Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 7/11/2012, 7 novembre 2012
LIBRI “CONTRO LA CRISI DATECI UN’AUTHORITY” - E
così Bertelsmann, colosso dell’industria mediatica europea, e il britannico Pearson hanno fuso le loro case editrici Random House e Penguin Group. E Mondadori ha ceduto l’intera quota di Random House Mondadori a Bertelsmann. Intanto il mercato continua a calare. Di come uscire da una crisi che sembra infinita abbiamo parlato con Stefano Mauri, presidente del Gruppo Gems.
Unirsi per superare la crisi?
La fusione ha lo scopo di unire le forze nell’affrontare l’evoluzione digitale. Hanno messo insieme solo le attività editoriali di varia in lingua inglese per una ragione molto semplice: perché in questo segmento l’e-book ha raggiunto in 5 anni il 20%. Anche assieme sono ben più piccoli e più poveri di Amazon, Apple o Google. Ma in qualche modo questo li aiuterà a bilanciare un po’ lo strapotere delle piattaforme, impegnate in una guerra nucleare per imporre al mondo il proprio ecosistema di distribuzione del sapere. Hanno approcci nuovi grazie alle possibilità offerte dalla rete: controllo, segretezza, esclusiva, sistemi proprietari, brevetti, censure per ragioni estranee alla nostra cultura sono tutte cose alle quali noi, che viviamo nella cultura che è scambio, non eravamo abituati.
Che una di queste piattaforme
“vinca” la guerra è una prospettiva piuttosto inquietante: d’accordo?
Si, per la libertà di autori, editori e lettori. Paragonato al vecchio mondo non si battono per questo o quel contenuto ma per il monopolio sulla carta.
La concentrazione è esportabile
anche in Italia? Lei ha acquistato diversi marchi, negli ultimi
anni. E anche gli altri editori.
Abbiamo sempre acquistato case editrici in difficoltà e le abbiamo rilanciate, quadruplicandone le vendite. Non abbiamo acquistato fatturato ma progetti editoriali da rifondare. La concentrazione di due grossi gruppi persegue fini diversi: economie di scala, investimenti in piattaforme comuni e presenza strategica.
L’Italia, rispetto al mondo anglofono, è parecchio indietro sul
digitale. Perché?
L’editoria italiana è partita esattamente quando poteva partire, nell’autunno 2010. Cioè quando gli agenti internazionali erano pronti a contrattualizzare le licenze su questo nuovo medium per l’Europa, quando le multinazionali hanno cominciato a piantare le loro bandiere in Lussemburgo, quando i lettori cominciavano ad avere abbastanza tablet e reader per fare mercato. É partita dimostrando una enorme rapidità e vivacità. Sono nati trenta negozi on line, tre distributori, i principali editori hanno cominciato a digitalizzare tutto ciò che gli agenti letterari hanno consentito loro. Ci sono solo 30mila ebook ma crescono rapidamente e coprono già il 60% di ciò che si vende su carta. Ibs prima e Mondadori adesso offrono i loro reader. Le stesse piattaforme sono soddisfatte dell’evoluzione del nostro mercato confrontato ad altri mercati europei. Il problema dell’innovazione è investire al momento giusto. Detto questo bisogna mettere i piedi per terra. L’editoria italiana si basa su un mercato di circa 25 milioni di lettori, poco connessi e poco abituati a usare le carte di credito su Internet, l’inglese viene letto da qualche miliardo di umani ma i ricavi dei gruppi editoriali Usa sono ridicoli confronto a quelli delle piattaforme che vendono di tutto. Per fare un paragone: la fusione di due gruppi italiani equivale all’accorpamento di due provincie, la fusione Random Penguin equivale all’unione delle due Germanie, lo scontro tra piattaforme equivale allo scontro delle zolle continentali.
Più volte si è detto della difficoltà del momento di passaggio tra
carta ed editoria. Qual è il punto
di equilibrio negli investimenti?
Nei primi anni bisogna investire in perdita perché quando saremo fuori dal tunnel della crisi il paesaggio sarà cambiato. Il tutto durante una crisi che non è del libro ma del consumo in genere, inevitabile conseguenza dello stato della nostra economia. La riduzione del cuneo fiscale che Prodi aveva annunciato sei anni fa, è in discussione in questi giorni e secondo me è il primo intervento di rilancio da fare, perché dalla crisi dobbiamo cercare di uscire tutti assieme e non c’è tanto tempo: imprese e lavoratori, Nord e Sud.
A Francoforte il presidente dell’Aie ha detto: “Non è più il tempo di parole per il mondo del libro. Ci servono fatti”. Quali secondo lei?
L’ignoranza del nostro mondo che sottende a certe bozze legislative mi fa pensare che il primo provvedimento dovrebbe essere la costruzione di una authority del libro, un centro che assista governi e commissioni parlamentari nel legiferare intorno a materie che ci riguardano. Il nostro mondo non è semplificabile all’infinito per amor di slogan. L’agenda digitale impone scelte salomoniche agli editori scolastici che persino nell’Uttar Pradesh sono state ritenute impraticabili. E nella bozza del ddl così detto Sallusti il diritto di rettifica così com’è ucciderebbe anche i libri di storia recente. Libertà di stampa significa vietare la censura preventiva. Ma se uno mente sapendo di mentire va sanzionato. Non c’è nessuna distinzione tra le frottole e la verità in questo testo. Ideato immaginando una informazione solo patologica: un danno enorme ai lettori.
Avete chiesto che ai libri digitali
venga applicata l’iva agevolata
al 4% come ai libri di carta. Ma
è una misura sufficiente?
É un tema europeo, non italiano. Tutti sono d’accordo ma ci vorrà tempo. Allo stato attuale le multinazionali sono avvantaggiate.
È in crisi il mercato del libro come oggetto di consumo o la lettura come comportamento, abitudine, piacere?
La gente non ha mai letto tanto come oggi. Solo che ha altre fonti di lettura grazie a Internet. Per questo l’ebook è benvenuto. Gli ebook di qualità li fanno gli autori e gli editori, non gli algoritmi. Rilevo quattro dati su cui val la pena riflettere. Mondadori e Rcs hanno venduto le loro case editrici di libri straniere. Le case editrici di libri valgono più di quel che i mercati pensavano. Bertelsmann investe nell’editoria libraria e ha assunto in dieci giorni il controllo di Penguin e di Rhm. Questo ci ricorda drammaticamente gli effetti dello spread per le nostre imprese perché all’origine della vendita c’è una motivazione finanziaria e non industriale.