Piergiorgio Odifreddi, la Repubblica 9/11/2012, 9 novembre 2012
LA TAVOLA LEGGI
Un prestigiatore versa del caffè o del tè caldo in una tazza, lo rimescola con un cucchiaio metallico, e questo si fonde fino a sciogliersi nella bevanda, come se fosse di cioccolato. Dove sta il trucco? In realtà, non c’è! Perché è vero che i metalli in genere si sciolgono soltanto ad alte temperature, ma non sempre: ad esempio, il gallio si scioglie a trenta gradi. Dunque, per liquefare un cucchiaino di gallio non c’è nemmeno bisogno di metterlo in una bevanda calda: basta tenerlo in mano.
Questo strano metallo fu isolato nel 1875 da Paul Lecoq, che gli diede il nome: lui diceva per amor di patria, visto che era francese, ma i pettegoli insinuavano per amor proprio, visto il suo cognome. In ogni caso la scoperta fece scalpore, perché il gallio era il primo elemento non compreso nella tavola periodica pubblicata nel 1869 da Dmitrij Mendeleev. Ma era uno degli elementi di cui il russo aveva profeticamente previsto l’esistenza e le caratteristiche, chiamandolo eka-alluminio e posizionandolo in corrispondenza dell’alluminio, appunto.
Alla storia della tavola di Mendeleev e degli elementi che essa classifica è dedicato
Il cucchiaino scomparso
di Sam Kean (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri, pagg. 410, euro 34), un affascinante libro che dovrebbe essere letto dai molti che della chimica sanno una cosa sola: che c’è. Stranamente, infatti, anche coloro che si interessano di divulgazione scientifica prediligono spesso gli estremi della fisica delle particelle e della biologia dei viventi, snobbando un po’ quelli che in realtà sono i mattoni del mondo e della vita: gli atomi e le molecole, appunto, che trovano il loro fondamento teorico nella tavola periodica degli elementi.
Quest’ultima organizza il centinaio
di elementi conosciuti, disponendoli in sette righe e diciotto colonne. Solo due di essi sono liquidi a temperatura ambiente, il mercurio e il bromo, mentre gli altri sono per tre quarti dei metalli, e per un quarto dei gas. Gli elementi più diffusi nell’universo sono l’idrogeno e l’elio, rispettivamente al novanta e al dieci per cento circa:
the rest is dross,
direbbe il poeta. Gli elementi meno diffusi, invece, sono il francio e l’astato: ce ne sono al mondo, in tutto, una trentina e una ventina di grammi, e siamo tutti scusati se non li abbiamo mai sentiti nominare prima.
Alla base degli organismi biologici e degli strumenti informatici stanno due elementi molto simili fra loro: il carbonio e il silicio. Altri elementi sono cruciali per il funzionamento non solo del corpo, ma anche della mente, a dimostrazione della sua materialità: ad esempio, una carenza di iodio o di litio porta al cretinismo
o alla depressione, e un eccesso di manganese a sintomi simili a quelli del morbo di Parkinson.
Gli elementi sono comunque spesso armi a doppio taglio, e possono essere benefici o malefici a seconda delle circostanze. L’azoto, ad esempio, viene usato nei fertilizzanti artificiali, che sono la benemerita invenzione di Fritz Haber, premio Nobel per la chimica nel 1919: un dottor Jekyll che inventò anche le armi chimiche, al cloro e al bromo, usate dai tedeschi con effetti devastanti durante la prima guerra mondiale. Se però viene inalato, l’azoto ha effetti letali, benché completamente indolori: oltre ad aver causato molti incidenti mortali in miniera, può anche essere considerato il miglior candidato per una “dolce morte”.
Gli strani nomi degli elementi sono il risultato di battesimi non sempre oculati: come nei quasi
indistinguibili bario, bohrio e boro. A volte i nomi richiamano l’astronomia, come il selenio, il mercurio, l’uranio e il plutonio. Altre volte la geografia, come il polonio, l’americio, il californio, il berkelio e lo (stocc)olmio. Altre ancora grandi scienziati, come il copernicio, il mendelevio, il curio, l’einsteinio e il fermio. Altre infine il luogo del loro ritrovamento, come l’itterbio, il terbio, l’erbio e l’ittrio, tutti scovati nella miniera svedese di Ytterby tra il 1794 e il 1878.
Benché la tavola degli elementi sia oggi identificata con il nome
di Mendeleev, i suoi fondamenti risalgono alla scoperta di Johann Döbereiner delle “affinità elettive” che diedero il titolo a un romanzo di Goethe. Del fatto, cioè, che alcuni elementi diversi si comportano in maniera simile. Ad esempio, lo stronzio, isolato nel 1790 da un minerale estratto dalla miniera scozzese di Strontian, ha un peso atomico a metà tra quelli del bario e del calcio, ed è chimicamente affine a loro. Lo stesso succede per la triade formata da cloro, bromo e iodio, e per molte altre.
Ci volle mezzo secolo per riuscire
a mettere ordine nel caos, e almeno una mezza dozzina di chimici contribuirono con idee cruciali, oltre a Mendeleev. Primo fra tutti Alexandre Béguyer, che nel 1862 mise in fila gli elementi in ordine di peso atomico, e notò che dopo i primi 2 le loro proprietà sembravano ripetersi ogni 8 elementi. In realtà, le cose risultarono un po’ più complicate: ad esempio, in entrambe le triadi precedenti gli elementi si ripetono ogni 18 elementi. E oggi sappiamo che la periodicità cresce secondo i doppi dei numeri dispari (2, 6, 10, 14, eccetera), e aumenta dunque da 2 a 8, a 18, a 32, eccetera.
Un altro problema derivò dal fatto che, affinché la tavola funzionasse, alcuni elementi più pesanti dovevano venire prima di altri più leggeri: ad esempio, l’argon prima del potassio, e il cobalto prima del nichel. Le eccezioni sono parecchie, circa il dieci
per cento degli elementi, e questo lasciava immaginare che il vero principio dell’ordinamento non fosse il peso atomico. Qual era, lo trovò nel 1913 Henry Moseley, che due anni dopo morì a ventisette anni nella battaglia di Gallipoli: gli elementi andavano ordinati in base al numero dei loro elettroni o, equivalentemente, dei loro protoni.
Sia l’ordine corretto degli elementi che le loro periodicità si ricavano oggi dalla meccanica quantistica, che agli inizi del Novecento era ancora agli albori. E una delle sue prime previsioni, da parte del danese Niels Bohr nel 1922, fu che l’elemento 72 si sarebbe potuto trovare in campioni di zirconio, che è l’elemento 40: cioè, a 32 posti di distanza. Lo si trovò immediatamente, fu chiamato afnio dal vecchio nome di Copengaghen (Hafnia), e Bohr poté dare la notizia alla cerimonia del conferimento del proprio premio Nobel, diventando istantaneamente un guru scientifico.
Molto più complicato fu individuare l’elemento 43, che rimase a lungo l’anello mancante della tavola periodica. Il primo annuncio della sua scoperta risale al 1828, e ad esso seguirono molti falsi allarmi. Per arrivare a uno vero si dovette attendere il 1939, quando Emilio Segré e Carlo Perrier isolarono il 43 in campioni del 42, il molibdeno, bombardandolo con nuclei di deuterio in laboratorio: per questo fu chiamato tecnezio, “artificiale”, anche se in seguito lo si trovò pure in natura.
Il tecnezio chiuse i conti con la tavola degli elementi naturali, che dalla sessantina dei tempi di Mendeleev era arrivata a contenerne 92, ultimo dei quali l’uranio. Ma proprio il modo in cui il tecnezio fu ottenuto indicò una via per estenderla: così come il decadimento radioattivo fa passare a elementi precedenti, infatti, il bombardamento con nucleoni
fa passare a elementi successivi. In tal modo nel 1940 Edward McMillan e Glenn Seaborg ottennero gli elementi 93 e 94, chiamati nettunio e plutonio. Il secondo procedette poi a trovare una decina di nuovi elementi, ed entrambi vinsero il Nobel nel 1951.
Oggi la tavola periodica è arrivata a 112 elementi, di cui il 106 si chiama seaborgio. Si pensa che ne esistano altri, alcuni dei quali addirittura stabili, o quasi. La storia raccontata da
Il cucchiaino scomparso
non è dunque ancora finita, anche se si sa che non potrà andare oltre il feynmanio, l’elemento 137: un numero magico, legato alla cosiddetta “costante di struttura fine”, oltre il quale gli elettroni dovrebbero girare attorno al nucleo a velocità superiori a quelle della luce. Ma per ora accontentiamoci dei 112 che sicuramente esistono, e delle belle storie su ciascuno di essi
raccontate da Kean.