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 2012  novembre 08 Giovedì calendario

MA I MERCATI NON VANNO ALLA FESTA

L’ America che si è svegliata mercoledì mattina non è tanto diversa dall’America che era andata a letto martedì sera. Lo stesso inquilino della Casa Bianca, lo stesso Congresso spaccato a metà tra repubblicani e democratici, la stessa economia senza infamia e senza lode.
Eppure... Eppure qualcosa è successo nel segreto dell’urna, tra i pensieri e le fatiche di milioni di cittadini che hanno vissuto la Grande Recessione del 2008-2009, tra le speranze di un Paese che ha fatto dell’ottimismo la sua ragione d’essere.
Il momento più importante della lunghissima nottata elettorale è stato, per me, quando i sondaggi della Cnn hanno rivelato che gli elettori in uscita dai seggi preferivano Barack Obama a Mitt Romney come «gestore» dell’economia.
Quando ho visto gli exit polls ero seduto di fronte all’enorme schermo televisivo in redazione ed ho detto ad un collega, romniano di ferro: «E’ finita. Non ce la farà».
Gli americani non sono riusciti a fidarsi del businessman Romney nemmeno dopo quattro anni di recessione e ripresa anemica, con la disoccupazione quasi all’8% - un livello altissimo per gli Usa - e una montagna di debito che sembra il Mount Rushmore.
Ci sono, ovviamente, altre ragioni per la vittoria abbastanza facile di Obama - la grande partecipazione di ispanici, neri e donne; un partito repubblicano che ha preso posizioni troppo estreme su temi quali l’aborto e l’immigrazione, ed il «fattore umano» di un Presidente che sembra nato per fare campagna elettorale ed uno sfidante che sembra nato per stare nell’ufficio d’angolo con vista sui grattacieli.
Prima delle elezioni scrissi che gli americani avrebbero votato con il portafogli. Martedì, il Paese ha puntato il portafogli verso Obama e gli ha detto: «Hai quattro anni per riempirlo!».
Con il pallino dell’economia in mano, il Presidente uscente e rientrante ha il compito di fare meglio del primo quadriennio.
Ce la farà? I mercati ieri non erano proprio ottimisti, con gli indici guida in crollo un po’ in tutto il mondo (bisogna dire che i venti gelidi di recessione provenienti dall’Europa e le immagini violente della Grecia non hanno aiutato il morale).
Ma gli investitori hanno la memoria corta e Obama II dovrà fargli dimenticare presto l’indigestione post-elettorale.
Appena ritorna nell’ufficio Ovale, il Presidente si troverà a far fronte a tre questioni importantissime. Prima di tutto, la ripresa economica. A breve termine, la crescita dipende quasi tutta dal «burrone fiscale», il cocktail micidiale di rialzi di tasse e tagli di spesa che potrebbe far ricadere l’America nel baratro della recessione.
Le regole del gioco sono semplici: la Casa Bianca ed il Congresso devono trovare un accordo prima della fine dell’anno per non sprofondare nel burrone. Gli investitori e i banchieri pensano che un compromesso verrà raggiunto ma hanno paura che lo scontro d’interessi politici discordanti renda i negoziati lunghi ed incerti, innervosendo i mercati e invogliando le agenzie di rating a bocciare il debito Usa, come successe nell’agosto del 2010.
«Questo film già l’abbiamo visto e non c’è piaciuto per niente», mi ha detto il capo di un grande fondo d’investimento. «Non abbiamo nessuna intenzione di vederne la replica».
A lungo termine, però, la questione più importante sarà come stimolare un’economia che sta crescendo ma molto lentamente. Qui tutto dipende dalla Federal Reserve, che ha promesso di tenere i tassi d’interesse bassissimi fino almeno al 2015 e sta pompando miliardi di dollari nell’economia per aiutare sia il mercato del lavoro sia quello delle case.
La ri-elezione di Obama in questo senso aiuta perché, a differenza di Romney, il presidente ha già detto di essere in favore di una politica monetaria espansionista. Anche se il team economico del Presidente cambierà, con l’uscita certa del Segretario del Tesoro Tim Geithner e quella quasi sicura del capo della Fed Ben Bernanke, le politiche di stimolo rimarranno le stesse.
Il secondo punto caldo sull’agenda di Obama è di colmare il divario gigante tra la Casa Bianca e Wall Street. Quasi tutti i grandi banchieri di New York si sono schierati con Romney, nella speranza che un Presidente repubblicano smantellasse il labirinto di regole costruito dall’amministrazione precedente.
La vittoria di Obama complica la situazione perché lo zoccolo duro dei fan del Presidente - i sindacati, i lavoratori e le minoranze etniche - vuole punire le banche che hanno contribuito alla crisi del 2007-2008. Allo stesso tempo, però, il Paese ha bisogno di istituzioni finanziarie che finanzino individui ed imprese ed accelerino la ripresa economica.
«In un modo o nell’altro, dovremo trovare del terreno comune. Conviene a noi e conviene a lui», mi ha detto uno dei grandi banchieri di Wall Street. Un sentimento nobile ma difficile da realizzare, soprattutto se il Presidente continua con la retorica anti-Wall Street che ha utilizzato spesso e volentieri durante la campagna.
E poi ci sono i mercati. Gli imprevedibili e spesso incomprensibili mercati che reagiscono in maniera rapida e violenta a notizie di tutti i tipi. In un certo senso, questo è il compito più difficile del Presidente in materie economico-finanziarie. Obama si trova di fronte un interlocutore irrazionale con cui non può negoziare.
A giudicare dalla reazione di ieri, gli investitori non hanno nessuna intenzione di lasciare un periodo di «luna di miele» al Presidente. Come il giocatore viziato di football americano di «Jerry Maguire» stanno chiedendo alla Casa Bianca di mostrargli i soldi.
Nella notte di martedì, sul podio del suo quartier generale a Chicago, il nuovo/vecchio Presidente ha promesso che «il meglio dell’America deve ancora venire». Prima di applaudire, i mercati, gli investitori e Wall Street vorranno vedere dei fatti.