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 2012  novembre 08 Giovedì calendario

IL CORAGGIO DI AGIRE

Obama ha vinto. Ma il clima (anche atmosferico) della sua vittoria è molto diverso da quello di quattro anni fa. Nel 2008 la notte della vittoria era tiepida, con una luna piena che illuminava a giorno un Grant Park dove a celebrare non c’erano solo i democratici, ma tutta l’America. Dopotutto, in quella campagna elettorale Obama era andato ripetendo che in America non esistono Stati repubblicani e Stati democratici, ma solo gli Stati Uniti d’America. E l’America unita aveva celebrato l’alba di quella che sembrava una nuova era. Ieri a Chicago invece faceva freddo, pioveva, e le celebrazioni erano rinchiuse nella sede locale delle fiere aziendali. A partecipare c’erano solo i democratici, felici solo che non aveva vinto il loro nemico. Ebbene sì. Ieri non ha vinto Obama, ma ha perso Romney. Un presidente che in quattro anni ha aumentato il debito del 50%, non è riuscito a far scendere la disoccupazione al di sotto del 7,8%, e non ha presentato un piano serio per ridurre l’esplosione futura delle spese sanitarie per gli anziani (il cui fondo diventerà insolvente tra 11 anni), era facilmente battibile. Romney non è stato in grado di farlo, nonostante gli americani abbiano rinnovato la loro fiducia ai candidati Repubblicani, che hanno mantenuto la maggioranza in Congresso. È stato sconfitto il Romney tecnocratico: competente, ma incapace di parlare al cuore degli Americani. È stato sconfitto il Romney super tattico, bravissimo (forse troppo) ad adattarsi agli umori degli elettori, ma incapace di generare fiducia. È stato sconfitto il Romney troppo succube a quell’America bigotta che crede che il concepimento a seguito dello stupro sia «un dono del Signore» (come ha detto in un dibattito il candidato repubblicano al Senato in Indiana) e che la migliore educazione sessuale sia l’insegnamento dell’astinenza. Questa vittoria suo malgrado, rende difficile al presidente Obama gestire il suo secondo mandato, soprattutto con un Congresso a maggioranza repubblicana. Difficoltà aumentata dalla mancanza di chiarezza del suo programma. Una delle poche proposte chiare è un aumento delle imposte per chi ha un reddito familiare maggiore di 250mila dollari l’anno. Questo provvedimento è lungi dal risanare il deficit federale che viaggia al 10% e non dà segnali di ridursi. Una politica fiscale accomodante nel colmo della più grande crisi economica dal 1929 poteva andare bene, ma continuare quattro anni dopo mette a repentaglio la stabilità finanziaria degli Stati Uniti. La piattaforma elettorale di Obama contiene anche delle proposte utili per combattere la disoccupazione, come un piano per riqualificare due milioni di disoccupati ed assumere più insegnanti di matematica e scienze. Contiene infine 75 miliardi di dollari di spese in infrastrutture. Ma siamo ad una vecchia strategia di «tassa e spendi» che ha fallito nella Spagna di Zapatero e sta fallendo nella Francia di Hollande. E siamo lungi dalle speranze di un nuovo modo di fare politica promesso quattro anni fa. Questo nuovo modo di fare politica non si è visto neppure nella regolamentazione finanziaria. La legge Dodd-Frank ha certamente degli aspetti positivi, come la creazione di un’agenzia di protezione dei consumatori, ma non risolve il problema del «troppo grande per fallire». Ed è difficile pensare che la stessa amministrazione che l’ha approvata possa cambiarla. L’unica speranza del secondo mandato è che, libero da preoccupazioni elettorali, Obama ritorni ad essere quello che aveva promesso di essere nella sua prima campagna elettorale: un presidente bipartisan che tratti i suoi elettori come cittadini adulti e responsabili, dicendo loro le verità (anche amare) e non vendendo illusioni. Se volesse fare questo dovrebbe nominare come ministro del Tesoro Erskine Bowles, co-presidente della commissione sulla sostenibilità fiscale, impegnandosi ad approvare le conclusioni di quella commissione. Sono proposte molto serie e coraggiose per risanare il bilancio federale, tra cui l’eliminazione dei sussidi all’agricoltura, un aumento dell’età pensionabile, ed un aumento dei contributi sociali per sostenere il peso pensionistico futuro. Sarebbe difficile per i Repubblicani opporsi a questo piano, cui hanno in parte contribuito. Libero da necessità di raccogliere ulteriori fondi elettorali, Obama potrebbe anche dedicarsi ad una riforma dei finanziamenti elettorali. Oggi il tipico rappresentate al Congresso è costretto a fare 400 eventi di raccolta di fondi all’anno (più di uno al giorno). È un sistema infernale in cui le imprese si sentono ricattate e i parlamentari costretti a mendicare, ma da cui nessuno può deviare, pena la non rielezione. Per questo solo un presidente nel suo secondo mandato può farsi promotore di una riforma di questo tipo. Solo se si impegnasse in queste riforme e diventasse quel presedente che aveva promesso di essere, Obama potrebbe passare alla storia per qualcosa di più che essere il primo presidente nero degli Stati Uniti.