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 2012  novembre 08 Giovedì calendario

Ma questa nuova America sembra la vecchia Europa - Sette «latinos» su dieci, nove neri su dieci e sei elettori di origine asiatica su dieci han­no votato per Obama, mentre il 60% e forse più dei bianchi ha scel­to lo sconfitto Romney: così la nuo­va America multietnica ha preval­so non solo su quella antica dei Wasp, ma anche su quella della vecchia immigrazione europea, italiana, irlandese, tedesca, polac­ca

Ma questa nuova America sembra la vecchia Europa - Sette «latinos» su dieci, nove neri su dieci e sei elettori di origine asiatica su dieci han­no votato per Obama, mentre il 60% e forse più dei bianchi ha scel­to lo sconfitto Romney: così la nuo­va America multietnica ha preval­so non solo su quella antica dei Wasp, ma anche su quella della vecchia immigrazione europea, italiana, irlandese, tedesca, polac­ca. La recente evoluzione demo­grafica degli americani ( destinata ad accentuarsi nei prossimi anni sia a causa della maggiore prolifi­cità dei gruppi vincenti, sia dell’in­tenzione di Obama di legalizzare buona parte dei dieci milioni di immigranti illegali dall’America latina) ha avuto una parte deter­minante nella conferma del presi­dente e sta modificando in forma permanente i vecchi equili­bri politici. Ma, oltre a consentire a Obama altri quattro anni di tempo per completare il suo program­ma, essa com­porta una rivo­luzione cultu­rale destinata col tempo a fa­re somigliare sempre di più gli Stati Uniti al­la vecchia Eu­ropa. Almeno fino al 2008, quando Oba­ma ottenne il suo primo mandato, la maggio­ranza degli americani credeva nel libero mercato, nella respon­sabilità individuale e nello Stato minimo e si opponeva tenace­mente perfino a un sistema sanita­rio che coprisse tutti i cittadini. Il loro eroe era Ronald Reagan, il cui slogan preferito era «Lo Stato è il vostro vero problema» e che, nonostante gli oneri della guerra fredda riuscì ad abbassare la pres­sione fiscale. Oggi, il nuovo bloc­co vincente sembra disposto ad accettare un ruolo crescente del governo federale nella gestione dell’economia e nella creazione di nuovi posti di lavoro, favorisce una politica sociale che riduca le differenze tra le varie classi e non si oppone nep­pure all’inter­vento pubbli­co in aiuto del­le azi­ende e del­le banche in dif­ficoltà: la vitto­ria di Obama nello stato­chiave del­l’Ohio, per esempio, è do­vuta soprattut­to al contesta­tissimo salva­taggio ( con sol­di del contri­buente) dell’in­dustria auto­mobilistica. Molto indicati­vo è anche che la maggioran­za di coloro che ritengono che la disoccupazione, oggi al 7,8%, sia il principale problema del Paese abbia votato egualmente per Oba­ma, e che solo un decimo degli elettori si sia lasciato influenzare dal fatto che,per effetto delle poli­tich­e interventistiche dell’ammi­nistrazione democratica, deficit federale e debito pubblico abbia­no toccato livelli mai prima rag­giunti in tempi di pace e stiano­se­condo i pessimisti - spingendo perfino la ricca America verso la bancarotta. Nella società americana ci so­no, tuttavia, ancora poderosi anti­corpi in grado di fermare quella che i repubblicani, soprattutto nei Tea Party, chiamano la «deri­va socialista »del presidente.L’op­posizione ha mantenuto senza difficoltà il controllo del Congres­so, conquistato nel 2010, e sarà pertanto in grado di obbligare il presidente a scendere a patti sul­la politica di bilancio. Durante la campagna elettorale, tutti i tenta­tivi di trovare una formula di risa­namento della finanza pubblica accettabile a entrambi i partiti so­no naufragati, e se un accordo non verrà trovato entro il primo gennaio una combinazione di au­mento delle tasse e tagli della spe­sa - definita appropriatamente «precipizio fiscale» - potrebbe sprofondare il Paese in una secon­da recessione. Consci del proble­ma, sia Obama sia Romney han­no auspicato, nei loro interventi postelettorali, una maggiore col­laborazione tra i partiti. Per ora i democratici, conforta­ti anche dagli orientamenti del­l’elettorato, insistono che il defi­ci­t debba essere ridotto soprattut­to da un aumento della tasse per i ricchi, mentre i repubblicani pun­tano su un «dimagrimento» dello Stato sociale, ma un compromes­so è inevitabile. Almeno per il mo­mento, Obama dovrà perciòatte­nuare un po’ quella corsa al «cam­biamento » che lo portò alla vitto­ria nel 2008. Tuttavia, la rivoluzio­ne culturale già avviata subirà so­lo una battuta d’arresto e, specie se il Paese riuscirà ad uscire dal tunnel grazie alla linea politica at­tuale, diventerà permanente.