Paolo Griseri, la Repubblica 9/11/2012, 9 novembre 2012
LA DIFESA DELLA CAPITALE DEGLI ORAFI “C’È UNA RETE PARALLELA DEI PREZIOSI E PER BATTERLA SERVE LA TRACCIABILITÀ”
Come si risolve il problema dell’oro in nero? «Semplice, con la tracciabilità. Se lei va al supermercato può sapere tutto sulla storia della mozzarella che sta sul bancone. E allora perché quando compra un anello non deve accadere lo stesso?».
Franco Fracchia, presidente di Valenza Events, è l’organizzatore della mostra orafa più importante d’Italia. Sta lavorando nella sede della manifestazione, un palazzo di pietra verde e vetro alla periferia della cittadina dell’alessandrino. Il distretto dei gioielli di Valenza occupa 4-5.000 persone. «Per fortuna, e grazie all’abilità dei nostri artigiani, in questo periodo viviamo soprattutto grazie all’esportazione », dice Francesco Barberis, 37 anni, presidente degli orafi valenzani ed erede di una tradizione familiare quasi centenaria.
L’Italia della crisi non offre molti clienti, e allora la domanda arriva da Oltralpe. Anche per questo motivo la tracciabilità, la possibilità di sapere da dove arriva
l’oro che si acquista in gioielleria, potrebbe essere una soluzione: «Non solo per evitare abusi — dice Barberis — ma anche per difendere la tradizione orafa italiana».
In realtà i primi ad attaccare il made in Italy sono, non di rado, gli stessi italiani. Acquistare partite di gioielli dalla Cina, aggiungere una lavorazione e scrivere «Made in Italy», è un gioco da ragazzi. Così sono le stesse associazioni
degli orafi a chiedere la tracciabilità, per tutelare i loro prodotti: «La Federorafi ha presentato recentemente una proposta di legge», spiega Fracchia. Ma i tempi sono lunghi. Le lobby frenano. Quali lobby? Fracchia e Barberis rispondono con un sorriso: «Anche nel nostro settore ci sono aziende che delocalizzano ». Vale per le aziende e vale anche per i “compro-oro”: «La situazione è completamente sfuggita
da ogni tipo di controllo, aspettiamo una legge chiara e immediata su questi esercizi commerciali», scrive nel suo editoriale Giovanni Micera, direttore della rivista specializzata
Preziosa Magazine.
Non sarà facile. perché dietro i “compro oro”, sussurrano da queste parti, c’è spesso una vera e propria industria fatta di fonderie clandestine, spalloni, trafficanti. E c’è anche chi dice: cosa finisca davvero
nel crogiolo lo sa davvero soltanto chi fonde.
E il punto d’incontro tra l’industria legale e quella illegale sono i banchi metalli, le aziende che fondono l’oro restituendogli la purezza originaria. In quel momento tutto ciò che è accaduto prima sparisce nel crogiolo. La storia più o meno presentabile di un anello o di una collana brucia sul cannello, ai 1.200 gradi necessari per la fusione.
Nel centro di Valenza i “compro oro», sono sistematicamente banditi. Non per legge, ma per orgoglio. Corso Garibaldi e le vie limitrofe pullulano dei negozi dei produttori di gioielli, le fabbriche di anelli, collane, collier. Uno dei più antichi è “Oro Moda” di Franco Cantamessa, sindaco della città ai tempi del Psi. E Cantamessa risponde con ironia: «Se io compro oro? No, io lo lavoro, non sono un rigattiere».
Orgoglio, certo. Ma non solo: «Una volta c’erano i clienti che venivano a portare l’anello della nonna. Magari non piaceva più, lo cambiavano con altri gioielli, pagavano una differenza. Era un modo per fare entrare la gente in negozio». Oggi invece vanno da quello che lei definisce «il rigattiere degli anelli»? «È un pubblico in parte diverso. E, devo dire, ci sono situazioni che preferisco non incontrare. È successo un po’ di anni fa: osservare una persona entrare in negozio, sfilarsi la fede nuziale, gettarla su quel bilancino lì e chiedere la valutazione perché deve pagare il mutuo. Ecco, questo preferisco non vederlo, preferisco che quel mestiere lo faccia qualcun altro».