Sabrina Giannini, Corriere della Sera 08/11/2012, 8 novembre 2012
«CASE E POLEMICHE, LE CARTE NON MOSTRATE»
«Contro le calunnie semplicemente la verità», scrive Antonio Di Pietro sul sito dell’Italia dei valori. «Hanno attribuito quindici appartamenti ai miei figli!».
Evitando di dire la fonte di quell’affermazione falsa, il gioco riconduce all’inchiesta di «Report», nel corso della quale sono stati attribuiti (soltanto) tre appartamenti ai figli più piccoli (uno cointestato a Bergamo e uno a testa a Milano).
Replicare con un falso alle «perle di disinformazione» e «scientifica opera di killeraggio politico» è un po’ come cadere nella casella probabilità del Monopoli. Probabile che l’abbia detto «Report», al quale Di Pietro dice di replicare con la «carta che canta» dal suo sito. Appunto, carta canta.
Alleghiamo sul sito web del Corriere le visure delle sue proprietà, visto che dal sito dell’Idv ne troviamo soltanto alcune.
Di Pietro ci tiene a precisare che i suoi appartamenti sono 11 e non 56, «un equivoco che nasce dalla risposta ambigua di Massimo D’Andrea, il consulente (di parte) di Elio Veltri nella causa contro Antonio Di Pietro, all’inviata di Report» (Il Fatto Quotidiano, 3 novembre).
Sarebbe stato sufficiente rivedere la puntata «Gli insaziabili» per appurare che l’estensore della perizia (giurata) specifica che tra le proprietà della famiglia Di Pietro ci sono anche i terreni, che hanno un loro valore.
Per evitare fraintendimenti, e a conferma di una impostazione garantista, la sottoscritta ha tolto dal dato complessivo le proprietà della moglie e del figlio più grande, Cristiano, e precisato che le proprietà dell’ex magistrato «sono 45, un dato che comprende anche i terreni, le cantine, i garage».
Giocare sui numeri delle proprietà distoglie l’attenzione dal loro valore, quantificato dal perito all’incirca in cinque milioni di euro, ma con una stima prudenziale. Se il valore di mercato dell’intero cespite della famiglia fosse davvero di quindici milioni potrebbe confermarlo un qualunque esperto esterno al quale Di Pietro potrebbe affidare una controperizia.
Nell’intervista a «Report» emergono ben più gravi criticità sulle quali Di Pietro glissa, per esempio in merito all’appartamento di 180 metri quadri in via Merulana a Roma acquistato nel 2002.
«Quando ho visto dalla sua inchiesta che Di Pietro si era ristrutturato l’appartamento di via Merulana con i soldi del partito sono saltato sulla sedia», afferma indignato il capogruppo alla camera Massimo Donadi, «e a me non risulta infatti che in quella casa ci sia mai stata una sede dell’Idv». D’altro canto è lo stesso Di Pietro a confermarlo in una dichiarazione al magistrato nella quale afferma che è domiciliato in via Merulana dal 2000. La carta che canta è stata mostrata da «Report».
Non risulta che i magistrati abbiano appurato se dietro quella fattura ci fosse o meno una sottrazione dei fondi del partito per uso privato. Potrebbe chiarirlo Di Pietro, allontanando così il sospetto di un’analogia con Umberto Bossi: per una faccenda analoga l’ex segretario della Lega Nord è sparito dalla scena politica. Val la pena di rimarcare che anche i suoi trentadue fedelissimi non si sono mai sentiti in obbligo verso gli elettori di chiedere più trasparenza e democrazia al loro leader, pur sapendo che gestiva la cassa del partito con la moglie e l’onorevole Silvana Mura. La stessa incredibilmente nominata dal socio unico Antonio Di Pietro nel Cda della sua società immobiliare «Antocri», con la quale ha acquistato due appartamenti poi affittati al partito.
Nel corso dell’intervista l’onorevole Di Pietro prima non ricorda che il periodo della gestione a tre della cassa è durato per ben nove anni. Poi non ricorda che in quel lasso di tempo i soldi del finanziamento pubblico riversati sul conto corrente sono stati quasi cinquanta milioni di euro, e non lo ricorda nemmeno la tesoriera Silvana Mura. Il presidente dell’Italia dei valori mostra a sua difesa i pronunciamenti della magistratura che lo scagionerebbero da ogni sospetto di appropriazione, arrivando addirittura a negare un dualismo tra partito e associazione a tre che invece proprio la magistratura ha più volte rilevato.
La verità processuale sbandierata esclude però alcuni fatti (magari mai accertati e penalmente rilevanti come quello della ristrutturazione della casa di via Merulana a Roma) che attengono al piano dei comportamenti e dell’etica, che per un politico sono dirimenti.
E lo sono ancor più nel suo caso, perché agli occhi dei suoi elettori, sensibili alla morale, si è sempre posto come moralizzatore. È proprio a loro che l’ex simbolo di Mani pulite certamente non mancherà di mostrare l’unica carta che può davvero cantare dissipando ogni dubbio sull’uso a fini personali dei soldi pubblici erogati al partito: tutta la movimentazione bancaria del partito-associazione dal 2001 a oggi.
I bilanci e le rendicontazioni che mostra oggi, quelle che lui chiama «pezze d’appoggio», valgono poco o niente, e Di Pietro lo sa da quando raccolse la deposizione di Bettino Craxi nel corso del processo Cusani: «I bilanci erano sistematicamente dei bilanci falsi, tutti lo sapevano ivi compreso coloro i quali avrebbero dovuto esercitare funzioni di controllo nominati dal presidente della Camera, ma agli atti parlamentari non risulta».
Il resto, appunto, è un gioco di parole e si sa che nel Monopoli ci sono molte caselle dell’imprevisto.
Sabrina Giannini