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 2012  novembre 06 Martedì calendario

TRA COERENZA E TRADIMENTO

Schiacciato dalla folla su una balau­stra all’ingresso della chiesa di San Marco a Roma, ho visto sfila­re tutta la destra italiana, quella nostalgica, quella moderata e quella radi­cale, ai funerali di Pino Rauti. È stato un do­cumentario dal vivo di un mondo ferito e non suoni strano quel «vivo» riferito a un funerale. Da qualche anno le manifestazio­ni più vive e riuscite della destra sono i fu­nerali. Non c’è solo l’antica familiarità del mondo missino con i riti nostalgici per i ca­duti, con l’estetica mortuaria. C’è la perce­zione comune di un mondo che volge alla fine. Quella ferita ha ripreso a sanguinare alla vista di Fini, contestato con feroce du­rezza: voglio pensare che Fini non abbia voluto- almeno stavolta- disertare e rende­re onore a un leader, pur sapendo di anda­re incontro al pubblico vituperio. Non era il momento e il luogo per contestare Fini, ma va compresa la rabbia e la delusione di quel mondo ferito e ipersensibile ai tradi­menti. Ma lasciamo i Fini che passano e tentia­mo un bilancio del rautismo. Rauti tentò la folle impresa di far politica a colpi di idee e visioni del mondo. Trasferì la nostalgia del piccolo mondo missino dalla Repubblica Sociale al Sacro Romano Impero, immet­tendo il fascismo nel più maestoso fiume della Tradizione, con la T maiuscola. Sognò l’Europa in pieno nazionalismo missino, lanciò il comunitarismo in pie­no cameratismo, scoprì l’ecolo­gia in piena ideologia e istigò al­la lettura giovani militanti, sot­traendoli al puro attivismo e al­la retorica patriottarda. A lui si avvicinò l’ala colta giovanile che non si accontentava dei sa­luti romani e del tricolore, legge­va Evola e lo preferiva a Gentile, faceva i campi hobbit e riteneva il liberal-capitalismo il nemico principale. Rauti esortò a legge­re e pensare un ambiente versa­to nell’azione, nell’etica della sconfitta e nell’estetica del ri­sentimento. «Veniamo da lonta­no » fu il suo motto. Aveva la lun­gimiranza ideale dei grandi mio­pi e la scarsa dimestichezza pra­tica. Le sue lenti spesse lo resero un alieno per la destra militan­te. Rauti perse la sua aura di ayatollah intellettuale quando perse le diottrie, dopo un’opera­zione agli occhi. È come se si fos­se secolarizzato, spogliandosi delle sue lenti.
Rauti cercò in un primo tem­po di trasferire il pensiero impo­litico di Julius Evola nella mili­tanza politica del Msi e poi di Or­dine nuovo e poi ancora del Msi, in cui rientrò. Subì il carce­re per il suo radicalismo ideolo­gico, coinvolto nella strage di Milano; ma ne uscì indenne, eletto a pieni voti in Parlamento nelle elezioni del ’72. Poi, alla morte di Evola ma sul filo della sue opere più trasgressive - co­me Cavalcare la tigre - Rauti in­traprese, lui di destra tradizio­nale e radicale, un percorso ine­dito che lo portò a vagheggiare «lo sfondamento a sinistra» e l’alleanza rivoluzionaria. L’im­presa si condensò soprattutto in una vivace rivista quindicina­le, Linea , da cui siamo passati in tanti, ed ebbe un ruolo decisivo nella nascita della cosiddetta Nuova Destra. Era una linea di forte suggestione che apriva nuovi scenari, pur occhieggian­do al fascismo sociale e rivolu­zionario. E liberava la destra mi­li­tante dalla sindrome dell’asse­dio, del ghetto e della guerra ci­vile permanente con la sinistra. Ma la linea rautiana non ebbe in­terlocutori a sinistra, e trovò scettica ironia a destra; si perse nel fumo astratto di una lotta al liberalcapitalismo che non ave­va compagni di strada né stru­menti idonei per così titanica impresa. La sua linea fu sconfit­ta da Almirante che aveva più grande fascino oratorio e sape­va toccare come pochi le corde della nostalgia. Almirante ti guardava negli occhi con i suoi occhi azzurri; lo sguardo di Rau­ti si perdeva nei vetri dei suoi oc­chiali. Nessuno dei due poteva dirsi stratega politico: Rau­ti guardava troppo lontano, Almiran­te troppo vicino.
L’uno faceva del­la politica una Visione del Mondo piutto­sto nebulosa; l’altro faceva del­la politica un subli­me teatro di piazza e di video, una fiammata che durava l’arco di un comizio. L’Ideologo e l’Artista.
Per galvanizzare i militanti Rauti soleva dire che il peggiore dei nostri è meglio del migliore dei «loro»; frase utile per cemen­tare un ambiente diviso, ma fal­sa e foriera, nelle menti più de­boli, di uno stupido settarismo. La sezione non era il tempio di un ordine cavalleresco.
L’audace svolta a sinistra di Rauti avvenne sull’orlo della scissione di De­mocrazia naziona­le dal Msi. Rauti, invece, restò nel Msi capeggian­do una corrente di minoranza e di opposizione interna ad Almi­rante e poi a Fini. La sua casa madre fu per anni in via degli Scipio­ni in Roma, un centro politico-li­brario in cui transitavano mili­tanti e lettori. Poi la breve ma in­felice esperienza di segretario del Msi, fin troppo cauto, curio­samente schierato a fianco del­la Nato nella guerra contro Sad­dam Hussein, lui che rappresen­tava la destra filopalestinese e antiamericana (mentre Fini, al seguito di Le Pen, andava a tro­vare il dittatore irakeno). Negli anni seguenti, gli ex rautiani su­perarono di gran lunga i rautia­ni e si disseminarono ovunque. Anche larga parte degli odierni finiani provengono dalla cor­rente rautiana e antifiniana. Le idee che mossero il mondo fu il suo libro più noto (a cui si ag­giunse l’imponente Storia del Fascismo scritta con Rutilio Ser­monti). Con la nascita di An, Rauti abbandonò il partito e suo genero, Gianni Alemanno, e ten­tò la vana impresa di rianimare la fiamma tricolore. Finì male, tra diaspore e microscissioni; più che un partitino avrebbe do­vuto forse far nascere una Fon­dazione per formare i giovani e garantire la continuità con le ra­dici sul piano storico e cultura­le. Passò per nostalgico, lui che ai tempi in cui Fini esaltava il Du­ce, sosteneva di andare oltre il fascismo. Rivoluzionario sul piano delle idee, Rauti era una persona mite e cortese, con una vita tranquilla, sin da quando era redattore de Il Tempo , attac­cato alle sue abitudini domesti­che (i più intransigenti camera­ti gli rimproveravano la penni­ca pomeridiana e il braccino corto, il familismo e il salotto col cancelletto per interdire l’ac­cesso sui divani al cane volpi­no).
Rauti può dirsi l’Ingrao della destra o forse il Bertinotti. Restò a mezz’aria trala politica e la cul­tura, ma fece un pezzo di storia della destra, e non la peggiore. La brutta fine della destra - e di Fini in particolare - esalta per contrasto la figura e la statura di personaggi come Pino Rauti. Al loro cospetto, giganteggia. Non solo le sue lenti erano di spesso­re. Mancò la fortuna, forse il co­raggio, non il valore.