Andrea Galli, Sette 9/11/2012, 9 novembre 2012
QUEGLI UOMINI VOLANTI CHE GRATTANO
IL CIELO DI MILANO–
Se ne vanno al largo come marinai. Scricchiolano assi di legno, il vento gonfia le verdi reti di protezione, bracciate trascinano la carrucola. Ma quei mugugni ritmati non sono degli oh issa! Qui ci sono operai e le profondità delle altezze. Adesso al ventiduesimo piano, a 88 metri sopra una Milano umida di primo mattino, alle sei e mezzo, inizio del turno, i manovali finalmente lasciano la terraferma, si fissano dentro le imbragature e si issano sui ponteggi. Danno e ricevono ordini. Li scandiscono. Forza. Dai. Svegliatiiiii. Accendono il trapano, incrociano tubi. Indossano maschere da videogame per ripararsi da una saldatura. Puntellano travi. E sempre in pendenza, in campo aperto. In solitaria o al massimo in coppia. Solaria, il nome del grattacielo. I grattacieli. Bestie dai misteriosi rumori. Mettetevi ad ascoltare – un buon punto è il marciapiede di viale della Liberazione dinanzi al lampioncino numero 28 – e sentirete raffiche di muggiti, fischi alla Giovanni Trapattoni, acuti di gufi, il bussare disperato alla porta d’uno inseguito dalla grandine. Oppure camminate nell’elegante, infangata via Armando Spinola, generale italiano che servì gli spagnoli. Scoppia un frastuono da fumetti: skreeee, una frenata di macchine. Sssshhhh, la fuoriuscita di gas. Rumble, un tuono. Forse suggestioni, echi metropolitani. Invece sono soltanto cantieri.
Porta Nuova (290mila metri quadrati di superficie, l’amministratore delegato di Hines Italia Manfredi Catella sviluppatore del progetto) e CityLife (255mila metri quadrati, la società costruttrice controllata da Gruppo Generali e Gruppo Allianz) rivoluzioneranno la concezione ottica ed esistenziale dei vecchi spazi delle Varesine e della Fiera, dunque del centro di Milano. In una gara sulla verticalità. Senza nascondersi. Se non altro perché impossibile. Le altitudini sono impietose. Perfino il Duomo pare una chiesa di periferia deserta alla messa del sabato sera. E la Centrale? Una stazioncina di campagna. Però attenti: sono immagini instabili, ballerine. In movimento. Antonio D’Ascillo, gruista, lassù nella casupola è in balia dell’aria. «Le raffiche possono spostarmi anche di tre metri per botta». D’Ascillo non se ne cura, da uomo semplice e pratico. Altrimenti non farebbe il mestiere che fa, non si presenterebbe così: «Campano, classe 1978, due figli, un mutuo. Basta?».
Il gruista non torna mai a terra. No che non basta, signor gruista. Per cominciare, questi nomi antichi come quello della sua specializzazione oramai in via d’estinzione. Ecco, quale studente di medie e superiori distingue almeno una voce dell’elenco che segue? I cantieri schierano posatori, cablatori, marmisti, facciatisti, cartongessisti, serramentisti. E ferraioli. I ferraioli si riconoscono per quanto son sporchi, anneriti come spazzacamini. Il ferraiolo costruisce le armature della struttura, gli scheletri; fili e tondini tagliano la carne sulle mani, raschiano antico catarro. Nordafricani, per lo più, i ferraioli. «Faticoso, faticoso», dice D’Ascillo; il quale al confronto, per i grandi occhi blu e le mossette da guascone, piuttosto rimanda a un pilota-avventuriero che a inizio del secolo scorso esplorava in macchina i continenti. Antonio sale nel gabbiotto, manovra le leve e dirotta i rifornimenti di mattoni e deposita vetri su un terrazzo. Nella casupola ci sono una radio ricetrasmittente e degli schermi che rimandano le immagini del suolo inviate dalle telecamere. Queste sono posizionate in coincidenza del luogo di carico del materiale. Afferrare, trasferire, lasciare. La gru è una canna da pesca, deve bilanciare peso e forza. È uno strumento chirurgico. Se si ferma il gruista si ferma il cantiere. «Ci portiamo dietro una bottiglietta per la pipì e un sacchetto per l’altra cosa, mica possiamo salire e scendere per andare in bagno. Ci metteremmo troppo tempo». E sia pur privo d’accanimento contro i bisogni fisiologici, sul tempo Alfio Musumeci non tollera discussioni. Figurarsi ritardi.
Quarantaquattro anni, catanese, Musumeci è un responsabile di produzione. Cioè governa. Monta la guardia a calendari, distanze, proteste, scazzi, betoniere, certificati. Gira col sigaro solitamente spento alternato tra mano e bocca, a mo’ degli ufficiali dei carabinieri che in ufficio attendono l’annuncio al telefono della riuscita di un’operazione da loro coordinata. Musumeci ha un sopralluogo da compiere. Guida la spedizione in testa alla torre dalla forma di diamante destinata a uffici. I metri sono 137 e i piani 30. La torre è quasi ultimata. Un reticolato di assi e scale da sei pioli ciascuna portano al tetto, obliquo. Il tetto ha un’apertura nel mezzo, è la base di lancio della navicella, punta verso le suite dell’Hotel Principe di Savoia e verso il cielo da conquistare, anzi da domare.
Scalatori in città. Impresa da lupi di montagna. Alexandru Felner e Nicolae Cionca sono romeni della Transilvania, hanno 35 e 38 anni, sono operai-alpinisti. In un cantiere lo stipendio medio è di 1.800 euro. La forbice è ampia. Salari da 1.200 euro per gli operai di base e di fatica pura, oltre 3mila, anche 4mila, per gli specialisti maestri di tecnica. Per poter operare i romeni debbono possedere il brevetto di guida alpina. Hanno partecipato a un corso sulle vette intorno a Torino per imparare le tecniche di recupero dei dispersi. Ondeggiano nel vuoto, in piedi nella navicella, una piattaforma mossa da un argano e comandata da una pulsantiera. La navicella impiega in media nove minuti per alzarsi e spostarsi. Gli operai-alpinisti installano pannelli solari. Movimenti delicati. Lenti. Da astronauta appena sbarcato. Una forzatura, per i due romeni, tipi forti, energici. I muscoli sono necessari. A volte servono davvero bei cazzotti. Musumeci simula il colpo e indica l’obiettivo: centrare i reni. «Anche ai più esperti capitano crisi di vertigini. Ti coglie il panico, si spegne il cervello. I pugni sono l’unica soluzione d’emergenza, provocano uno choc nel corpo, che si resetta e torna alla normalità» dice Musumeci. Dà una fiammata al sigaro. Non insiste, lascia decidere al Toscano. Accendersi anziché rifiatare.
Gualterius Monich “teutonichus, magister a lapidibus marmoreis”, Anechino de Alamania, Ultico Fussinger di Ulma, Giovanni Nexemperger di Gratz, Petrus de Franzia, Jacobo Coba de Bruges “solitus habitare Parixius”... Scultori, vetrai, falegnami, ingegneri. Nel 1400 partivano da ovunque verso l’immenso, multietnico cantiere del Duomo di Milano. I registri contabili della Veneranda Fabbrica ce li elencano con dovizia di particolari, in un caldo, appassionato, latinissimo elenco di carpentieri, di ingegneri, naturalmente di interpreti per capirsi.
All’ombra dei grattacieli, nel container delle macchinette del caffè – rimbombano passi pesanti da saloon del West – un cartello avvisa che «chi getta a terra rifiuti di ogni genere sarà allontanato». Hasanay Ardian, albanese di 32 anni, autista di muletti, apre il coperchio del bidone e appoggia una bottiglietta d’acqua frizzante svuotata da una sorsata. Richiude attento il contenitore della spazzatura e riprende il discorso. «Ti stavo raccontando di Forte dei Marmi. Ecco, con mia moglie, albanese anche lei, ci piace star bene. Trattarci con cura. D’estate andiamo a Forte. Bella gente, relax vero. Le spiagge dell’Albania? Sei matto? E chi ci torna? A Milano ho comprato casa, mi trovo a meraviglia. Coi colleghi giochiamo a calcio, autisti contro cartongessisti, oppure muratori divisi per nazioni, per continenti». Il campo è in periferia, prima della rotonda che immette sull’autostrada per Genova. C’è scarsa Italia, nelle sfide. Gli italiani sono pendolari e non possono fermarsi a fine turno. Magari per impegni istituzionali, da primi cittadini.
Lavoro pendolare. Bedulita è un paese in altura di settecento abitanti in provincia di Bergamo. La Francia, la Svizzera, Milano, Brescia: non conta la geografia; l’importante è partire, il che dal dopoguerra succede a ondate. «Siamo un posto condannato all’immigrazione», dice il roccioso Marco Arrigoni, 45 anni, impiantista specializzato, in compagnia di un socio dal volto di pirata. «Ma è l’intera nostra valle, la Valle Imagna, a spopolarsi. C’erano le grandi fabbriche e hanno chiuso». Ha il terrore, questo Arrigoni, di rimanere sindaco di se stesso. «Sì, lo amministro io il municipio. E per forza, non c’è più nessuno, all’anagrafe siamo iscritti in settecento e io ne conto duecento. Gli altri? Eh, in giro a faticare». A pagar dazio alla crisi e pedaggio all’A4. «Ogni giorno mi sorbisco all’andata e al ritorno due ore di viaggio». Eppure X Saibene preferisce ugualmente questa vita. Orecchini, bandana, pizzetto. Per quale motivo la X davanti a Saibene? Alla nascita genitori e nonni, che già non andavano d’amorevole intesa, si scannarono sulla scelta del nome. In Comune venne registrato come Gianfrancesco mentre il sacerdote scrisse Gianfranco. Non ci fu verso fin quando il diretto interessato decise da sé: «Il mio nome è Gianni». Gianni Saibene aveva un impiego sicuro. Falegname specializzato vicino a casa, di nuovo in Valle Imagna. Il padrone della fabbrica insistette a introdurre le macchine computerizzate e render meno artigianale il lavoro. Saibene diede le dimissioni. Ama toccar con mano, l’ex mister X. E nei cantieri c’è abbondanza per i sensi.
Piovono cavi dai soffitti come ragnatele. Giacconi appesi a un chiodo sul muro. Spaziali loft su tre piani con vetrate di dodici metri a nord e a sud, chissà chi sborserà 16mila euro al metro quadrato per comprarli. Di sera Milano è una scia di sirene di polizia e ambulanze. Zanzare. Non ci sono ascensori, si va in scalata coi montacarichi che traballano. Sulle pareti in costruzione messaggi col pennarello in codice, brevi e chiari: “ok”, “rifare”.
Le regole del gioco. Il cellulare che non prende. I capelli coperti di calce. Un rasoio abbandonato. Le impronte di anfibi sulla segatura che serve da diga contro le infiltrazioni. Precipizi. Spuntoni. Scalinate che squarciano i muscoli. Cacciaviti appesi al cinturone. I jeans strappati, non una moda ma conseguenza di qualche arrampicata.
Eppoi multe. Leggende. Punti di vista.
C’è stato un muratore stangato dagli ispettori dell’Asl. Utilizzava una sega circolare e non indossava come da regolamento i tappi alle orecchie. Sanzione da oltre cento euro.
Il lavoro del boss. Raccontano che c’era un ferraiolo, un vecio del Veneto. Nonostante rendite milionarie garantite dal possesso di campi e immobili, insisteva a presentarsi in cantiere. Gli piaceva il mestiere, l’avrebbe barattato con le ricchezze e forse anche con il diavolo. La febbre del sudore.
A Porta Nuova lavora Massimo Gastaldi, uno dei boss, 57 anni, geometra, un master all’estero in ingegneria. Ha girato il mondo. Il figlio gli è nato a Dubai ma papà non l’ha voluto portare in Sierra Leone, «è pericolosa». Affacciato dalla balaustra Gastaldi sbuffa. Le vertigini dell’emozione: «Guardi il terzo anello di San Siro e il termovalorizzatore Silla! Due miei cantieri. Anche miei, intendo dire. Bellissimi». Sta sulla torre a Garibaldi da 32 piani e 231 metri, compresi gli 85 di guglia. A CityLife la torre Isozaki, che le ruberà il primato, raggiungerà i 50 piani e diventerà la più alta costruzione d’Italia. «A Milano si lavora bene, è una vacanza. C’è un problema? Alzi il telefono, lo esponi e viene risolto».
Da Porta Nuova a CityLife i grattacieli hanno tutti delle luci sulle facciate. Rosse di notte. Servono ad avvisare i piloti degli aerei. Da questa quota sembrano le minuscole spie lampeggianti dell’allarme inserite in casa, ché la tribù degli operai volanti sta riposando.
Andrea Galli