Gianluca Di Feo, l’Espresso 9/11/2012, 9 novembre 2012
LAURENTINO 38 BENVENUTI ALL’INFERNO
Li chiamano "pezzi": sono l’unità di misura della cocaina venduta dagli spacciatori e l’unico metro che sembra scandire la vita nel Laurentino 38, una borgata di palazzi troppo alti piantati nella campagna romana, in fondo alle sei corsie della Cristoforo Colombo. Di notte, senza il traffico, il centro dista meno di dieci minuti. Ma questa è una periferia dimenticata, che fa parlare di sé solo per i fatti di sangue e le retate della polizia. La Magliana non è lontana, ma "Pezzi" - il documentario realizzato da Luca Ferrari e che "l’Espresso" ha visto in anteprima - obbliga a immergersi in una dimensione cruda, senza la retorica romanzesca delle fiction sulla banda del Libanese e il fascino nero delle trame capitoline. È un racconto spietato in presa diretta, dove violenza e dolcezza, morte e amore si sovrappongono. Una ballata criminale lenta e disperata di esistenze che scorrono tra carcere e droga: uomini e donne rassegnati a un destino senza speranza. Lo si capisce sin dall’esordio con il personaggio principale, il cinquantenne Massimo detto "Pantera", che sui tetti del falansterio bacia la sua compagna davanti al graffito di un cuoricino, poi si china per sniffare e declama: «Questo è il Laurentino 38, qui si parla solo di coca».
Luca Ferrari ha speso due anni per conquistare la fiducia di questo mondo a parte, che ruota intorno alla "bisca del Pantera", la sala giochi ospitata in un minuscolo edificio bianco, simile a un mattoncino Lego, fuori scala rispetto ai colossi di cemento che lo affiancano. Furono costruiti nel 1975 copiando le utopie urbanistiche nordeuropee, con tanti ponti che dovevano unire i blocchi di abitazioni e invece sono diventati bastioni di ogni illecito. All’inizio del millennio si è deciso di abbatterli per bonificare il quartiere. Ma l’isolamento è rimasto. Soprattutto nella bisca, l’unico locale aperto dopo il tramonto, dove si ritrovano i protagonisti, ognuno con la sua storia maledetta, fino a comporre un unico coro, un canto cupo che nelle immagini contrasta con la luminosità del cielo di Roma. Il risultato è un film duro e puro, senza nessun ammiccamento commerciale, che ha faticato a imporsi. La svolta è venuta da Valerio Mastandrea, che ha deciso di sostenere il progetto: «Non conoscevo Luca Ferrari. Si è rivolto a me perché cercava un parere e una mano per chiudere la post produzione di questo lavoro». L’intesa è stata immediata: «Mi ha colpito l’autenticità del modo che ha avuto nel raccontare questi pezzi di vita». Mastandrea conosce bene la periferia della capitale, dove è cresciuto e dove spesso porta spettacoli teatrali. In "L’odore della notte" ha interpretato il capo di una gang di rapinatori che calavano dalle borgate per razziare i piani alti dei Parioli e le ville della Roma bene: banditi che non avevano nulla da perdere, come alcuni dei personaggi del Laurentino 38. Si è impegnato in prima persona nel produrre "Pezzi" (assieme alla Prospekt Photographers), che il 12 novembre sarà in gara al Festival del Cinema nella sezione Prospettive Italia. Mastandrea non ha dubbi: «Credo sia uno dei film più forti che abbia mai visto e la forza te la dà la totale assenza di forma e, soprattutto, di giudizio».
Non ci sono commenti. È come un girone dantesco, in cui ognuno offre il suo dramma alla telecamera. Il "Pantera" parte dall’infanzia, con altri dieci fratelli che si dividevano latte e pagnotta per cena. Poi è finito "al collegio", ossia in un centro di reclusione per minorenni. Ricostruisce quando due guardie lo chiusero in una stanza per violentarlo: «Ce l’ho stampate negli occhi, non le dimenticherò mai». Poi parla degli arresti, quelli «giusti» e quelli in cui si ritiene vittima innocente. Illustra il mondo della cocaina visto dal basso, descrivendone le qualità: «Mi piacciono la mandorlata e la squamata; quella che sa di kerosene fa male. Ma la meglio sta a Milano, lì c’è la centrale». In una scena, tagliata per problemi di diritti d’autore, si prepara la pippata cantando a squarciagola sulla musica del Triangolo di Renato Zero.
A lui si alterna Bianca, la sua compagna. Insieme stendono sul tavolo da biliardo le lettere d’amore che si scambiavano mentre erano entrambi detenuti: biglietti con frasi fanciullesche e disegni a matita. Una scena eterea, surreale nella contrapposizione tra l’atmosfera della bisca e quel tappeto di fogli decorati di cuori, gattini e cuccioli. E insieme ripercorrono l’omicidio del primo marito di Bianca: «Ha sentito il fratello che litigava con gli spacciatori, gli doveva 150 mila lire per l’eroina. Si è messo in mezzo, era un ragazzone grosso; loro avevano paura e hanno tirato fuori le pistole: "Che ti impicci!" e bum bum gli hanno sparato alle gambe. È morto dissanguato».
C’è poi Stefano, 29 anni, che dai domiciliari ricorda il primo arresto. La lite con altri giovani, «dicevano che gli avevo rubato la macchina, ma io non c’entravo: era stato un amico mio. Loro hanno alzato la voce: "Te mannamo dentro". E io ho preso il coltello e gli ho dato due colpi. Almeno so’ finito dentro pe’ na cosa che ho fatto io».
La famiglia è un valore profondo quanto labile. C’è la ripresa della prima telefonata che Bianca riceve dal padre, che l’abbandonò trent’anni fa: «Ci hai ’na voce da pischello, come fai a essere mio padre?», gli dice cercando di trattenere le lacrime. Si incontreranno solo ai funerali del fratello. Perché qui la vita e la morte sono sempre vicinissime, in mezzo sembrano esserci solo droga e carcere: «Questa è la guerra, la pace è quando sei morto», spiega Massimiliano mostrando i tatuaggi nazisti con frasi in tedesco, che interpreta a modo suo.
Una realtà che viene ignorata, cercando di rinchiuderla ai margini della metropoli; annichilendo con terapie massicce di tranquillanti i giovani che provano a disintossicarsi. Viene riscoperta solo quando il crimine varca la barriera d’asfalto del Raccordo anulare e l’allarme per "Roma a mano armata" irrompe nei tg. Ma le radici del male sono in borgate come questa messa a nudo nel documentario. «Luoghi dove è talmente tanta l’indifferenza delle istituzioni che regole e codici si costruiscono da sé», commenta Mastandrea: «Luoghi di persone vere che esprimono la vera essenza del vivere comune. Con tutte le contraddizioni del caso».
Contraddizioni che si incarnano nel volto scavato di Giuliana, lunghi capelli corvini che evocano la Magnani di "Mamma Roma". Lei vive nel ricordo del figlio, morto in un incidente stradale. Parla con la sua foto, ci discute. Ogni giorno si veste e si trucca con cura, per andarlo a trovare al cimitero. Mette fiori freschi sul luogo dello scontro, in un’aiuola spartitraffico trasformata in monumento davanti ai palazzi di uffici. Si lamenta per la difficoltà di trovare lavoro, dà voce dalla xenofobia degli ultimi: «A noi italiani danno quattro euro all’ora per farci sgobbare, gli immigrati prendono il triplo. Qui gli stranieri siamo noi...». Pure lei ha conosciuto la prigione, ora a 58 anni ha finalmente un posto in regola: fa le pulizie, con una paga di sette euro l’ora. Che spende quasi tutti per onorare la memoria del suo ragazzo.
Anche il Pantera cita spesso il caso di suo figlio, detenuto per una rapina. «Così gli toccano vent’anni, ma mica ha ammazzato... Devo parla’ col papa, non si può buttare ragazzi dentro le celle e falli uscì matti». Dai titoli di coda si viene a sapere che la scorsa estate il figlio si è suicidato durante la reclusione in ospedale: doveva scontare ancora quattro anni.