Alessandro Gandolfi. National Geographic 11/2012, 9 novembre 2012
UNA STORIA ITALIANA - RISO
L’hanno chiamata Camillolandia. Perché a metà Ottocento Camillo Benso conte di Cavour, da agricoltore qual era, si inventò un canale che cambiò la storia del riso italiano. Il corso d’acqua artificiale, lungo 85 chilometri e stretto fra Po e Ticino, trasformò le province di Vercelli, Novara e Pavia nella Cina d’Europa. Il canale Cavour compirà 150 anni nel 2013 (fu completato dopo la morte del suo ideatore), ma non ha perso la sua funzione: alimentare una perfetta rete di fossi, rii e piccoli navigli lunga in tutto 10 mila chilometri. Un sistema idraulico unico in Europa, destinato a irrigare 235 mila ettari di campi fra Lombardia e Piemonte, dai quali arriva il 90 per cento del riso italiano. L’acqua è indispensabile (per ottenere un chilo di riso ne servono dai 3 ai 10 mila litri) ma non deve essere stagnante: con gli argini leggermente in pendenza, scorre di continuo da un terreno all’altro e serve come "coperta idrica" per difendere la pianta dagli sbalzi di temperatura. In primavera, dall’alto, quando ai canali si tolgono le paratie e la risaia diventa una laguna infinita, il cosiddetto "triangolo del riso" si trasforma in un mare a quadretti, una scacchiera a specchio che tutto riflette: pioppi, cascine, campanili e trattori dalle ruote dentate.
Alle risaie della Lomellina, in fondo, Cavour doveva un favore. Era stata questa ragnatela d’acqua, nel 1859, a intrappolare l’esercito austriaco durante la Seconda guerra d’indipendenza. Un secolo e mezzo dopo, queste piscine a perdita d’occhio attirano soprattutto aironi, cicogne e cavalieri d’Italia, oltre ad appassionati birdwatcher con cannocchiale al collo e turisti in cerca di atmosfere neorealiste stile Riso amaro, il film del 1949 ambientato proprio in due cascine del vercellese.
Il riso, Oryza sativa, è una graminacea come il frumento, ed è la pianta più coltivata al mondo. I 465 milioni di tonnellate prodotti globalmente ogni anno sfamano oltre tre miliardi di persone, quasi metà della popolazione mondiale. E poi ha un’ottima capacità di adattamento alle diverse condizioni ambientali: la qualità più coltivata in Italia, la sottospecie japonica, è in grado di spingersi a nord fino al 45° parallelo, che taglia in due la Lomellina.
Si tratta, per intenderci, della varietà con il chicco corto, la più indicata per i risotti. «Certo, il milione di tonnellate di riso lavorato che si produce nel nostro paese in un anno spiega Roberto Carriere, direttore dell’AIRI, l’Associazione industrie risiere italiane è una goccia rispetto ai numeri della Cina, 197 milioni di tonnellate, o dell’India, 120 milioni. Ma basta per fare dell’Italia il primo produttore europeo. Di quel milione di tonnellate, almeno due terzi l’Italia lo esporta, quasi tutto all’interno dell’UE". Perché anche se siamo leader nel produrlo, noi italiani il riso non lo amiamo particolarmente: il consumo medio è di cinque chili all’anno, contro i 65 chili di media mondiale e i picchi di Cina (150 chili), Laos (170) e Birmania (oltre 200).
Il riso è nato lì, nell’Asia estrema. Dalle pendici dell’Himalaya e dall’India (12 mila anni fa), lo si ritrova successivamente nel Sud-Est asiatico e in Cina orientale (7.000 anni fa): gli imperatori lo seminavano di persona durante cerimonie rituali. Furono loro i primi ad attuare miglioramenti genetici, selezionando una varietà di più precoce maturazione, ideale per la coltivazione nelle fredde zone a nord della Grande Muraglia. "Mangia il tuo riso", recita ancora oggi un proverbio cinese, "al resto penserà il Cielo".
In Italia al riso pensano 4.000 aziende agricole, una cinquantina di medie industrie e quattro "big" del settore (Scotti, Curti, Gallo e Colussi, che insieme lavorano il 60 per cento del prodotto italiano). Da secoli i piccoli risicoltori tramandano ai figli i segreti del mestiere, ma ultimamente i figli sono sempre meno. Perché il futuro del riso italiano è un’incognita, e le variabili in gioco sono molte. Come l’euro troppo forte sul dollaro, che sfavorisce le nostre esportazioni. Come la volatilità dei prezzi, che sul riso grezzo vede variazioni dell’ordine del 20-30 per cento da un anno all’altro. «O come la diminuzione di un buon 7-8 per cento della superficie coltivata a risaia», esordisce Fulco Gallarati Scotti, imprenditore agricolo di Cozzo (Pavia). «Non sono allarmista, sono convinto che il mare a quadretti non sparirà», prosegue, «ma il problema esiste e si chiama biogas. Con l’aumento del prezzo del petrolio, per molti agricoltori già oggi è più conveniente coltivare mais e produrre energia. C’è poi la questione della politica agricola comunitaria, un vero punto interrogativo. È vero, il riso europeo è un prodotto poco competitivo se rapportato a quello dei colossi americani e asiatici. Ma l’Unione Europea ha ancora intenzione di sostenerlo?».
Fulco è un nobile milanese che ha deciso di abbandonare la città per vivere in Lomellina, portando avanti l’azienda agricola che da oltre 500 anni appartiene alla sua famiglia. «Vede», spiega mostrando un pannello conservato nel castello di Cozzo, «questo è uno studio altimetrico per la costruzione di un canale. Lo commissionò Pietro Gallarati alla metà del Quattrocento». Fu il duca di Milano, Francesco Sforza, a concedere al suo avo l’autorità di bonificare e irrigare i terreni, «e a introdurre per la prima volta in queste paludi la coltivazione intensiva del riso», continua Fulco. «Gli Sforza costruirono mulini, cascine e – anche grazie a Leonardo – un primo complesso sistema idrico. Quando, nel 1475, Gian Galeazzo Sforza regalò un sacco di sementi al duca di Ferrara, ci tenne a precisare che quei semi, se ben coltivati, avrebbero fruttato dodici sacchi di riso».
Arrivato in Occidente con Alessandro Magno e nel nostro Meridione grazie agli arabi, attorno all’anno Mille il riso fu coltivato per la prima volta nelle paludi lombarde dai monaci cistercensi: erano però piccoli appezzamenti, giardini dei semplici. Proveniente dall’Oriente via Venezia, sottoposto a forti dazi e dunque troppo caro per essere consumato in grandi quantità, per secoli il riso fu considerato una specie di spezia, una pianta officinale buona solo per tisane contro il mal di stomaco. Presto però fece molto di più che curare pance doloranti. Nel Cinquecento, dopo secoli di carestie, guerre e pestilenze, il riso, grazie alla sua elevata produttività, si rivelò il cereale più adatto ad alimentare una popolazione in forte crescita. Nonostante in molti le considerassero portatrici di malaria, le risaie si diffusero rapidamente in Lombardia, poi in Piemonte e successivamente in Veneto.
Ma il vero boom, che coincise con la nascita della moderna risicoltura e permise all’Italia di diventare un paese esportatore, arrivò a metà dell’Ottocento. Grazie a nuovi macchinari, alla costruzione del canale Cavour e a un episodio che pare uscito da una spy story di Ian Fleming: nel 1839 un missionario gesuita, padre Calleri, di ritorno dalle Filippine si portò via di nascosto 43 diverse varietà di semi. È grazie a lui se sulle nostre tavole oggi non abbiamo solo riso "nostrale", l’unica varietà disponibile a quel tempo in Europa. «Ed è grazie a padre Calleri se oggi noi siamo qui», scherza Mauro Cormegna, responsabile del laboratorio chimico merceologico del Centro ricerche sul riso. «Qui a Castello d’Agogna conserviamo – a una temperatura costante di quattro gradi – una banca del seme unica in Europa: una collezione di 1.300 varietà, alcune delle quali risalgono ai tempi del padre gesuita e grazie alle quali oggi possiamo costruire il riso del futuro».
Riso del futuro significa selezione, miglioramento genetico, nuove specie coltivabili anche con scarsità di acqua, maggiore resistenza ai parassiti e alle avversità climatiche. «Lo scopo è sempre quello di produrre di più», continua Cormegna mentre passa chicchi allo scanner, per poi analizzarne al computer le dimensioni fino al centesimo di millimetro. «Se è vero ciò che dice la FAO, e cioè che nel 2030 nel mondo la domanda di cibo potrebbe essere superiore all’offerta, una soluzione potrebbe arrivare proprio dalla ricerca applicata». Ecco perché i tecnici del Centro, costituito negli anni Settanta dall’Ente Nazionale Risi, spesso si tolgono il camice bianco e indossano gli stivali da lavoro: fuori dall’edificio ci sono 60 ettari di terreno per provare sul campo le idee messe a punto in laboratorio. L’Ente Nazionale Risi era nato nel 1931 per fare fronte, attraverso una politica nazionale comune, a una crisi del riso che durava, fra alti e bassi, da mezzo secolo: colpa della sovrapproduzione e della feroce concorrenza asiatica (dopo l’apertura del canale di Suez l’Europa era stata invasa da riso asiatico a basso costo). "Mangiare più riso", titolava La Stampa il 16 febbraio 1928, consigliando ai suoi lettori "di fare maggiore uso di un alimento principe a buon mercato, che l’Italia produce copiosamente e che si può cucinare in cento maniere diverse, squisitamente".
Erano gli anni in cui l’agricoltura assorbiva ben oltre la metà della popolazione attiva (oggi la quota è inferiore al 4 per cento) e le risaie della Lomellina in tarda primavera si riempivano di 300 mila donne vestite di braghe corte, cappelloni di paglia e calze di filanca contro le sanguisughe. "L’equivalente rurale della commessa sexy", sono state definite le mondine dell’epoca. Mondina, dal verbo mondare, pulire: per un mese e mezzo il loro compito era quello di togliere le erbe infestanti dalla risaia, ma anche quello di trapiantarvi le piantine di riso.
«Stavo intere giornate nell’acqua fino alle ginocchia, a schiena curva», racconta oggi Cristina Pera, 88 anni, da Cozzo, «e la sera quasi non ci vedevo per la stanchezza». La fatica si combatteva ballando nelle cascine, la sera, facendosi fare la corte dai giovanotti del paese e cantando in compagnia: "Macchinista macchinista di Cozzo / metti l’olio nei stantuffi / che di Cozzo siamo stuffi / a casa nostra vogliamo andar", intonavano le forestiere, quelle che venivano dall’Emilia o dal Veneto e che negli anni Cinquanta guadagnavano mille lire al giorno, oltre a vitto, alloggio in branda e un chilo di riso. Oggi le cascine sono vuote, il trapianto a mano delle piantine di riso non si fa più e le poche mondine che rimangono, a parte quelle finte che recitano nei teatri di paese, il mattino presto vanno a caccia del riso crodo, una pianta infestante che solo l’occhio umano riesce a scovare.
«È vero, oggi i trattori hanno velocizzato il lavoro», dice Irene Brustia, presidente della Borsa merci di Mortara, «spargono perfettamente i fitofarmaci e hanno il GPS per andare diritti nell’acqua. Ma c’è una cosa che non è mai cambiata: il calendario». Si inonda il campo ad aprile, si semina in primavera e si raccoglie fra settembre e ottobre, prima del grande freddo. Il riso liberato dalla spiga è ancora grezzo, in gergo si chiama risone, ed è rivestito da una membrana ricca di silice, dunque non commestibile. Immagazzinato ed essiccato, il risone viene poi sbramato, cioè liberato dal primo rivestimento esterno (la lolla) e passato attraverso una serie di puliture successive, finché non si arriva al riso raffinato. «Alla fine, da cento chili di risone si ottengono 60 chili di riso commestibile», spiega Cesare Gregorio, addetto al controllo qualità dei risoni alla Curti Riso. Ma la lolla noi non la gettiamo, la bruciamo in un vicino impianto e la trasformiamo in energia. Metà la utilizziamo per l’azienda, il resto lo vendiamo».
A vendere il riso invece è da sempre la figura del mediatore, colui che si interfaccia fra l’agricoltore e l’industria risiera, e che oggi assomiglia sempre più a un operatore finanziario. Il suo regno è la borsa, e ce ne sono a Milano, a Pavia, a Novara, a Mortara. Ma è quella di Vercelli la vera Piazza Affari, dove si fissano i prezzi indicativi del risone per il mercato europeo. Ed è qui che Pier Marcello Castelli, vent’anni di lavoro alla Curti e oggi libero professionista, con la sua valigeria di cuoio esamina attentamente chicchi di riso raffinato. Prima di lanciarsi in una vera dichiarazione d’amore: «Il riso è genuino e digeribile, le sue proteine sono migliori di quelle del frumento. Il riso è da sempre simbolo di ricchezza e fecondità. La storia ce lo insegna: le civiltà del riso sono superiori a quelle del frumento. In fondo ai matrimoni mica si lanciano gli spaghetti...».