Cynthia Gorney, National Geographic 02/11/2012 (Vol.30 n°5 Novembre), 2 novembre 2012
CUBA OGGI. E’ UN ALTRO GIORNO
[Dopo mezzo secolo è finito il regno di Fidel, e i cubani sperimentano le prime, timide riforme. Ma stavolta non sarà una rivoluzione] –
Pessima idea, rispondo io. Qualcuno noterà che c’è una straniera e manderà a monte il piano.
«No, ho pensato a tutto», continua lui. «Non dovrai scendere dall’auto. Passeremo lì accanto e rallenterò quel tanto che basta, senza attirare l’attenzione. Ti dirò io quando guardare. Cerca di non dare nell’occhio».
Eduardo si è fatto prestare da un amico una màquina, una di quelle vecchie auto americane che compaiono sempre nelle cartoline ricordo dell’Avana. È una Plymouth del 1956, di un colore sgargiante per il quale l’ho anche preso in giro. Chiudo lo sportello con delicatezza, come i cubani si raccomandano sempre di fare in segno di rispetto per la veneranda età delle loro auto. Imbocchiamo una strada costiera e raggiungiamo una cittadina sul mare, a poca distanza dalla capitale. Qui un uomo, pagato da Eduardo e da altre nove persone, sta costruendo una barca a motore abbastanza resistente da portarli via da Cuba tutti insieme.
«È lì», dice Eduardo, rallentando. In fondo a un vicoletto, tra due edifici con rintonaco scrostato, c’è una costruzione senza finestre grande come un garage per un’auto sola. «Dovremo portare la barca fuori, trainarla lungo il vicolo e poi per un intero isolato sulla strada principale, fino a quella piccola discesa a mare coperta di ghiaia», spiega. «Aspetteremo ben oltre la mezzanotte. Ma ci sono gli elicotteri della Marina che pattugliano fino in mare aperto».
Eduardo ha 35 anni, la carnagione chiara, i capelli castani corti e un fisico da lottatore. Ci siamo conosciuti lo scorso inverno: lui è un ex operaio edile ma quel giorno stava cercando di guadagnare qualcosa come tassista abusivo, guidando una berlina coreana presa in prestito. In questi mesi, mentre andavamo in giro per la provincia dell’Avana, abbiamo preso l’abitudine di discutere animatamente, gridando e interrompendoci a vicenda, sulle riforme che stanno cambiando il volto di Cuba. Secondo Eduardo non è vero niente. Ma non si parla d’altro, ribatto io, citando i tanti articoli che ho letto, con titoli come "Il nuovo corso di Cuba" o "Come cambia la Cuba post-Fidel". Lui alza gli occhi al cielo esasperato. A quel punto gli elenco i tanto decantati provvedimenti che starebbero aprendo al mercato la rigida economia socialista cubana: le nuove leggi che permettono alla gente di vendere e comprare case e macchine, di ottenere prestiti bancari, di aprire una piccola impresa privata invece di dover lavorare per lo Stato.
Niente da fare: Eduardo continua a roteare gli occhi. «Va tutto a vantaggio di questi tizi qui», mi dice battendosi la mano sulla spalla, il gesto discreto con cui i cubani alludono all’élite politico-militare che governa il paese. E la rinuncia al potere di Fidel Castro, che quattro anni fa ha ceduto formalmente la presidenza al fratello minore, il pragmatico Raùl? Eduardo ripete ironicamente lo slogan rivoluzionario che abbiamo visto scritto su un muro: «Viva Cuba libre. Libera da tutti e due. Solo allora il paese potrà cambiare sul serio».
In effetti, se esiste una Cuba che sta seriamente cambiando, Eduardo ne è un componente essenziale. Non è un "dissidente", come vengono etichettati quei cubani impegnati in politica che criticano apertamente il regime, in particolare un gruppetto di blogger che si sono guadagnati un notevole seguito all’estero. Eduardo non vuole scappare perché è un perseguitato politico. È solo giovane, pieno di energie e frustrato, una descrizione che ben si adatta a gran parte dei suoi connazionali.
Fin da quando era ragazzo, mi racconta, ha capito che, in termini di realizzazione personale e benessere materiale, la Cuba rivoluzionaria non poteva offrire nulla a nessuno; tranne che ai peces gordos, i "pesci grassi", quelli con le mostrine sulle spalle. Qui non funziona niente, esclama battendo i pugni sul volante della macchina che è riuscito a farsi prestare per la giornata: il modello economico è fallimentare, i dipendenti statali rubano sul lavoro per integrare il loro misero stipendio, i media ufficiali offrono un imbarazzante spettacolo di autocensura e propaganda, il governo fa impazzire la gente mettendo in circolazione due valute contemporaneamente.
«Amo il mio paese», ripete Eduardo. «Ma qui per me non c’è futuro». Nelle nove settimane che ho trascorso a Cuba in questi ultimi due anni, l’ho sentito ripetere tanto spesso e da persone tanto diverse che ho iniziato a considerarlo una specie di lamento collettivo nazionale: amo il mio paese, ma il mio paese non funziona. Certo, tra chi si lamenta c’è anche qualche incrollabile ottimista: quando ne incontro uno faccio scorta di munizioni da sparare nelle discussioni con Eduardo. Ma in realtà, a essere onesta con me stessa, voglio soprattutto convincerlo a non partire con quella barca: il tratto di mare tra Cuba e la Florida è infestato dagli squali, le correnti sono pericolose, le barche affondano e c’è gente di cui non si è saputo più niente.
Ecco allora un ottimista: Roberto Pérez, biologo ambientale, capelli arruffati e tanto entusiasmo per i progressi compiuti da Cuba nel campo dell’agricoltura urbana e delle coltivazioni biologiche. Pérez ha sei anni più di Eduardo. Dei suoi compagni di classe all’epoca della maturità, mi dice, 1’80 per cento ha lasciato il paese. «Ma la situazione sta cambiando davvero», prosegue. «E in fretta. E poi qui ci sono tante cose positive che la gente da per scontate perché le ha avute sin dalla nascita. Mi dica in quale altro paese un bambino può crescere così al sicuro, essere vaccinato, andare a scuola e non avere problemi di gang o di droga. Capisco che per fuggire da tutto questo tanta gente sia disposta ad attraversare il fiume che divide il Messico dagli Stati Uniti. Ma affrontare gli Stretti della Florida per scappare da qui? Proprio non vedo perché».
Non è abbastanza convincente? Ok, ecco un altro ottimista: Josué Lopez, la stessa età di Eduardo, appena tornato a Cuba dopo sei anni in Florida, sempre più deluso dal materialismo esasperato di tanti suoi connazionali emigrati a Miami. Approfittando delle nuove regole, più flessibili, sull’impresa privata e sull’utilizzo delle terre, lui e sua moglie si sono messi in proprio e stanno per aprire un bed and breakfast in una tenuta di qualche ettaro nei dintorni dell’Avana. «Lo dico sempre agli amici che sono andati negli States», racconta Lopez: «Ragazzi, se volete avviare un’attività. Cuba è il posto giusto!».
Eduardo ascolta con interesse e un’espressione seria sul volto. Poi scuote la testa. Una mattina, mentre chiacchieriamo in un bar su una terrazza nel centro storico dell’Avana, l’uomo prende dal tavolo una saliera di vetro. «È da quando sono nato che mi sento dire dal governo: "Guarda! Ti offro questa bella saliera piena!". Ma non è mai piena veramente».
Eduardo posa la saliera - dove ci sarà al massimo un centimetro di sale - e mi dice che è riuscito a procurarsi dei remi. Lui e i suoi amici dovranno remare per un po’ prima di accendere il motore: il rumore potrebbe mettere in allarme le autorità. Già solo partire con la barca è un reato: nessuno degli uomini ha la tarjeta bianca, il permesso governativo che qualsiasi cubano deve ottenere se vuole lasciare il paese, anche solo temporaneamente. I cubani odiano la tarjeta [il governo ha annunciato di recente la sua abolizione per il 2013, ndr]. Ma Eduardo non ha nemmeno presentato la richiesta ufficiale. È sicuro che, come a volte succede, la tarjeta sarà rifiutata con la solita spiegazione che non spiega nulla: No està autorizado. Per di più, un cubano carsi. Soltanto per essere inseriti nella lista di candidati al visto per gli USA bisogna pagare 160 dollari e presentare un invito scritto da parte i un residente negli Stati Uniti.
Eduardo non ha niente di tutto questo. Pensavo che mi avrebbe chiesto aiuto, per i soldi o pi l’invito, ma non lo ha mai fatto. Mi ha soltanto raccontato, di getto, il progetto di partire con barca, durante uno dei nostri lunghi giri in ma china, quasi non vedesse l’ora di confessare il suo segreto a uno straniero. E adesso siamo qui seduti: a fissare una saliera e a pensare a suo figlio, che ha nove anni e non sa che suo padre vuole andare via.
«Non so se è meglio dirglielo o no», si chiede Eduardo. Almeno, dice, con i soldi che spedirà casa il bambino potrà avere un paio di scarpe nuove. «Nella vita bisogna correre dei rischi continua. «Non sono preoccupato. Usa il mio: vero nome, te l’ho detto. Usalo! Non ho paura di nessuno!». Allarga le braccia e ripete il suo non completo, secondo l’uso dei paesi ispanofoni nome di battesimo, cognome del padre, cognome della madre. Gli dico di smetterla di fare sciocchezze, visto che vive ancora in un paese a partii unico, dove chi critica troppo apertamente le autorità viene maltrattato, incarcerato, accusato di essere un mercenario. Gli ricordo che stiamo parlando in pubblico solo perché il cameriere del bar è suo amico, e vicino non c’è nessuno.
Niente da fare, concludo, mi dispiace, il non vero non lo metto. Restiamo in silenzio per un po’. Sotto di noi si stende il quartiere più famoso di Cuba, le strade che i turisti vogliono visitare per prime. Si vedono scintillare le decorazioni in piastrelle di ceramica, la sommità filigranata di una colonna corinzia, uno scorcio di mare turchese
IN QUESTA MATTINA di inizio primavera tutta la città sembra radiosa, anche se nel quartiere in o abito c’è stato da poco un derrumbe: il crollo di un edificio, un evento abbastanza frequente a Cuba soprattutto all’Avana. Palazzi che un tempo erano belli e imponenti stanno ormai marcendo nell’aria tropicale e lo Stato non ha i soldi per restaurarli così crollano, un po’ alla volta o di colpo, con un boato gigantesco seguito da macerie e dolore. Questo derrumbe ha fatto quattro vittime, tra cui tre ragazze adolescenti. L’edificio era stato dichiarato inagibile, ma per vivere all’Avana bisogna arrangiarsi: in alcune zone capita che più famiglie e diverse generazioni si accalchino in case che in tempi meno spartani erano considerate monofamiliari. Eduardo sostiene che le vittime del derrumbe siano 21. Lo ha sentito da radio bemba, "radio labbra": il passaparola, Punico mezzo su cui le brutte notizie circolino senza censura. Io invece ho letto il Granma: tra la sorpresa generale, il quotidiano del partito comunista ha pubblicato diversi articoli sul crollo, invece di fingere che non sia mai accaduto, e fissa con certezza il numero dei morti a quattro.
In ogni caso, la città appare radiosa. Frotte di turisti con le cartine in mano si aggirano dappertutto, e a quanto vedo si divertono un sacco a sorseggiare mojito, seguire le guide cubane multilingue e applaudire la cacofonia di rumba e son che si riversa nelle piazze dai ristoranti, dagli angoli delle strade e dai bar.
Ma indubbiamente, e in modo provocatorio, in quelle strade sta accadendo qualcosa di insolito. In alcuni quartieri i nuovi venditori indipendenti hanno occupato i portoni di almeno metà dei palazzi: uomini e donne seduti accanto a bancarelle improvvisate che espongono accessori per capelli, dolci fatti in casa o DVD di film e serie televisive. Affissi alle finestre compaiono i cartelli "Vendesi", finora proibiti perché era consentito solo scambiarsi le case, non venderle e comprarle. Siamo agli inizi del 2012, tra qualche settimana arriverà Benedetto XVI, dopo 14 anni dall’ultima visita di un papa, e lungo il percorso del corteo gli operai stanno ripulendo e ridipingendo le facciate con tanto zelo che sento più di una persona augurarsi che il Santo Padre si faccia vedere più spesso.
Qui e là spuntano imponenti strutture in costruzione, in cui vengono investite le magre risorse del paese. Gru e impalcature stanno a indicare il restauro di edifici storici, il rifacimento delle mete turistiche, la costruzione di nuove infrastrutture del porto. Da alcuni punti lungo la costa si scorge la sagoma dell’enorme piattaforma petrolifera che sta trivellando il fondo dell’oceano al largo di Cuba in cerca dei miliardi di barili di greggio che si ritiene siano sepolti sotto le acque profonde. Se davvero si arriverà a una produzione massiccia di petrolio, per l’economia del paese si aprirebbero nuove possibilità.
Quasi tutti i cubani con cui ho parlato sembrano ossessionati da questa idea: le nuove possibilità del paese. È troppo presto, dicono, per parlare di trasformazione irreversibile: spesso in passato il governo cubano ha dato segnali contraddittori ai suoi cittadini, prima incoraggiando l’impresa privata poi vietandola in quanto controrivoluzionaria. Ma Raùl Castro non è suo fratello, ed è tipicamente cubano lo stato d’animo - un misto di entusiasmo, prudenza, calcolo, umorismo nero e ansia - con cui la gente affronta anche la sola idea del cambiamento, dopo 50 anni sotto Fidel. La reconstrucción de la casa Cuba, la chiama Roberto Veiga, avvocato cattolico e direttore di una rivista pubblicata dall’Archidiocesi dell’Avana, con il tono solenne di un predicatore.
Attenzione però: la metafora della ricostruzione implica un progetto. Ma è illusorio credere che ci sia un progetto di massima che mette d’accordo tutti i cubani. L’individualismo senza costrizioni degli Stati Uniti, dove l’assistenza sanitaria e l’università non sono gratuite? La ricchezza sfarzosa e lo scempio ambientale della Cina?
I problemi economici e le tensioni interne dell’Europa? Il Messico devastato dalle guerre dei narcosi «È questa la nostra grande sfida», prosegue Veiga. La Chiesa cattolica in generale, e in particolare la sua rivista, Espacio laical, sono tra i pochi spazi pubblici in cui si possa dibattere in relativa libertà sul futuro dell’isola. «Come sarà questa casa Cuba?», si chiede. «Il cambiamento sarebbe dovuto cominciare vent’anni fa. Ma non è andata così, e adesso siamo una nazione che tenta di definire se stessa».
Cuba ha 11 milioni di abitanti, meno del centro di Tokyo. È la più grande isola dei Caraibi, e come tutti sanno dista solo 145 chilometri dal territorio degli Stati Uniti; ma il fascino che continua a esercitare nell’immaginario internazionale dipende soprattutto dal fatto che sulla sua storia circolano due versioni del tutto contrapposte, entrambe sconfinanti nella leggenda. La prima versione vuole che un rivoluzionario spietato abbia preso il potere nel 1959, per poi confiscare i beni delle aziende americane, espellere dal paese la classe dei professionisti e mettere a tacere qualsiasi opposizione creando uno stato di polizia totalitario. Questa è l’interpretazione che ancora oggi si sente a Radio Mambi di Miami, la voce della più veemente comunità anticastrista della Florida. Secondo Faltra versione, un brillante rivoluzionario ha guidato la rivolta contro una dittatura corrotta, liberato il paese dal colonialismo delle aziende straniere e dalla mafia, dato istruzione, assistenza sanitaria e valori egualitari a un popolo mobilitato e creato un bastione del socialismo e della cultura accademica, sebbene da 50 anni il governo americano faccia di tutto per distruggerlo vietando ai suoi cittadini di fare affari nel paese e persino di visitarlo da turisti.
Entrambe le versioni contengono un fondo di verità. Ecco perché, e i cubani sono i primi ad ammetterlo, con i suoi paradossi e le sue complessità Cuba affascina e confonde il visitatore, spingendolo a porsi domande importanti, serie, scomode. Qual è la definizione di libertà? Quali sono i bisogni dell’uomo? Quali i suoi doveri nei confronti del prossimo? E quali sono i suoi desideri, al di là delle necessità primarie? «Siamo stati tutti oggetto di un esperimento», osserva pensosa una donna mentre taglia i peperoni per la cena. Ha 58 anni, è laureata, lavora nel campo dell’arte e vive in una casa ariosa, con un prato recintato sul davanti e un patio sul retro, in una zona ricca di verde dell’Avana. La casa apparteneva alla sua famiglia già prima del Triunfo, come i cubani chiamano la rivoluzione del 1959. La donna mi fa notare che tutta la casa è illuminata da lampadine fluorescenti compatte, frutto dell’ambizioso progetto con cui, qualche anno fa, il governo ha imposto a tutti i cubani di passare al basso consumo, nell’interesse dell’ambiente e dell’indipendenza energetica del paese.
«Venivano a controllare», prosegue. «Rompe- vano tutte le lampadine vecchie, lì davanti a tè, per essere sicuri che non le usassi più». Lei ha un figlio, di una decina d’anni più giovane di Eduardo, che ha preferito andarsene e ora vive in Spagna. «Cambiare tutte le lampadine: era un’idea fantastica», conclude. «Il problema è come l’hanno messa in pratica».
IN POCHE PAROLE la ricostruzione di Cuba si può riassumere così: poco alla volta, il capitalismo si sta insinuando nell’isola. Dal 2010 a oggi più di 150 mila cubani hanno lasciato un impiego pubblico o sono stati licenziati: un fatto inimmaginabile doveva garantire a tutti lavoro e tutela sociale. Lo stesso Raùl Castro ha dichiarato che l’apparato statale è ipertrofico, che favorisce la dipendenza e la corruzione, e che bisognerà tagliare mezzo milione di posti di lavoro. I terreni agricoli di proprietà dello Stato vengono suddivisi e dati in concessione a singoli contadini e a cooperative, e vengono cautamente incoraggiati altri tipi di imprese private. Negli ultimi due anni il governo ha autorizzato 181 forme diverse di cuentapropismo, come vengono chiamate le attività in proprio.
Stando alle dichiarazioni di Raùl Castro, anche la libreta, la tessera annonaria rilasciata a tutti i nuclei familiari, potrebbe avere i mesi contati. Sarebbe una svolta epocale. Nessun altro oggetto simboleggia le assurdità dell’economia dell’isola e le complesse reazioni che suscitano nei cubani meglio della libreta, grande come una figurina, con la sua copertina di cartoncino sottile e le pagine di carta bianca su cui sono indicati i prodotti che il proprietario può acquistare a prezzi calmierati: riso, zucchero e - se in famiglia ci sono bambini al di sotto degli otto anni - latte. I vari riquadri devono essere spuntati a mano. Sembra il taccuino di un contabile uscito da un romanzo di Dickens.
Ecco una serie di cose che ho visto fare ai cubani con la libreta:
Rinforzare la sua fragile copertina con carta decorata e nastro adesivo.
Tenerla in una mano, un sacchetto di plastica nell’altra, mentre sono in fila per il pane, sudando per il caldo umido e chiacchierando con chi hanno accanto.
Tirarla fuori di colpo dalla borsa o prenderla dalla mensola della cucina per mostrarmela, esclamando contemporaneamente che la tessera è la prova di quanto i cubani si prendano cura l’uno dell’altro e che, con razioni ormai così ridotte, è possibile che il governo stia tentando di farli morire tutti di fame.
Un giorno vado a casa di un sacerdote della santeria, il culto religioso afrocubano abbracciato anche da molte persone che si definiscono cattoliche, e assisto a una cerimonia in cui l’uomo, tra le altre cose, sgozza piccioni e galline, ne versa il sangue nei sacri piatti e recita preghiere in lingua yoruba. Mentre cerco di riprendermi, capisco che, in realtà, il sacerdote vuole parlarmi solo della libreta. «Guardi qui!», urla. «Meno di un quarto di litro d’olio a persona al mese! Meno di 300 grammi di fagioli! Un pacco di pasta ogni tre mesi se va bene!».
Le casalinghe cubane usano un’espressione eloquente quando vanno in giro alla ricerca del cibo per la cena: pollo por pescado, pollo al posto del pesce. Hai promesso di cucinare pesce, ma visto che nei negozi non lo trovi, ti accontenti di un po’ di pollo e fai finta che sia il pesce che vo- levi. Eppure Cuba è circondata dal mare: dove finisce tutto il pesce? Ah, grazie di avermelo chiesto, mi amar, risponderà qualsiasi cubano chinandosi verso di tè con un luccichio negli occhi. Il pesce è nei ristoranti. Il pesce finisce sui buffet degli alberghi, dove si accumulano quantità e varietà di cibo che nessun cubano vedrà mai nella sua vita. Il pesce puoi comprarlo in certe case private, se sai a quale porta bussare.
E di solito il pesce, come quasi tutti i prodotti desiderabili a Cuba - dai biglietti per i locali notturni alla tintura per capelli, dai televisori al plasma ai jeans scoloriti - bisogna pagarlo in CUC.
Eccoci arrivati a un aspetto della vita cubana che spinge loyuma (la flessibile parola gergale che può significare sia "americano", sia "straniero", sia, più in generale, "il mondo a nord e a est di Cuba") ad armarsi di calcolatrice, di qualche pillola per il mal di testa e di un buon saggio sulla storia recente del paese. Il CUC, vale a dire il peso cubano convertibile, è una delle due valute ufficiali di Cuba. In teoria è destinato a sparire, come la libreta, e forse quando leggerete questo articolo il governo avrà preso i primi provvedimenti per abolirlo. Ma un accenno al cervellotico sistema della doppia valuta è essenziale per capire la vita di tanti cubani, dominata da quotidiane trattative necessario alla pura sopravvivenza.
Il CUC fu introdotto una decina d’anni fa per sostituire il dollaro e le altre valute straniere che iniziavano a diffondersi e a creare confusione nel paese. Il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, aveva interrotto il flusso di aiuti fraterni (dal grande paese comunista a quelli piccoli) che teneva in piedi l’economia cubana, con conseguenze catastrofiche: mancanza di carburante, blackout lunghi 14 ore, fame diffusa. Per combattere la crisi, il governo aveva deciso di aprire l’isola al turismo internazionale. Fu una svolta rapida e abbastanza brutale, con un boom dell’edilizia - hotel sulla spiaggia, campi da golf, aeroporti internazionali - che continua ancor oggi, mentre i cartelloni sulle strade e sui muri di città non smettono di proclamare i loro slogan anticapitalisti:
SOCIALISMO O MORTE!
IL CAMBIAMENTO RAFFORZA IL SOCIALISMO!
In teoria, il CUC dovrebbe essere usato per pagare merci e servizi in qualche modo collegati agli stranieri: conti d’albergo, transazioni internazionali, magliette con la faccia di Fidel nei negozi di souvenir, e così via. Ogni CUC vale circa un dollaro, e non è difficile procurarsene: basta andare in un ufficio cambi con qualsiasi valuta, e gli impiegati statali dietro al banco forniranno l’equivalente in CUC a qualsiasi cliente, yuma o cubano che sia, augurandogli buona giornata alla fine dell’operazione.
Questi impiegati - come tutti i dipendenti pubblici cubani, al momento circa 1’80 per cento della forza lavoro del paese - non sono pagati in CUC, ma nell’altra valuta nazionale, il peso cubano o moneda nacional. Un peso vale un ventiquattresimo di un CUC, o poco più di quattro centesimi di dollaro, e nella Cuba socialista i salari sono fissi; a metà del 2012 gli stipendi oscillavano tra i 250 e i 900 pesos al mese. Di recente alcuni lavoratori ricevono incentivi in CUC per integrare il salario in pesos; altri provvedimenti hanno alzato il tetto degli stipendi e introdotto aumenti salariali legati alla produttività. Ma i cubani sono i primi a ripetere la battuta che riassume la filosofia del dipendente statale: «Loro fingono di pagarci e noi fingiamo di lavorare».
NELLA CITTÀ DI SANTA CLARA, la cui principale at- trazione è un imponente monumento al martire della rivoluzione Ernesto Che Guevara (che combatté al fianco di Fidel e fu ucciso mentre tentava di accendere un’insurrezione in Bolivia), passo un pomeriggio assieme al dottor M, medico di pronto soccorso, che ha uno stipendio fisso di 785,35 pesos cubani al mese. Sono 32,72 CUC. Certo non ha dovuto pagarsi gli studi, ne dovrà farlo per suo figlio, e può contare sull’assistenza sanitaria gratuita per tutta la famiglia. Con i pesos del suo stipendio può comprare generi alimentari di base non inclusi nella Ubreta, libri cubani, biglietti per autobus, partite di baseball, musei, cinema e balletti. Insomma, lo stipendio in moneta nazionale permette al dottor M e famiglia di vivere secondo gli ideali di ascetico nazionalismo abbracciati dal Che negli anni Sessanta; purché si accontentino di detersivi di bassa qualità, bevano caffè mescolato a surrogato, e rinuncino del tutto ai deodoranti.
«Volevo comprare a mio figlio un camion giocattolo telecomandato», mi racconta il dottor M sotto il gigantesco piedistallo del monumento, mentre allunghiamo il collo per vedere il Che. «Sa quanto costa? 40 CUC».
Per essere più precisi, questo sarebbe il prezzo in un negozio pubblico. A Cuba qualsiasi mercé si può trovare por la izquierda, "in fondo a sinistra", il nome in gergo del fiorente mercato nero. Ma l’aspetto più surreale della Cuba del 2012 è l’assiduità con cui il governo, la stessa entità che paga i cittadini in pesos, vende a quelle stesse persone merci in CUC. Nei negozi al dettaglio, che come le aziende farmaceutiche e le miniere di nichel sono gestiti dallo Stato, spesso i commessi non si preoccupano nemmeno di spiegare in che valuta è espresso il prezzo della mercé: se un oggetto luccica, o vibra, o ha una bella confezione, i cubani sanno che va pagato in CUC e, incuranti di quello che il fantasma del Che potrebbe sussurrargli all’orecchio, lo desiderano.
Sul mio taccuino ho segnato alla rinfusa alcuni prezzi. Dentifricio Pepsodent: 1,50 CUC. Frullatore elettrico: 113,60 CUC. Set da salotto composto da divano a due posti e poltrona imbottita: 597 CUC. I centri commerciali multipiano, con bar, sale giochi e negozi d’abbigliamento, accettano soltanto CUC.
Prima di Raùl i telefoni cellulari erano vietati, ma ora sono dappertutto: apparecchi e abbonamenti si pagano in CUC. Anche la Bucanero Fuerte, una delle buone birre cubane, si compra più facilmente in valuta convertibile. Una bottiglia costa un CUC: somma non irragionevole in molti paesi, che però equivale alla paga di un giorno del dottor M. Ecco perché per lui quel camion giocattolo è un problema. Ecco perché per quattro giorni alla settimana, cioè quando dovrebbe essere di riposo dopo i suoi turni di 24 ore, il dottor M guida un taxi. O, per meglio dire, guida la sua macchina, un vecchio macinino di fabbricazione sovietica che ha ereditato dal padre.
Lo usa per caricare i turisti, perché i turisti pagano in CUC.
In alta stagione, un mese di lavoro con il taxi può fruttare al dottor M l’equivalente di quindici stipendi da medico. A Cuba non c’è niente di strano. Tutta l’industria del turismo pullula di cubani dall’impeccabile curriculum scolastico che hanno smesso di esercitare la loro professione perché, dopo tutti gli anni passati a studiare per poter servire il paese come ingegneri, medici o psicologi, vengono pagati con "la moneta che non vale niente". I cubani parlano di "piramide capovolta", con un tono di disperazione nella voce, come a dire: ecco perché i giovani più ambiziosi continuano a emigrare.
Dopo aver esaminato l’oggetto che il Che stringe nella sua mano gigantesca, e aver concluso che si tratta di una bomba a mano, io e il dottor M entriamo nel museo. Prima di incontrare Fidel Castro, Ernesto Guevara si era laureato in medicina nella natia Argentina: mentre passiamo davanti alle bacheche dove sono esposte le sue riviste mediche e il suo camice, io continuo a guardare il dottore. Lui mi racconta che è la prima volta che visita il museo da quando, 15 anni fa, le ceneri del Che sono state riportate a Santa Clara; poi resta in silenzio, impassibile, e quando usciamo dice soltanto: «Non capisco come siamo arrivati al punto che un tassista guadagna più di un medico». Dalla faccia che fa è chiaro che non desidera approfondire ulteriormente l’argomento Che Guevara. «Davvero, non lo capisco», ripete.
EDUARDO MI HA DETTO CHE, sulla base delle informazioni sul meteo e sulle maree che sono riusciti a raccogliere, lui e i suoi compagni di viaggio hanno deciso di partire con la barca subito dopo la visita del papa. Mentre visito l’interno dell’isola ricevo di tanto in tanto un SMS dal suo numero: "Ciao amica mia presto andrò in vacanza".
Nel frattempo io cammino molto a piedi, oppure mi allaccio caschi dall’aspetto poco resistente e salgo (a mio rischio e pericolo) a bordo di mototaxi che mi portano in giro. Ai miei occhi di straniera, la nuova Cuba appare logora e vera, come se un enorme mercatino delle pulci fosse stato smantellato e sparpagliato per tutta l’isola. Ragazzi seduti sulle scale dei palazzi chiedono se ho da riparare un cellulare o da ricaricare un accendino. Sulla veranda di casa le famiglie sistemano tavoli su cui espongono utensili da cucina usati, termos di caffè e piatti sbeccati con sopra panini al prosciutto e formaggio. Ecco qua e là un negozietto di quartiere di cui, in via sperimentale, lo Stato ha ceduto la gestione: per esempio botteghe da barbiere o piccoli bar affidati ai vecchi dipendenti. Ecco un ex insegnante di matematica, 42 anni, che parla perfettamente il russo (lo ha imparato ai bei tempi degli aiuti sovietici) e ora ha preso in affitto Patrio di un palazzo a Camagùey, al centro dell’isola, per vendere vestiti per bambini. I prezzi sono in CUC. «Li cuoce mia moglie», mi spiega l’uomo. «Anche lei faceva l’insegnante».
Di ritorno all’Avana, vado in un nuovo ristorante chic in un quartiere residenziale. Si chiama Le Chansonnier, anche se non ha insegne all’ingresso: infatti è un paladar, un ristorante privato allestito in un’abitazione, e chi ha soldi in tasca - o meglio, chi ha CUC - sa dove trovarlo. A Cuba i paladar sono legali da anni, ma fino a qualche tempo fa erano pochi e strettamente controllati affinché rimanessero piccole attività familiari che non sottraevano clienti ai ristoranti di Stato. Dal 2011 però il governo li ha autorizzati a ingrandirsi e ad assumere personale: così, come le camere affittate agli stranieri, sono diventati fonte di notevoli guadagni in CUC per i loro proprietari. «Ho sempre sognato di avere un’attività mia», mi racconta Héctor Higuera Martinez, 39 anni, uno dei proprietari di Le Chansonnier. «Volevo fare l’ingegnere, ma poi ho capito che con il turismo potevo guadagnare di più».
Higuera fa un cenno con la mano a qualcuno, e subito mi viene servita una splendida insalata di lattuga cappuccina, petto di pollo e una spolverata di cacao. Lui intanto cerca di organizzare i vari tavoli da dieci prenotati per la serata. Lo Chansonnier è frequentato da turisti ma anche da cubani, e una cena costa intorno ai 40 CUC a persona. Nella stanza accanto, Laura Fernàndez Córdoba, che assieme a Higuera ha aperto il ristorante nel 2011, con l’aiuto di investitori francesi, si sta occupando dell’acquisto di un nuovo servizio da tavola.
Non ho difficoltà a immaginare che nel locale circoli un sacco di denaro, segno che nella nuova Cuba il cambiamento sta prendendo piede; e comincia a chiarirsi il quadro che mi aveva suscitato tante perplessità durante le mie prime settimane sull’isola. Non tutti i cubani guidano un taxi o servono in un bar in cambio delle mance dei turisti, giusto? Eppure dappertutto trovano in vendita una quantità di mercé non acquistabile in pesos. Mi chiedevo: come fanno a procurarsi tutti questi CUC?
Parte della risposta sta nelle rimesse in dollari ed euro spedite dai familiari che vivono all’estero. È difficile stimare con esattezza la quantità di denaro inviata a Cuba ogni anno, ma secondo alcune stime il totale per il 2012 potrebbe superare i due miliardi di dollari, oltre un miliardo e mezzo di euro. Questo significa che il regime cubano viene in parte finanziato dalla gente che ne è fuggita. E poiché sia il governo americano sia quello cubano hanno ridotto le restrizioni sui soggiorni a Cuba degli emigrati che tornano a visitare le famiglie, i cubani d’America che riabbracciano piangendo i parenti all’aeroporto dell’Avana di solito portano con sé denaro e oggetti vari: televisori, elettrodomestici, borsoni pieni di vestiti e qualsiasi altra cosa i loro cari possano rivendere por la izquierda in cambio di CUC.
E poi c’è il furto, che negli anni della grave crisi seguita al crollo dell’Unione Sovietica è diventato una pratica di sopravvivenza diffusa in tutto il paese. Il verbo luchar, lottare, a Cuba ha anche una traduzione più elaborata: "appropriarsi di oggetti del luogo di lavoro, costretti da un sistema che ci da salari con cui non possiamo permetterci neppure una misera Buca-nero". La lucha prevede che gli oggetti in questione possano essere mangiati, bevuti, usati, barattati o rivenduti. Durante la campagna di riforme voluta da Raùl decine di alti funzionari sono stati arrestati per corruzione, ma ancora oggi una delle attrattive principali di un posto di lavoro è la quantità e la qualità della lucha. «Se intorno a tè non vedi roba che puoi portare a casa o rivendere», mi dice sicura una donna sulla quarantina che vive in un quartiere operaio alla periferia dell’Avana, «è segno che non hai un buon lavoro».
Questo metodo di sopravvivenza - rimesse più piccoli furti - non è affatto insolito per un paese come Cuba, una piccola isola tropicale che non dispone di abbondanti materie prime da esportare. E non lo è neppure il terzo canale attraverso il quale i CUC finiscono nelle tasche dei cubani: il commercio legale di ogni genere, che procura, direttamente o indirettamente, valuta straniera. Eppure da mezzo secolo il governo del proyecto socialista - ancora oggi è questa l’espressione preferita nei comunicati ufficiali - fa di tutto per escludere gran parte del paese da quello stesso sistema di compravendita che genera denaro. Osservare i cubani alle prese con questi problemi, proprio mentre ferve il dibattito su quanti e quali ostacoli alla libera impresa vadano abbattuti, è un’esperienza che fa riflettere.
Ad esempio: le nuove leggi sul lavoro autonomo hanno permesso a Higuera e Fernàndez, i proprietari di Le Chansonnier, di aprire un’azienda privata a scopo di lucro, e di assumere dieci dipendenti, purché paghino le tasse. Ma le imposte sulle attività commerciali - un concetto di per sé relativamente nuovo a Cuba - aumentano drasticamente quando viene assunto nuovo personale. Le nuove regole su fisco e libertà d’impresa che il governo sta introducendo in via sperimentale sono comunque congegnate in modo tale da limitare l’espansione del settore privato, e la questione dei limiti - fino a che punto possono aspirare al successo gli imprenditori privati? - è oggetto di animate discussioni politico-filosofiche.
L’anno scorso, dopo mesi di dibattito in tutto il paese, è stato pubblicato un importante documento ufficiale intitolato "Linee guida per la politica economica e sociale del partito e della rivoluzione". Per la precisione le linee guida sono 313, ognuna relativa a un tema specifico, dall’uso dei terreni all’importanza dello sport nell’educazione civica. La linea guida numero tre proclama che la "concentrazione della proprietà" da parte dei singoli "non sarà consentita". Che cosa significa esattamente? Il documento non lo spiega. Secondo i cinici, con quel passaggio il governo dice chiaramente che non tollererà nessuna minaccia, nessuna reale concorrenza, alla burocrazia e ai privilegi personali delle aziende statali. Secondo i meno cinici, significa che Cuba deve procedere con cautela verso le privatizzazioni, cercando allo stesso tempo di proteggere i servizi sociali su cui ormai i cubani fanno affidamento. Per quanto slogan come "Socialismo o muerte!" appaiano irrimediabilmente logori ai più giovani, nella coscienza nazionale sarebbe ancora profondamente radicata l’idea che sia ingiusto permettere ad alcuni cittadini di diventare molto più ricchi degli altri.
Quando gli chiedo delucidazioni sulla linea guida numero tre, Juan Triana Cordovi, economista di lungo corso e docente all’Università dell’Avana, mi risponde: «Non lo sappiamo ancora. Potremmo privatizzare tutto dall’oggi al domani, scatenare una specie di big bang come è accaduto in Russia, ma non mi pare che lì sia andata molto bene. Oppure si può procedere per gradi e vedere che succede. Io sono tra i fautori di questa soluzione. È come attraversare un fiume sui ciottoli, un passo dopo l’altro, e a ogni passo assicurarsi che la pietra sia ben salda».
Ecco allora che, viste da un’altra prospettiva, quelle linee guida tanto sbandierate possono sembrare l’ennesima saliera semivuota. Ed ecco perché tanti giovani passano il tempo a parlare del futuro con i coetanei: meglio restare o andarsene via? Oggi esistono diversi modi per emigrare, quasi tutti molto più sicuri di una traversata notturna a bordo di una barchetta messa in mare di nascosto. Chi ha parenti fuori da Cuba può ottenere il ricongiungimento familiare, dopo aver sopportato la consueta lunga attesa per la concessione del visto. Tra i professionisti inviati in missione all’estero - come ad esempio le migliaia di medici e allenatori sportivi che attualmente lavorano in Venezuela - qualcuno decide di non tornare più a casa. «Si cerca sempre di convincere la gente a non andare via», racconta Higuera. «Sempre. Un mio amico adesso vive a Madrid. È arrivato giusto in tempo per la crisi».
Cosa direbbero due imprenditori di successo come Higuera e Fernàndez a un cubano di mia conoscenza, che ha pressappoco la loro età, e che proprio in questi giorni sta facendo scorta di scatolette di tonno in preparazione di una traversata illegale degli Stretti della Florida?
Higuera sospira. «Gli direi: "Se proprio vuoi farlo, allora vai"». Ho sentito diversi cubani rispondere così alla stessa domanda, ma continuo a restare sempre un po’ sorpresa. Pensavo che almeno qualcuno usasse la parola gusano, "verme", l’insulto con cui un tempo veniva pubblicamente bollato chi abbandonava la rivoluzione. Ma nessuno la pronuncia mai. La gente annuisce, dice di capire, magari indica una foto appesa a un muro o a uno specchietto retrovisore: il ritratto di un parente che è scappato. Higuera continua: «Ma gli direi anche che deve essere sicuro di farlo per se stesso e non per soddisfare le aspettative di qualcun altro. E gli raccomanderei di riflettere bene su quello che si aspetta di trovare in un altro paese. Io credo davvero che qui la situazione stia migliorando».
Una settimana dopo, tornata in patria, aspetto che Eduardo, secondo gli accordi, mi faccia una telefonata a carico del destinatario da qualche località della Florida meridionale. Passano due settimane. Poi un’altra e un’altra ancora. Provo a chiamarlo sul cellulare che usava all’Avana, ma non risponde nessuno. Alla fine mi decido a chiamare suo fratello, che qualche anno fa è emigrato in Messico per sposare una messicana conosciuta a Cuba.
La telefonata è molto disturbata e non so fino a che punto posso parlare liberamente. Dico di essere un’americana che ha conosciuto Eduardo all’Avana: voglio solo sapere come sta. Aggiungo che lui mi aveva parlato di una vacanza imminente. Il fratello comincia a parlare con voce concitata. «Non ce l’ha fatta», mi dice in spagnolo. Si mette a urlare: «C’è stato un problema con la barca. El timóri. Non ce l’hanno fatta».
Non ho un vocabolario a portata di mano e non so cosa sia il timóri. L’unica parola simile che mi viene in mente è tiburón, squalo. Agitata, prego il fratello di Eduardo di spiegarmi con esattezza che cosa vuoi dire. Lui mi risponde che non sa bene come descriverlo, è una parte della barca, si è rotta quando non erano ancora troppo lontani dalla costa, ma è andato tutto bene, hanno usato i remi, e ora sono tornati a Cuba. Nessuno è stato arrestato. Eduardo ha deciso di aspettare un po’, aggiunge l’uomo, è andato a stare con la moglie a casa di sua madre e sta mettendo da parte ancora qualche soldo.
Metto giù il telefono e cerco timón sul dizionario. Ora riesco a immaginare che cosa è successo. Sulla barca, con il motore rotto, per un po’ Eduardo e i suoi compagni di viaggio devono aver discusso sul da farsi. Potevano andare avanti, verso una meta che non riuscivano a vedere, senza uno strumento che permettesse di tenere la rotta giusta? Alla fine hanno girato la barca verso il tratto di oceano che già conoscevano bene, si sono messi ai remi e sono tornati a casa.