Rocco Cotroneo, Sette 9/11/2012, 9 novembre 2012
“EL MODELO” ARGENTINO HA RIPORTATO IN VITA
ANCHE IL MERCATO NERO–
Javier, Tomás, Pedro e gli altri 300 giovani marinai della nave scuola Libertad erano ancora sui banchi delle elementari nel 2002, quando la loro amata patria, l’Argentina, divenne la terra del default. Sprofondati nella crisi economica, a Buenos Aires decisero che ottantuno miliardi di dollari non sarebbero più stati rimborsati a grandi e piccoli creditori, tra cui decine di migliaia di italiani. I famigerati tango bonds. Da quella figuraccia globale alla frustrazione che i ragazzi della Libertad stanno vivendo in queste ore: la loro nave, gioiello della Marina militare argentina, è bloccata dal 2 ottobre scorso nel porto di Tema, nel Ghana, a causa dell’azione giudiziaria di un fondo di investimento americano che detiene bonds del vecchio debito. Cristina Kirchner ha rifiutato di trattare, la fregata non può muoversi e gli allievi militari sono stati rimpatriati, abbandonando la gloriosa imbarcazione a un destino incerto. Per andarli a prendere in Africa, il governo ha dovuto affittare un aereo dell’Air France. Se ne avesse usato uno della Aerolineas, la compagnia di bandiera, di proprietà dello Stato, c’era il rischio che un giudice mettesse i ceppi anche a quello, subito dopo l’atterraggio.
L’ostinazione di Cristina contro gli ultimi creditori del 2002 (i cosiddetti fondi avvoltoio che hanno rifiutato due offerte di concambio e continuano la guerra attraverso sofisticati studi legali di New York) segue una linea: tra la dignità nazionale e la fregata Libertad non c’è storia, ha detto la “presidenta”, tenetevi pure la nave. Che protestino pure commentatori, giornali d’opposizione ed economisti: “el modelo”, come lo chiamano da un decennio i Kirchner, prima Nestor poi la moglie, non si cambia. Come il peronismo al quale i due si richiamano, inimitabile miscela di contraddizioni in politica ed economia, così il modello K non smette di stupire. «L’umiliante situazione della Libertad, prigioniera in un porto straniero», ha scritto l’economista Aldo Abram su La Nación, «è un’immagine che rappresenta chiaramente i limiti crescenti alla libertà dei quali soffriamo in Argentina». Se il default del 2002 e la rottura con gli organismi internazionali almeno erano giustificati dalla necessità di tirar fuori l’Argentina da una catastrofe senza precedenti, l’accelerazione del nuovo capitalismo di Stato è difficile da comprendere e sta creando una frattura ampia all’interno della società. Fino all’ultima e più audace delle scelte, la guerra santa contro il dollaro.
Se il nemico è il sistema bancario. È l’atto finale, una battaglia culturale, come la definisce il governo, e non priva di risvolti di fanatismo. Prima di arrivare al cuore della più argentina delle abitudini, risparmiare in biglietti verdi, i Kirchner avevano già attaccato altri simboli dell’era precedente, quella «dominata dalle banche e dalla speculazione finanziaria». Nell’ordine le privatizzazioni, in buona parte annullate; la previdenza privata, abolita per decreto; la stabilità dei prezzi, resa impossibile oggi dall’eccesso di spesa pubblica e dalla manipolazione dei dati sull’inflazione, e altro ancora. Tutte misure che il passaggio di consegne tra Nestor e Cristina ha accentuato, con un’ulteriore spinta quando il marito è improvvisamente scomparso, due anni fa. Oggi la “presidenta” rimasta sola è sospettata di essersi infatuata di un altro uomo forte, l’amico venezuelano Hugo Chávez. Politicamente, si intende. Dal teorico della rinascita del socialismo ha già preso in prestito alcune discutibili abitudini: l’attacco alla stampa indipendente e la minaccia di chiudere mass media ostili, la pressione sugli imprenditori privati affinché restino in linea con il governo, l’abitudine di parlare in tv a reti unificate su qualsiasi argomento. Fino all’idea che controllare il cambio e manipolare i principi della macroeconomia alla fine paghi. Tanto che Venezuela e Argentina sono i due unici Paesi del continente americano dove è tornato a esistere il cambio nero, come decenni addietro, e l’inflazione è diventata una opinione.
Da un anno, ormai, gli argentini non sono più liberi di cambiare i loro pesos in dollari. Chi ne ha bisogno per viaggiare all’estero deve entrare in una lista d’attesa, e il via libera è a discrezione dell’ufficio cambi. Il biglietto verde ha (aveva) ancora un ruolo importante nella vita di tutti i giorni. Oltre a rappresentare la principale forma di risparmio (e spesso sotto il materasso, letteralmente, dopo i fatti del 2001-2002), la moneta Usa regola l’intero mercato immobiliare, compravendite e affitti, soprattutto nelle grandi città. Anche per altre transazioni di peso gli argentini ragionano in dollari, è un automatismo. La Kirchner sostiene che la stretta è una risposta alla speculazione finanziaria, che si stava accanendo contro il peso e aveva quasi decimato le riserve nazionali in valuta. Se non è il materasso di casa, sono le banche di Miami o Montevideo a raccogliere tutto quel che resta del risparmio degli argentini, sempre timorosi che una nuova catastrofe possa abbattersi sulla loro testa. Oggi dunque l’unico modo per ottenere dollari è rivolgersi al cambista parallelo, un servizio che funziona anche a domicilio, strapagandoli. Se il cambio ufficiale dollaro-peso è attorno a 4,75, quello “blu”, come viene curiosamente chiamato qui, è attorno ai 6,35, oltre il 30 per cento in più.
Viva l’export nazionale. Al binomio tra reale e immaginario, d’altronde, gli argentini sono abituati. L’inflazione ufficiale è al 7 per cento, quella reale al 25%. La rivista britannica Economist si rifiuta da mesi di pubblicare i dati dell’Istat argentina nelle sue tabelle, il Fondo monetario li ha definiti numeri di fantasia. Buenos Aires destino a buon mercato per i turisti di tutto il mondo non esiste più, è diventata una città cara. Sogno finito anche per migliaia di giovani spagnoli e italiani che qui si sono trasferiti negli ultimi anni per sfuggire alla crisi europea. «È passato il tempo in cui si arrivava qui con un paio di migliaia di euro per cominciare e poi si attaccava subito con qualche lavoretto», racconta un ragazzo appena arrivato. Un altro professionista milanese, che vive a Buenos Aires da 12 anni, pensava di aver fatto un affare acquistando due appartamenti nell’elegante quartiere della Recoleta, per 120.000 euro ciascuno. Oggi, ad affittarli, riceve pesos svalutati, e non riesce a venderli. Il mercato delle compravendite è crollato, e lo stesso è avvenuto per l’industria delle costruzioni, che ha già sacrificato migliaia di posti di lavoro. I mugugni dei nostri connazionali si estendono anche al più sacro dei diritti, l’acquisto di prodotti importati dall’Italia, primo tra tutti la pasta. Oggi sono difficili da trovare o carissimi. Perché un altro caposaldo dell’economia di Cristina è scoraggiare qualunque tipo di importazione, per rilanciare le produzioni nazionali. Nonostante gli effetti negativi sull’economia, la sacra missione chiamata desdolarización continua. A chi si ostina a fare acquisti all’estero, usando la carta di credito al posto dei bigliettoni verdi cash, la Kirchner ha rifilato una nuova tassa del 15 per cento su ogni acquisto. Non ci sono previsioni su quando i limiti all’acquisto dei dollari verranno tolti, o se una svalutazione del peso renderà infine inutile il mercato nero. Al ritorno della protesta con le pentole nei quartieri alti di Buenos Aires, i ben noti cazerolazos notturni, la Kirchner ha risposto da vera caudilla: non mi intimorisco, il popolo è con me, non saranno quattro borghesi antipatriottici a fermarmi. Sa di poter vivere ancora di rendita sui risultati dell’economia e i programmi sociali che da anni trasferiscono aiuti ai più poveri, senza sottilizzare troppo sui conti pubblici. Dal 2003 al 2011 l’Argentina è cresciuta in media del 7,7 per cento. Il governo esagera un po’ sui dati sulla povertà, ma è certo che questa è drasticamente caduta rispetto agli anni successivi alla crisi.
“Reina Cristina”, la regina d’Argentina, come l’ha definita una sua biografa, non ha più la popolarità dei primi tempi, ma nemmeno è crollata nei consensi. Ha ceduto anche lei alla tentazione di saltare le intermediazioni della democrazia e rivolgersi direttamente al popolo. Ha deciso che nel nome del marito dovessero intitolarsi ponti, università, centrali elettriche, un torneo di calcio, uno stadio e persino una prigione di massima sicurezza. Ed è sempre tempo di una celebre battuta, coniata mezzo secolo fa: nel mondo esistono tre forme di economia, il capitalismo, il comunismo e poi c’è l’Argentina.
Rocco Cotroneo