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 2012  novembre 09 Venerdì calendario

INCUBO GUERRA FREDDA


Se Barack Obama è risultato più convincente di Mitt Romney soprattutto sui temi dell’economia e delle politiche sociali, e per questo gli americani lo hanno premiato, d’ora in poi la politica estera dovrà occupare nella sua agenda molto più spazio di quanto ne abbia avuta durante la campagna elettorale. E soprattutto è verso Pechino, la rivale sulla scena mondiale, che dovrà volgere lo sguardo. Durante la corsa alla Casa Bianca la Cina è stata menzionata solo per le questioni che riguardano il commercio e il valore della sua valuta. Ma il presidente rieletto per il secondo mandato sa benissimo che le relazioni bilaterali con l’altra grande potenza hanno un urgente bisogno di essere governate con coerenza. E necessitano di una correzione di rotta rispetto al recente passato. Anche spiegando ai cittadini che alcuni luoghi comuni sono appunto tali e la realtà è diversa.
La Cina è un obiettivo politico facile. I disoccupati americani individuano nella delocalizzazione dei posti di lavoro delle industrie manifatturiere verso Oriente la principale causa della loro difficile situazione, aggravata dal fatto che, secondo la vulgata, Pechino mantiene artificialmente deprezzato il renminbi per sostenere la competitività dell’export cinese a spese dei lavoratori americani. Tale attacco era naturalmente giustificato qualche anno fa, quando la valuta cinese era pesantemente sottovalutata. Oggi invece, gli economisti ritengono che il renminbi oscilli vicino al suo prezzo di mercato, dopo che da un certo tempo le autorità cinesi ne lasciano lievitare il valore. Considerando il più alto tasso d’inflazione, la moneta cinese si è rivalutata rispetto al dollaro del 15 per cento nel corso degli ultimi tre anni.
La disputa sulla valuta ha purtroppo oscurato un quadro del commercio bilaterale Usa-Cina che è meno negativo di quel che appare e che è migliorato proprio durante il primo mandato di Obama. Le forze del mercato hanno messo in atto un consistente sforzo per riequilibrarlo. Anche se il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina è rimasto alto dal 2007, da quando ha raggiunto i 258 miliardi di dollari, la sua crescita ha cominciato a rallentare. Nello stesso periodo, le esportazioni statunitensi verso la Cina sono aumentate a ritmo sostenuto, da 63 a 104 miliardi di dollari. Dunque una guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina non solo non è necessaria, ma può essere evitata del tutto; naturalmente solo se le pressioni politiche interne non forzeranno il presidente a commettere uno spaventoso errore. Mentre assai più rilevante è oggi la competizione geopolitica tra i due Paesi che, se gestita male (e qui sta la vera sfida dell’inquilino della Casa Bianca), potrebbe deflagrare in una vera e propria guerra fredda.
Nonostante l’alto grado di interdipendenza economica, gli Usa e la Cina si considerano dei rivali politici, se non addirittura dei potenziali avversari. La diffidenza a livello strategico è reciproca. Per Washington, la modernizzazione delle forze militari cinesi risponde sempre di più a una ben concepita strategia per negare agli Stati Uniti il loro legittimo accesso al Pacifico Occidentale senza restrizioni. Nella capitale americana c’è chi considera gli investimenti cinesi, tra cui anche i più innocenti acquisti di debito del Tesoro americano, parte di una estesa cospirazione tesa a minare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. E tra i funzionari della difesa e dell’intelligence statunitense diversi sono convinti che dietro ai sofisticati cyber-attacchi contro le forze militari e le reti industriali americane ci sia il governo cinese.
Ovviamente lo stesso tipo di sospetto anima Pechino, dove i funzionari del governo, e persino i cittadini comuni, sono convinti che gli Stati Uniti stiano mettendo in atto una nuova strategia di contenimento contro la Cina, semplicemente perché non tollereranno un concorrente a pari livello. Peraltro, trovare delle prove per sostenere questo sospetto non è difficile: gli Stati Uniti hanno annunciato che per «spostare il loro peso» verso l’Asia dispiegheranno nel Pacifico il grosso della loro potenza navale. Inoltre, Washington ha rafforzato significativamente i vincoli nel settore della difesa con il Giappone, l’Australia e l’India, tutti alleati e amici che possono aiutare gli Stati Uniti a evitare che la Cina si proietti fuori dalla regione. Lo sviluppo più preoccupante degli ultimi due anni è la decisione degli Stati Uniti di offrire il proprio sostegno diplomatico a Paesi quali il Vietnam, le Filippine e il Giappone, che mantengono delle minacciose dispute territoriali e marittime con la Cina. Agli occhi dei cinesi, l’appoggio degli Stati Uniti ha incoraggiato questi Paesi a resisterle.
Dal punto di vista statunitense si tratta invece di passi misurati e responsabili, presi di comune accordo da Barack Obama e dal suo Segretario di Stato Hillary Clinton, nel quadro di politiche tese a proteggere l’America contro una Cina potenzialmente aggressiva ed espansionista. Nel gergo di chi disegna le strategie della Casa Bianca il verbo usato è "garantirsi". Purtroppo, le "assicurazioni" di questo tipo sono percepite nella capitale cinese come passi non amichevoli, se non addirittura ostili. A Pechino si è creata infatti l’opinione per cui la concorrenza strategica con Washington sta per diventare una caratteristica permanente della politica estera.
Per fortuna, al momento il governo cinese non ha risposto con azioni apertamente ostili. Per Pechino, attualmente coinvolta nel proprio processo di transizione della leadership, le priorità sono altre. Tuttavia, se la faglia strategica tra gli Usa e la Cina dovesse allargarsi e approfondirsi ancora, il resto del mondo potrebbe trovarsi delle sorprese poco rassicuranti. Gli scenari possibili sono diversi se i leader dei due Paesi dovessero permettere un’escalation e trasformare tensioni di lieve entità in crisi consolidate. Ovviamente gli Stati Uniti hanno ancora molte carte da giocare per rendere la vita difficile a Pechino. Possono approvare la vendita di armi avanzate, come i jet F-16 C/D, a Taiwan, una misura che farebbe sicuramente arrabbiare i cinesi. Washington potrebbe stabilire delle relazioni militari formali con il Vietnam per incrementare la pressione sul fronte meridionale della Cina. Considerando il peggioramento delle relazioni tra Cina e Giappone, gli Stati Uniti potrebbero anche dar man forte alla determinazione del Giappone con un ulteriore sostegno diplomatico e militare. Presi singolarmente, questi passi non dovrebbero spingere le relazioni sino-americane oltre il punto di non ritorno, ma sommate potrebbero trasformare rapidamente la Cina nel principale avversario strategico degli Usa.
La Cina potrebbe rispondere colpendo a sua volta. Anche se il numero di opzioni a sua disposizone è più limitato. Pechino potrebbe imprimere un’accelerazione alla modernizzazione delle forze militari, o usare il suo potere di veto per mettere i bastoni tra le ruote alla diplomazia americana all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, o persino decidere di offrire il suo appoggio diplomatico a "Stati canaglia", come l’Iran e la Siria, solo per esprimere la sua rabbia nei confronti degli Usa.
Oltre all’economia, Barack Obama e il suo staff fresco di una chiara e netta riconferma sono consapevoli di avere anche un altro compito prioritario: evitare una nuova Guerra Fredda.