Francesco Billi, Foglio dei fogli 5/11/2012, 5 novembre 2012
Alla scoperta dell’America che verrà – Domani gli oltre 300 milioni di americani sceglieranno se il presidente Barack Obama resterà alla Casa Bianca o se il prossimo inquilino sarà il candidato repubblicano, Mitt Romney
Alla scoperta dell’America che verrà – Domani gli oltre 300 milioni di americani sceglieranno se il presidente Barack Obama resterà alla Casa Bianca o se il prossimo inquilino sarà il candidato repubblicano, Mitt Romney. Il sistema elettorale degli Stati Uniti è una diretta conseguenza della struttura federale. Questo significa che i voti dei cittadini non finiscono virtualmente in una stessa urna, ma in 50 urne diverse, una per ogni Stato. Stato che, in base alla sua popolazione, elegge un determinato numero di “grandi elettori” e saranno questi (sono 538) a scegliere il presidente. Per vincere servono 270 grandi elettori, ovvero la metà più uno di 538. [1] Il sistema elettorale maggioritario fa sì che anche un solo voto di vantaggio comporti l’assegnazione al candidato vincitore di tutti i “grandi elettori”. Gran parte degli Stati vota sempre per lo stesso partito: esempi classici sono la California e New York per i democratici, il Texas per i repubblicani. Questo fa sì che il numero dei voti “spostabili” da un partito all’altro si attesti fra i 100 e i 150. Due dei più grandi Stati chiave sono Florida e Ohio, importanti perché, essendo popolosi, assegnano molti grandi elettori (29 la Florida e 18 l’Ohio). Anche questa volta la partita si giocherà lì. [1] Paul Volcker, capo della Federal Reserve negli anni ’80: «Il problema più grande dell’economia americana è che il paese è spaccato a metà». Francesco Guerrera: «La scelta delle elezioni presidenziali del 6 novembre è netta su quasi tutti i temi: dalla politica estera all’aborto, passando per la sanità e la difesa. Ma la differenza più inequivocabile tra Obama e Romney è sull’economia. L’elettorato Usa dovrà scegliere tra l’interventismo populista del presidente e il “laissez-faire” individualista del candidato». [2] Mitt Romney: «L’America è sulla strada della Grecia? Stiamo andando verso una crisi economica come quella che stiamo vedendo in Europa, in Italia e Spagna? Se continuiamo a spendere 1.000 miliardi di dollari più di quanto guadagniamo, ci troveremo su quella strada» [10]. «Oggi l’America di Obama spende il 42% del proprio Pil, un valore già oggi simile al livello della Spagna e, a politiche invariate, proiettato a salire fortemente nei prossimi anni, date le riforme di Obama». [3] Nella tradizione della destra americana, Romney vuole «che il governo si tolga di mezzo. La redistribuzione del reddito, lo stato sociale e la sanità, sarebbero delle Cenerentole da lasciare a sinistrorsi ed europei. Mitt dice di voler essere un presidente alla Ronald Reagan, tutto sgravi fiscali e liberalizzazioni, mentre Barack promette un secondo quadriennio tra Bill Clinton e Franklin Delano Roosevelt». [2] Stando ai media italiani, gli elettori di Romney sarebbero il ricchissimo uno per cento della popolazione, i razzisti che non vogliono un presidente di colore e i fanatici religiosi. «Non è così. La stragrande maggioranza degli elettori di Romney fa parte della classe media moderata che vorrebbe ristabilire quell’eccezionalismo americano basato su tasse relativamente basse, su un governo leggero e su un welfare snello e meno distorsivo; una classe media e anche medio bassa che non crede nell’assistenzialismo ma nell’individuo che ce la deve fare da solo, nel privato il più possibile». [3] Gli americani per Romney sono anche preoccupati dal Fiscal Cliff: ovvero il precipizio di bilancio per il quale, se entro certi termini il deficit e il debito americano non si fermano, entrerebbero in vigore automaticamente aumenti delle tasse. Alesina: «Romney e Ryan hanno avuto il coraggio di parlare di come riformare (non eliminare) Medicare ovvero la copertura totale gratuita per tutti gli anziani senza distinzione di reddito. Non è neppure vero che Romney sia un estremista. Come governatore del Massachusetts è stato il primo a introdurre un’assicurazione sanitaria universale. Ha dichiarato di voler lasciare progressivo il sistema di aliquote fiscali sul reddito. Non è neppure un fanatico religioso». [3] Lo scrittore newyorchese Jonathan Franzen: «Obama è cool, in tutti i sensi. È il gatto che cammina da solo. È uno di noi, un professore di Harvard: intelligente, legge i miei stessi libri, vede gli stessi film». [4] «State meglio oggi di come stavate quattro anni fa?» è la domanda che Mitt Romney ha posto agli americani. Martin Wolf: «La risposta è: appena un pochettino meglio. Nel secondo trimestre del 2012, il Pil era superiore del 5,2% a quello del quarto trimestre del 2008, l’ultimo prima che entrasse in carica Obama. Ma essendo entrato in carica in un momento in cui l’economia si dibatteva in una colossale crisi finanziaria, gli analisti devono chiedersi se questi risultati sono accettabili date le circostanze, come sostengono i supporter del presidente, oppure se sono deludenti, come insistono i suoi avversari». [5] A ottobre gli Stati Uniti hanno creato 171mila posti di lavoro, contro i 125mila attesi dagli analisti, mentre la disoccupazione è aumentata dal 7,8 al 7,9% (è cresciuto il numero di persone che cercano un impiego), rimanendo però sotto la soglia dell’8%, dato oltre il quale nessun presidente è mai stato rieletto. Quando Obama ha assunto l’incarico, nel gennaio 2009, il tasso di disoccupazione era al 7,8%. È poi salito sopra l’8% e c’è rimasto per 43 mesi, la serie più lunga da quando è iniziata la raccolta dei dati (1948)». [6] Altro dato confortante per Obama è quello che il Pil americano nel terzo trimestre sia cresciuto del 2%. Platero: «Ma gli investimenti di capitale delle aziende sono caduti. Le aziende hanno contante ma non lo spendono. Temono che, se Obama dovesse vincere, vi saranno problemi seri per il mercato azionario e per aumenti possibili delle tasse, proprio per una impossibilità di risolvere l’impasse politico a Washington su tagli di spesa e aumenti di tasse». [7] L’ultimo mese dello S&P500, il grande indice azionario americano, si presenta con un andamento ondivago con due picchi e due successive ricadute. «Seguendo i movimenti dell’indice di Borsa in conseguenza dei tre dibattiti presidenziali si direbbe che gli investitori di Wall Street stiano tifando per il candidato democratico contro il repubblicano e questa in effetti è un’anomalia. Di solito succede il contrario, perché il partito conservatore promette al mondo degli affari meno tasse e mani più libere. Ma stavolta i comportamenti di Wall Street non hanno molto a che fare con i giudizi degli operatori sui programmi di Obama e Romney o le loro personalità. Tutti pensano alla Federal Reserve». [8] Il secondo mandato del presidente della Fed Ben Bernanke scade a gennaio 2014 ma lui ha già segnalato che non vuole un rinnovo, dunque a giugno la Casa Bianca dovrà trovargli un successore. «In cima alla lista di Obama c’è l’attuale segretario al Tesoro Tim Geithner, poi la vicepresidente della Fed Janet Yellen e Larry Summers: tutti disposti a continuare le politiche di forte stimolo. Romney invece pensa all’economista John Taylor, apertamente critico della scelta attuale di stampare sempre nuovi dollari a centinaia di miliardi. Così Wall Street tradisce la sua dipendenza estrema dall’ossigeno della Fed. E finanziando (anche) Obama, spera di garantirsene parecchio per altri quattro anni». [8] Intanto continua, lentamente, lo smaltimento della grande indigestione debitoria del 1995-2006, un cammino che vede le famiglie americane a meno di metà del guado nel ritorno a tassi di indebitamento storici. «Il debito era al 134% del reddito disponibile nel 2007, è ora al 113% mentre la norma degli anni 1970-1999 è stata del 75 per cento. E se si abbatte il debito si spende meno. Il tutto poi avviene all’ombra del fiscal cliff, il baratro fiscale, il rischio molto concreto di paralisi imminente quando con il primo gennaio prossimo finiranno i tagli fiscali decisi dieci anni fa da George W. Bush, e termineranno altri sostegni al reddito delle famiglie decisi da Obama nel 2010. Il gettito aumenterà del 2,7% del Pil e l’economia, visto che le maggiori entrate federali andranno tutte a ridurre il deficit e non in spese, si troverà con almeno il 2,7% del Pil in meno, cioè circa 400 miliardi di dollari. Sarebbe la recessione sicura». [9] Sia Obama che Romney dicono che eviteranno lo choc con accordi-ponte in attesa di trovare nel corso dell’anno un accettabile equilibrio fra entrate e spesa federale, «ma non c’è fiducia nella capacità politica di gestire, se non in modo cruento, un deficit cronico del 30% fra entrate e uscite. L’Europa stagna nelle morse dell’austerità che sta risanando i bilanci, se non uccide le economie. Ma l’America deve affrontare ancora questo passaggio, evitato finora grazie al credito internazionale di cui gode, alla capacità non intatta ma ancora notevole di indebitarsi ulteriormente, e al ruolo internazionale del dollaro. Non sembra comunque realistico che sia lo stesso Obama che Romney riescano a recuperare il terreno perduto se non alla vigilia delle prossime elezioni, nel 2016». [9]