direbbe), amava mostrare in televisione quanto in televisione era assolutamente vietato mostrare. In una trasmissione, addirittura, viene obbligata a mettere un fiore nella scollatura, troppo vistosa: ottenendo l’effetto contrario, perché tutti guardavano il fiore e le colline in fiore. Pettegolezzo leggero: sui divi dello spettacolo, ma anche sui politici. Dai rotocalchi di allora. Agosto 1958: «Il comandante Achille Lauro è in vacanza a Fiuggi, dove si trova anche l’ex presidente del Consiglio onorevole Mario Scelba. Lasciando da parte le divergenze politiche esistenti tra loro, Lauro e Scelba si battono ogni giorno in lunghe partite di bocce ed il più abile risulta essere Scelba!». Contrapposti erano due nomi grandi della politica di allora: Mario Scelba a Achille Lauro. L’uno democristiano, rigoroso, antifascista, padre della legge Scelba, contro la ricostituzione del partito fascista; l’altro monarchico, populista, padre padrone di Napoli della ricostruzione e dei voti acquisiti – narra la leggenda – regalando pacchi di pasta e metà banconota (l’altra metà a elezioni vinte).
La collegiale e il re. Il futuro è donna e quel 1958 guarda al futuro e – come ogni anno nella storia dell’uomo – guarda alle donne. Ne abbiamo già incontrate tante Ava Gardner, Abbe Lane, Sophia Loren: non manca lei, Marilyn Monroe. Si legge: «A distanza di un mese dalle prove dei costumi di A qualcuno piace caldo Marilyn si è accorta di entrare a malapena negli abiti. Una nuova maternità per l’attrice?». E accanto a tutte queste belle donne, in quel 1958, nel marzo 1958 esplode il caso Soraya. Viene ripudiata dal marito, lo scià di Persia, perché non riusciva ad avere figli. Così Oriana Fallaci commentava questa notizia, dalla Persia in volo per tutto il mondo. «La storia d’amore tra lo scià di Persia e Soraya è finita. Non potevano restare uniti di più: lui era solo un re che non poteva appagarsi di una moglie difficile e guardava le altre: lei era solo una donna che non sopportava lo squallore di una capitale troppo lontana dai night clubs di Roma, dagli ateliers di Parigi, dal mare caldo di Cannes, dai campi di sci di Saint Moritz. Non fu per amore che i due si sposarono. Dopo il divorzio da Fauzia tutti s’erano preoccupati di trovargli una moglie. Lo scià era nervoso, andava dietro alle donne, e collezionava avventure non proprio degne di un re. A corte si mormorava, i vecchi del Consiglio erano preoccupati anche perché ormai era necessario un erede. Così la madre, Melekek Mader, gli mise sotto il naso la fotografia di una collegiale: Soraya. Ben fatta, pura come una mammola, si muoveva con l’alterigia che si conviene alle regine. E Reza Pahlavi mandò sua sorella a conoscerla e Soraya fu invitata a palazzo. Dopo mezz’ora il matrimonio fu deciso. Allo scià piacevano le belle donne. A Soraya piacevano i re». Il 12 maggio del 1951 lo scià sposa quella ragazzina bellissima. Un matrimonio da favola in una dimensione orientale con la partecipazione di mezzo mondo, innamorato di quella bambina scura con gli occhi scuri, proiettata in un attimo dal mondo delle bambole a quello delle favole. Le favole in cui le principesse sono piccole e belle e volano via, in Oriente, tra le braccia di un imperatore. Soraya vola via a diciotto anni tra le braccia di Mohammad Reza Pahlavi. Il mondo sogna e (in quel mondo) sognano di più le donne di Occidente, seguendo la fortuna di quella bimba imperatrice, padrona dei profumi delle notti d’Oriente. Soraya vola in quel 1958 destinato a volare. Ma i sogni hanno un destino chiaro: finiscono. Come del resto tutti i sogni delle notti di Oriente e Occidente. E l’alba arriva a Teheran, limpidissima e senza una nuvola il 14 marzo del 1958. «Soraya è sterile e non può garantire una discendenza all’imperatore». Quindi, si ripudia, a 25 anni, declassata al rango di principessa imperiale, con un vitalizio e un passaporto diplomatico. Fine del sogno. Fine del volo. Era destino. E Paul Anka in quel 1958 canta Destiny. Tutto il mondo parlava di questo destino infelice di Soraya. Ne parlavano re e regine, capi di governo e autorità di tutti gli Stati ed era il discorso preferito, di sera, a tavola, nelle notti semplici della vita quotidiana di molti. Anno affacciato sul futuro, anno di grandi cambiamenti, anno in volo verso avvenimenti ritenuti a quel tempo rivoluzionari e ancora la donna in primo piano nella società e nelle canzoni di quel 1958. Fred Buscaglione canta Che bambola: la donna è ancora inevitabilmente bambola. Ma se sorella o promessa sposa, sarà altrettanto inevitabilmente angelicata: se donna d’altri, sola, e con idee affacciate sul futuro altrettanto inevitabilmente sarà etichettata come leggera per non dire altro. Comunque: «Donna, tutto si fa per te, / tutto, pur di piacere a te. / Tutto per un sorriso / e per un sì e per un no, per te./ Perché sei donna, gioia di vivere, / donna, favola splendida. / Sei tu, solo tu, quel desiderio / che l’uomo chiama amor». Cantano così Tata Giacobetti, Virgilio Savona, Felice Chiusano e Lucia Mannucci (il Quartetto Cetra), nella commedia musicale Un trapezio per Lisistrata, sempre di Garinei-Giovannini e Kramer e sempre nel 1958. È l’immagine tradizionale, ben lontana dalla trasgressione di Paul Anka e i suoi amori per donne molto più anziane. È la contraddizione del 1958, affacciato sul futuro, ma saldamente ancorato nella tradizione: è come un’automobile in corsa, ma necessariamente legata allo specchietto retrovisore (anche perché non si va avanti senza specchietto retrovisore). Ma se da una parte si propone lo schema solito, dall’altra, al tempo stesso, c’è chi canta l’impossibile. Domenico Modugno, sempre lui e sempre nel 1958 porta al successo Resta cu ’mme, di Dino Verde. È la supplica di un uomo abbandonato: vorrebbe restare sempre con la sua donna. Dino viveva una situazione sentimentale complessa e, di getto, scrive i versi di questa canzone. In napoletano supplica la sua donna di non lasciarlo, di farlo penare, di farlo soffrire, ma di continuare a stare con lui. Un verso è emblematico: «Vita ’dda vita mia / nun ’me ’mporta do passato / nun ’me ’mporta e chi t’ha avuto / resta cu’... mme... / cu... ’mme». È incredibile: «non mi importa del tuo passato, non mi importa con chi sei stata». Tutto questo non era ammissibile in quell’Italia del 1958, nell’Italia dell’adulterio punito come reato, nell’Italia del delitto d’onore quasi tollerato, della gelosia maschile retroattiva, della donna vergine al matrimonio e via conservando. Come si poteva in un’Italia del genere sostenere «Nun ’me ’mporta do passato / nun ’me ’mporta e chi t’ avuto»? E infatti, non si poteva e il verso di Verde viene censurato se trasmesso in radio o in televisione: diventerà «Nun ’me ’mporta do passato / troppe lacrime m’ha dato». Ma per fortuna, la censura sarà presto ricensurata: il bello detesta la foglia di fico.
Case chiuse addio. È se il 20 settembre 1870 i bersaglieri a cannonate sfondano le mura vicino Porta Pia e finisce il potere temporale del papa, il 20 settembre 1958 si chiudono le porte delle case chiuse: il 20 settembre 1958 entra in vigore la legge Merlin. Primo Paese a chiudere quelle case fu la Gran Bretagna nel 1875, vent’anni dopo la Norvegia, nel 1901 la Danimarca, nel 1907 la Finlandia, nel 1912 la Bulgaria, poi la Russia, la Svezia, la Francia, il Belgio, l’Egitto, la Spagna e il Giappone. E quindi l’Italia. La senatrice Merlin presenta per la prima volta il suo disegno di legge il 6 agosto 1948 e gli studenti nel ’50 le gridano: «Lina vai a fare la calza». Quella donna parlava di diritti femminili calpestati, fra fischi e canzonature da parte dei suoi colleghi maschietti. Le case si chiudono ma il fenomeno non scompare: dalla casa scende in strada. Così Ugo Zatterin il 20 settembre 1958 al telegiornale: «Poco prima che Togliatti aprisse con un discorso fiume un dibattito sulla politica estera che terrà impegnata per alcuni giorni la Camera, i deputati hanno approvato con 385 sì, 115 no la famosa legge Merlin. Finisce così senza più possibilità di appello la questione decennale apertasi esattamente il 6 agosto 1948. l’Italia era ormai l’unico Paese d’Europa in cui il problema sollevato dalla senatrice Merlin non fosse ancora stato risolto. Anche di recente l’Onu aveva sollecitato l’Italia perché lo risolvesse dato che il suo statuto impone a tutti i Paesi membri di adottare una soluzione come quella che è stata finalmente adottata. La legge Merlin prevede che le sue norme vengano applicate entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge stessa, e siccome la legge entra in vigore 15 giorni dopo essere stata pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale”, si può calcolare grossomodo che il nuovo corso incominci dal prossimo settembre. Insomma il canto del cigno si avrà intorno a Ferragosto. Gravissime pene penderanno sul capo di coloro che tentassero di riorganizzare ciò che la senatrice Merlin ha voluto distruggere. Le pene sono, dicevo, piuttosto grosse: multe da 100.000 lire a 4.000.000, carcere da due a sei anni con molti motivi per raddoppiare sia il carcere che le multe. Un codicillo riguarda i pappagalli e perché no le pappagalle della strada: per essi sono previste multe da 500 lire a 2.000 lire e arresto fino a 8 giorni. Una nuova polizia femminile a poco a poco sostituirà quella maschile per far rispettare le nuove e le vecchie disposizioni in materia di buon costume». È un capolavoro della televisione di quel 1958. Zatterin, un maestro di giornalismo e diplomazia, è chiamato a commentare l’entrata in vigore della legge. Deve essere esplicito, ma non troppo. Deve dire e non dire insieme. Deve informare tenendo presente come la televisione entri ovunque, nelle case e nei conventi via via fino alle stanze sacre del Vaticano. Anzi Pio XII quattro anni prima, quando la televisione debuttava, si era raccomandato con un messaggio, sottolineando proprio il potere di un mezzo del genere. Per cui Ugo Zatterin avrà immaginato il papa in persona ad ascoltare la notizia del telegiornale. E quindi non un accenno diretto alla prostituzione, alle prostitute, alla clientela. Ma tutto è metafora, giro di parole, allusione indiretta. Un commento figlio del codice Guala, le regole scritte a governare il linguaggio radiotelevisivo, secondo le quali era vietato l’uso di “cazzotto”, “membro”: figuriamoci prostitute e case chiuse.
29 settembre 1958. Il papa Pio XII sta male. Avrebbe dovuto mantenere uno stato di riposo assoluto. Ma il papa ha continuato il suo lavoro. Lunedì 6 ottobre il papa peggiora: è a Castel Gandolfo. Pallidissimo, ha il respiro affannato e la fronte imperlata di sudore. Davanti al portone della residenza estiva del pontefice si affollano fedeli, giornalisti e fotografi. Tra i primi ad accorrere sono il cardinale vicario Picara, i familiari del papa, monsignor dell’Acqua e numerosi diplomatici. 9 ottobre 1958 ore 3.56: la Radio Vaticana comunica ai cattolici e al mondo che Sua Santità Pio XII, dopo lunga agonia, è morto nel palazzo pontificio di Castel Gandolfo. Questa è la notizia, annunciata da padre Pellegrino: «Con animo profondamente rattristato vi diamo ora alle tre e cinquantasei il seguente annuncio: il Sommo Pontefice Pio XII è morto. Pio XII l’uomo più stimato e venerato nel mondo, uno dei più grandi pontefici del secolo è spirato santamente alle tre e cinquantadue di oggi 9 ottobre 1958». Era il papa della guerra, del bombardamento di San Lorenzo, il papa ieratico, quasi lontano dai fedeli, anche se tutti avevano negli occhi della mente il ricordo della sua tunica macchiata di sangue proprio durante il sopralluogo a S. Lorenzo fuori le mura bombardata. Ma l’emozione era forte e il lutto molto presente in radio, in televisione, nei teatri e nei cinema. Per giorni e giorni niente spettacoli, niente canzonette, niente divertimento. Poi il rito consueto. I funerali, il conclave, l’elezione di un altro papa. La gente segue tutte queste vicende con i nuovi mezzi di comunicazione del dopoguerra, radio e televisione. E sarà la radio ancora una volta a dare per prima l’annuncio dell’elezione del nuovo papa: Angelo Roncalli. Parla il protodiacono: «Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam. Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Angelum Josephum Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Roncalli». La radio continua a diffondere emozioni e, sempre grazie alla radio, in tutto il mondo qualche giorno dopo, il 4 novembre, arriva la sua voce, la voce del papa, diventato quasi subito per tutti il papa buono. Benedice la città e il mondo: era la sua prima benedizione Urbi et Orbi. Con una voce inconfondibile, ha segnato tutta una generazione di uomini, allora bambini in quel 1958: credenti e non credenti, fedeli e non fedeli. Il papa dei bambini, il papa buono, il papa della gente. Quel papa legato a parole così poco austere, così poco tradizionali. Parole dette spesso a braccio senza un foglio davanti. Parole semplici, dirette al cuore della gente, comprensibili (proprio per questo) anche dai bambini. Sembrava un nonno parroco, alla buona. Ed era così simpatico, spiritoso, molto differente dal suo predecessore. Egli, Pio XII, appariva immobile, ieratico, quasi medievale. L’altro, Giovanni XXIII, non lo ricordiamo se non tra la gente, tra i malati, tra i bambini, tra i carcerati. Sorridente, mentre stringe e si lascia sopraffare da quelle mani tese, alla ricerca di un contatto materiale, per garantire all’anima una scorciatoia spirituale verso una vita diversa da quella sofferta quotidianamente. Si lasciava sopraffare, perché si lasciava capire da chi cercava quella scorciatoia.
Due papi e una luna piena. E – naturalmente – non lo capivano in molti nella Curia alta di Roma: «Troppo popolare, troppo semplice, troppo poco pontefice», sussurravano i corridoi delle stanze segrete. E quando quel papa decide di misurare tutta la Chiesa con le parole del Concilio, quegli spifferi diventano sempre più insistenti, uscendo dai palazzi apostolici per entrare in quelli della politica, della nobiltà, colorati talvolta di porpora, talaltra di grigio scuro in doppiopetto. E invece quel papa conquistava tutti: credenti e non credenti, fedeli e non fedeli, i bambini, la gente senza porpora, senza doppiopetto.
Poi, a scuola, anni dopo, nel 1963, d’estate si diffonde la notizia. «Il papa è malato, molto malato». Non ci si voleva credere. Non era possibile. Era incredibile. E tutti, credenti e non credenti, fedeli e non fedeli rifiutavano la possibilità di non vedere più quel papa del discorso improvvisato alla luna. Quel discorso fatto, perché la gente si era radunata in piazza San Pietro, di sera, scintillante e illuminata da una luna incredibile. Non voleva parlare, non voleva affacciarsi. E quando sa della sua gente radunata sotto la luna e sotto la sua finestra, si lascia convincere da Loris Capovilla e parla. Parla alla gente in piazza, illuminata dalla luna: «Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera… Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo… Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete forse qualche lacrima da asciugare: dite una parola buona. Il papa è con noi». Eravamo quei bambini cui proprio lui aveva dato quella carezza durante il discorso della luna. Aspettavamo le vacanze, quel 3 giugno 1963, quando è ufficiale la notizia: il papa è morto. Era morto il papa della carezza a noi bambini. Di sera, radio e televisione interrompono le trasmissioni: quella sera le lacrime, naturali, non nascevano dal fumo della sigaretta del disco dei Platters del 1958. Ma dal ricordo di quella carezza del papa, ricevuta di sera, in una notte di luna piena.
(Fine)
Umberto Broccoli